Ammesso che siano approvati, con i Recovery Fund o Next Generation Eu fund, arriveranno 750 miliardi di fondi europei nei prossimi 5 anni. Ecco investimenti e riforme per un loro buon utilizzo, non ascoltando le lobbies fameliche del cemento e della Flat tax.
Un passo avanti veramente importante?
Il Recovery Fund ( o Next Generation EU Fund, come è l’ambiziosa denominazione ufficiale scelta a Bruxelles, per sottolineare come si punti ad un piano che guarda al futuro, anche lontano) non è stato ancora approvato dei parlamenti dei 27 paesi che formano l’Unione; appare plausibile che diversi tra di essi, i cosiddetti paesi “frugali” (e che qualcuno ha suggerito di meglio chiamare “avari”) e alcuni almeno di quelli dell’Est, faranno parecchia resistenza, come appare evidente dalle dichiarazioni di alcuni dei responsabili politici di tali contrade. Sembrerebbe, comunque, che essi non bloccheranno il progetto, ma cercheranno, forse con qualche successo, di ridurne la portata da una parte, di ottenere delle contropartite dall’altra.
Appare alla fine lecito tentare, in ogni caso, di riflettere sul cosa fare con i soldi che potrebbero arrivare.
Vorremmo preliminarmente ricordare che, con tale mossa, la natura dell’UE non cambia comunque di molto; essa rimane un’organizzazione da riformare in profondità, mentre la probabilità che questo accada in un prossimo futuro rimane piuttosto bassa. Ci vorrebbe forse un’altra grave catastrofe per cambiare un poco le cose.
Per altro verso non si può non rilevare che si tratta di un importante passo in avanti anche simbolico: la UE ha battuto un colpo, ha provato in qualche modo la sua esistenza in vita; sul piano operativo, per la prima volta, essa si farà prestare dei soldi sul mercato direttamente a suo nome. Peraltro, questo non mancherà di dare il pretesto a qualcuno, magari a qualche tedesco o a qualche olandese, di avviare un’azione legale contro la Commissione.
Appare ancora positivo che, in relazione all’introduzione del Fondo, si parli di aumentare le dimensioni del bilancio UE e, per contribuire a finanziare lo stesso Fondo, dell’introduzione di cose quali una tassa sulle multinazionali, una qualche forma di carbon tax, ecc., tutte misure peraltro che almeno alcuni degli Stati dell’Unione, oltre che gli Stati Uniti, non approveranno con trasporto.
Bisogna in ogni caso raffreddare un poco gli entusiasmi che la notizia dell’approvazione del Fondo ha in qualche modo suscitato un poco da noi. Certo, si tratta di un passo in avanti importante nella costruzione europea, probabilmente suscitato, in particolare in Germania, dalla paura di una dissoluzione della intera costruzione europea e/o del possibile passaggio di paesi come l’Italia e la Spagna sotto l’orbita della Cina. In questi giorni il parallelo ulteriore allargamento della borsa da parte della BCE, pronta ora a comprare quantità enormi del debito pubblico dei paesi dell’eurozona, in particolare dell’Italia, confermano, tra l’altro, quanta preoccupazione ci sia in giro per la situazione del nostro paese e, d’altro canto, in quale difficile situazione esso si trovi in questo momento.
Incidentalmente, va anche segnalata l’inaspettata e altrettanto recente svolta del governo tedesco, che, rompendo con i suoi dogmi rigidi e consolidati, sta inondando il paese teutonico, e in varie ondate, di denaro; anche questa decisione dovrebbe aiutare in qualche modo l’economia italiana, dal momento che molte imprese del Nord Italia lavorano molto per i tedeschi.
Pensiamo a questo punto che forse nessuno si aspettava la rottura in positivo dei precedenti vincoli contemporaneamente da parte di tre soggetti quali la BCE, l’UE e il paese della Merkel; che qualcosa stia cambiando veramente?
Incidentalmente, appare opportuno sottolineare che qualcosa di buono ci deve in effetti essere almeno nella prima delle tre mosse indicate se sia gli Stati Uniti, che la Nato, che, infine, la Russia non sembrano averla presa molto bene.
Si sente agitare a Bruxelles, in parallelo agli stanziamenti al fondo, la parola “riforme”, che sembrava da qualche tempo dimenticata. E’ una espressione molto controversa sin dalle origini, ma negli ultimi anni negli ambienti della capitale belga e di Francoforte essa significava semplicemente cose quali tagli alla spesa pubblica, blocco dei salari, licenziamenti ecc.. Non appare chiaro al momento a cosa invece si miri ora. Comunque, apparentemente, anche in questo caso sembra che stia cambiando registro, perché si parla di economia verde, di tecnologie digitali, di sanità, di scuola e così via. Ma staremo a vedere, qualcuno a Bruxelles è certamente in agguato.
Quanti soldi arriveranno
Peraltro sui soldi stanziati bisogna essere realistici. In realtà, dei 750 miliardi promessi, 250 sono intanto sotto forma di debito e certamente ci interessano molto meno di quelli a fondo perduto; poi probabilmente, per l’insistenza dei paesi frugali e/o di quelli dell’Est, gli importi verranno ancora limati; infine, almeno allo stato delle informazioni, essi saranno distribuiti sull’arco di cinque anni e per il 2020 arriveranno, se va bene, soltanto un paio di miliardi. Infine, dei 500 miliardi a fondo perduto citati, sembrerebbe che tra 60 e 100 debbano essere usati a garanzia dei prestiti (Munchau, 2020).
Sulla carta almeno, d’altronde, i fondi non dovrebbero mancare. Oltre al Recovery Fund, che prevede in teoria e per il momento per il nostro paese 81 miliardi a fondo perduto e 92 come prestito, bisogna poi mettere in elenco circa 6-7 miliardi di residui di bilancio UE per il periodo 2014-2020, poi i fondi della BEI, 35 miliardi a favore delle imprese, quelli del Mes per la sanità per 37 miliardi, ancora i fondi Sure per 20 miliardi a salvaguardia del lavoro e qualche altro fondo in via di messa a punto, quale il reactEU fund, che, se abbiamo capito bene, potrebbe portare ancora all’Italia circa 16 miliardi; ma non bisogna poi dimenticare, per avere un quadro più completo, i fondi europei regionali, per qualche decina di miliardi all’anno, nonché, se vogliamo, i fondi italiani già stanziati e non ancora spesi per opere pubbliche, sembra per oltre cento miliardi. Infine gli acquisti di titoli BCE per una cifra che potrebbe superare anche i 150 miliardi solo quest’anno.
Vogliamo peraltro sottolineare che anche nel piu’ ottimistico dei casi il Recovery Fund, insieme agli altri stanziamenti, anche per la grande componente di debito che essi contengono (e con i quali prima o poi bisognerà fare i conti), non risolverà da solo tutti i mali dell’economia italiana, anche se esso costituisce un’opportunità importante ed insperata; sarebbe certo meglio, viste le cattive prospettive del nostro paese, se fosse accompagnato anche da qualche altro miracolo, ad esempio dalla cancellazione pura e semplice dei titoli di stato italiani posseduti dalla BCE, oppure dall’emissione di eurobond in quantità al posto di quelle dei singoli Stati nazionali. Ma non ci si può aspettare, in questo momento, un altro colpo di fortuna.
L’organizzazione del sistema Italia e le riforme a costo zero
Una prima cosa che si può dire sull’impiego dei fondi è quella che, affinché essi siano investiti proficuamente, sono indispensabili alcuni presupposti molto importanti. Al primo posto, sta il fatto che, come hanno anche mostrato poi le vicende dei decreti che sono sino ad oggi stati approvati nel nostro paese in emergenza, l’intendance ne suit pas; l’applicazione delle norme dipende dalla burocrazia ministeriale e locale, da quella pubblica e da quella privata (vedi le banche), burocrazia che per molte ragioni non funziona; si tratta di una situazione che rappresenta un punto debole fondamentale del nostro paese. Senza una riforma radicale dell’organizzazione dello Stato, degli enti autonomi, della collettività locali, riforma che comunque richiederà molti anni per essere completata, qualsiasi progetto è destinato a fallire o ad essere ritardato oltre ogni limite o, al massimo, applicato male.
E va sottolineato come non si tratti tanto di snellire una struttura pubblica pletorica; semmai, se confrontiamo il numero degli impiegati pubblici del nostro paese con quello di Francia o Gran Bretagna, ci accorgiamo che da noi ci lavorano molte meno persone. Il problema è quello che la macchina gira a vuoto e nessuno negli ultimi decenni se ne è occupato molto, forse affaccendato in cose ben più serie.
Ricordiamo come, più in generale, nel nostro paese ci siano delle riforme molto importanti che non costerebbero e non avrebbero quindi bisogno dei fondi dell’Ue per essere portate avanti; oltre a quella generale e già citata degli apparati pubblici, pensiamo a quella fiscale, per far pagare di più ai ricchi e meno ai poveri e per abbattere in maniera significativa l’evasione, a quella della giustizia civile, oggi con i suoi ritardi insopportabili anche per le imprese, italiane e straniere, alla lotta alla criminalità organizzata, al varo di adeguate leggi ambientali; e si potrebbe continuare. Esse aiuterebbero anche poi a trovare e a spendere meglio i soldi.
Cosa fare con il denaro
Incidentalmente, a proposito del fisco, si sono sentite levarsi voci dalla maggioranza e dalle opposizioni per cui con i soldi del Recovery Fund bisognerebbe prima di tutto ridurre le tasse. C’è chi parla di flat tax, chi di riduzione del cuneo fiscale, chi di altro.
A proposito in specifico dell’abbattimento del cuneo fiscale, esso non suscita in noi certo molti entusiasmi. Dal dopoguerra ad oggi se c’è una costante, al limite dell’ossessione, nella linea della Confindustria è quella che bisogna ridurre il costo e le tutele del lavoro; tale tema ha certamente ottenuto dei risultati per i proprietari delle imprese da parte di governi compiacenti. Ma ricordiamo che una politica di alti salari come quella tedesca, pur con le sue contraddizioni, ha stimolato di più l’innovazione d’impresa e la ricerca di prodotti a più alto valore aggiunto, mentre noi, a furia di limitare gli incrementi del costo del lavoro, ci stiamo riducendo ad una sorta di Messico d’Europa, fornitori al mondo avanzato di produzioni a basso valore aggiunto.
In ogni caso la riduzione delle tasse non dovrebbe costituire una priorità.
A questo punto bisogna compiere un triplo salto mortale, ottenere i fondi, riuscire a spenderli presto e infine spenderli bene. Compito immane.
Gli investimenti pubblici
Un tema fondamentale è quello degli investimenti pubblici. Essi in questi anni sono scesi molto in basso; il loro livello massimo è stato raggiunto nel 2009 (Trovati, 2020), quando il loro ammontare si è avvicinato al 3,5% del pil; poi è stata nella sostanza una continua discesa; nel 2018 eravamo ormai al 2,1%, ciò che ci collocava quasi all’ultimo posto in Europa. Per rimetterci in carreggiata servirebbero almeno 15-20 miliardi in più all’anno.
Poi certo anche quelli privati non hanno brillato nel tempo.
A proposito di investimenti e al di là di qualche possibile eccezione, pensiamo (e non siamo i soli) che bisogna smetterla di guardare ai grandi progetti, mentre occorre invece concentrarsi sui piccoli lavori di manutenzione e ammodernamento, ad esempio per gli edifici scolastici, per la protezione del territorio, ecc.
Appare incredibile, a questo proposito, che si ritorni a parlare, tra l’altro, del Ponte sullo Stretto.
Pensiamo inoltre che il cosiddetto modello Genova di gestione delle opere sia invocato in questo momento da tante parti perché in pratica esso abolisce tutti i controlli; noi valutiamo che, mentre bisogna certo mirare alla semplificazione delle procedure, questo non deve avvenire a capito dei controlli di legalità. Del resto, non è necessario inventare la luna, basta copiare quanto viene fatto negli altri grandi paesi europei, che ottengono tutti risultati molto migliori dei nostri.
Per altro verso lobbies fameliche sono in agguato a partire dalla Confindustria e dai poteri occulti, che, tra l’altro, cercano di rovesciare l’attuale governo; crediamo essi sperino che un momento buono sarà forse a settembre, periodo che potrebbe vedere un’ondata di agitazioni sociali. Non a caso Bonomi ogni mattina ringhia contro il governo e i sindacati. Certo per loro i Salvini, i Berlusconi e i Renzi darebbero tutta un’altra garanzia.
Dove investire
In quali direzioni investire le risorse in arrivo non appare, in linea di massima, difficile da individuare. Sanità, scuola, università, ricerca, digitale, ambiente, lavori pubblici, manutenzione del territorio, Sud, devono essere gli assi portanti della strategia da avviare. C’è, peraltro, il problema di come dosare gli sforzi tra le varie voci e all’interno di esse.
Se comunque, da una parte, appare ragionevole puntare a investimenti strutturali per il Sud, ed in questo senso forse la costruzione di una linea ad alta velocità sino a Reggio Calabria sembra plausibile, ci sono comunque in campo due progetti alternativi, uno leggero, che consisterebbe nell’ammodernamento dell’esistente (costo 8 miliardi, secondo ovviamente le prime stime che poi saranno smentite dalla realtà) ed un altro, invece, di rifacimento totale, che costerebbe 20 miliardi; temiamo che alla fine, dal momento che gli appetiti sono come al solito molto pesanti, vincerà quella più costosa.
Su di un altro piano, ci sono alcuni settori di attività nei quali l’Italia avrebbe molte possibilità di crescita e qualificazione rispetto ad oggi e che potrebbero portare anche ad un rilevante aumento dell’occupazione, sino a diverse centinaia di migliaia di nuovi posti di lavoro in relativamente pochi anni; ci riferiamo in particolare all’agro-alimentare, ai porti, al turismo, peraltro quest’ultimo in gravi difficoltà in questo momento.
Un caso esemplare, l’Università
Uno dei problemi potenziali appare quello della possibilità, oggi alquanto elevata, di affidare questi soldi nelle mani sbagliate.
Prendiamo ad esempio il caso dell’Università. Essa ha certamente bisogno di essere rivitalizzata e potenziata, ma affidare dei miliardi in più all’attuale sistema di governo e di potere degli atenei, nonché a quello delle corrispondenti strutture burocratiche romane, appare largamente controproducente; quindi gli stanziamenti dovrebbero procedere almeno in parallelo con la riforma dell’organizzazione. In attesa di tali e necessarie ampie riforme, bisognerebbe concentrare gli sforzi esclusivamente su quello che può essere utile agli studenti e non essere soggetto all’intervento importante delle caste dirigenti. Quindi, si può pensare al taglio delle tasse universitarie, oggi piuttosto pesanti, alla reintroduzione del presalario, alla costruzione di case dello studente, a buoni per l’acquisto dei libri e cose di questo genere.
Conclusioni
Già prima dello scoppio della pandemia, e da molto tempo, l’economia italiana non si presentava certo in buona salute, tanto che non si era ancora riusciti, tra l’altro, alla fine del 2019, a cancellare tutte le conseguenze della crisi del 2008, quasi caso unico in Europa. Ora lo scoppio del Covid-19 infligge un altro duro colpo al sistema.
L’arrivo ormai probabile, ancorché inaspettato, di rilevanti risorse finanziarie da parte dell’UE e della BCE, nonché finalmente, altrettanto inaspettata, la messa in opera di una politica fortemente espansionistica da parte della Germania, forniscono ora una qualche ancora di salvataggio per il nostro paese.
La questione, a questo punto, diventa quella della capacità effettiva del nostro sistema di portare avanti efficacemente e con la rapidità richiesta quelle politiche di rinnovamento da molti invocate da tanto tempo e ora forse rese possibili anche finanziariamente.
Una parte molto importante della nostra classe dirigente, che sarebbe quasi in blocco da rottamare, nonché l’inefficienza delle nostre strutture pubbliche, sembrano fare da grave ostacolo a tali programmi.
L’esito finale appare così abbastanza incerto. Speriamo bene.
Testi citati nell’articolo
-Munchau W., Europe cannot fudge its way to a federal failure, www.ft.com, 31 maggio 2020
-Trovati G., Riforme, il governo accelera sul piano per i fondi UE, Il Sole 24 Ore, 31 maggio 2020