Il darwinismo sociale di Bolsonaro, la guerra Russia-Arabia Saudita sul petrolio, l’inasprimento delle sanzioni Usa all’Iran, le ambizioni di Erdogan, le tensioni in Africa e Medio Oriente. Così il virus influenza la competizione per l’egemonia mondiale. E l’Italia diventa un esperimento di ‘health diplomacy’.
L’impatto della pandemia Covid-19 su tensioni e conflitti internazionali non sarà uniforme né univoco. Rapidità, pervasività e simultaneità del contagio non hanno precedenti, e l’incertezza condiziona ogni formulazione strategica. Al tempo stesso, la pandemia progredisce a velocità comparabile in tutti i paesi, nonostante le differenze nella fase di contagio e nel tipo di risposta dei sistemi sanitari. Sebbene non manchi evidenza di come tale propagazione abbia investito e travolto numerose istanze di governance transnazionale, associandosi a una più intensa competizione geopolitica e per certi versi a maggiore instabilità degli scenari locali e globali, non mancano – anche alla luce di crisi e disastri naturali nel passato – ragioni per considerare al contrario un impatto in termini di discontinuità positive per pace e sicurezza internazionali.
Se si esclude l’estrema destra al potere in Brasile, dove Jair Bolsonaro fa professione di crudo darwinismo sociale, la sostanziale convergenza dei trend riguardanti la pandemia è tale che anche paesi come Regno Unito e Stati Uniti, la cui prima risposta è stata l’esplicita difesa del business rispetto alla salute pubblica, hanno presto finito per imporre misure di contenimento (distanziamento sociale, riduzione della mobilità, chiusure selettive delle attività) finalizzate a guadagnare tempo e abbassare le curve di contagio, secondo il cosiddetto “modello italiano”. Da più parti emergono riposizionamenti dettati dal collidere degli imperativi di protezione delle vite e dei profitti, che premono sulla relazione fra stato e capitale. Se la mercuriale Presidenza Trump, sempre più in guerra con la realtà, si regola sul calendario elettorale americano annunciando riaperture “per Pasqua” e l’uscita dall’emergenza “per agosto”, è piuttosto evidente come scelte affrettate possano arrecare all’economia danni maggiori rispetto al fermo delle attività non essenziali. Storia delle pandemie e calcolo probabilistico obbligano a considerare lo spettro delle ondate epidemiche di ritorno, e portano a considerare un orizzonte di medio periodo. Dopo aver colpito Cina, Europa e Stati Uniti la pandemia si espande ai paesi in via di sviluppo, dove molto diversa è l’incidenza della spesa alimentare: in paesi come India o Nigeria, le restrizioni si associano alla fame per ampli settori della popolazione.
Si configura così, per miliardi di abitanti del pianeta, un inedito, gigantesco esperimento sociale dagli esiti più che mai imprevedibili. La crisi innescata espone sistemi liberaldemocratici e sistemi autoritari, paesi ricchi e paesi poveri, a uno stress test estremo che interroga il rapporto stesso fra individuo, stato e società. Ovunque si chiudono i confini, e se il panico sui mercati finanziari rappresenta in modo plastico le dinamiche di atomizzazione di un sistema internazionale che pare aver smarrito il proprio principio ordinatore, le modalità con le quali il contagio viene affrontato oggi suggeriscono la compresenza di due narrazioni che competono fra loro nel delineare il tipo di ordine internazionale di domani. Da una parte, poggiante su idee di destino comune e interdipendenza, fondata sull’osservazione di un virus che aggira confini e divieti, c’è una storia di maggior cooperazione per fermare la pandemia: imperativo che si coniuga con la risposta immediata per evitare il collasso dei sistemi sanitari, richiama il coordinamento delle azioni, si spinge fino ad un intervento programmatico sull’economia. Il punto di partenza è la ridefinizione dello spazio pubblico, se vogliamo su modello di quanto sta facendo la comunità scientifica transnazionale, che a fronte dell’inadeguatezza dei propri meccanismi di pubblicazione, oggi condivide informazioni, protocolli e strategie sui social media.
Dall’altra, la lezione che viene tratta dalla crisi è che invece gli stati, le nazioni, devono imparare ad isolarsi per meglio proteggersi, in un ambiente internazionale in cui ciascuna unità, facendo leva sulle proprie risorse e capacità, persegue apertamente il proprio interesse e la propria sicurezza. Lungo questo binario, le risposte alla pandemia esplicitano ed esasperano dinamiche di competizione e rivalità di potenza, di cui sono un chiaro segno, ad esempio, la sfrenata guerra al ribasso sui prezzi del petrolio fra Russia e Arabia Saudita e l’accanimento con cui gli Stati Uniti hanno inasprito le sanzioni sull’Iran, paese particolarmente colpito dal Covid-19, anche quando alcuni alleati del Golfo (Kuwait, Emirati Arabi) si sono mostrati determinati ad andare in direzione opposta.
Vulnerabilità di sistema
La crisi ha visto governi manipolare le supply chains di beni-chiave per la salute pubblica che il rapido e simultaneo propagarsi del virus rendono scarsi (es. maschere, respiratori, medicine). Un numero crescente di stati, dal Vietnam al Kazakhstan, ha imposto blocchi al proprio food export per assicurarsi disponibilità durante la pandemia. Queste dinamiche sfidano un aspetto importante della globalizzazione neoliberale: l’idea di sostituibilità delle filiere, idea che ne ha accompagnato la crescente specializzazione su scala trans-planeraria all’ombra di gruppi dominanti. Davanti a provvedimenti nazionali d’emergenza, la stessa Unione Europea fatica mettere a freno i controlli sull’esportazione di beni sensibili. Spariscono nel Mediterraneo, apparentemente dirottati verso l’Italia, carichi di alcol per soluzioni disinfettanti, mentre mascherine in transito verso gli ospedali italiani vengono bloccate e trattenute dall’alleato atlantico Turchia. Le implicazioni, in termini di beni sensibili per la risposta alla pandemia, diventano fondamentali per paesi poveri, ad esempio per i più dipendenti (per esempio riso e farina in tutto il Nord Africa) o comunque mal posizionati rispetto agli snodi logistici e agli effetti del panic buying. Emerge una diversa nozione di rischio, associata ad un potenziale di escalation internazionale: non il rischio generato in/da stati deboli, ma al contrario da governi forti, capaci di manipolare reti di produzione e distribuzione.
La pandemia tocca dunque la competizione per l’egemonia. Abbiamo visto l’Italia trasformata in palcoscenico globale della health diplomacy. Nel momento più buio del contagio sono atterrati a Milano, accolti da scroscianti applausi, i medici cubani che da decenni operano nei paesi in via di sviluppo nel nome dell’internazionalismo. Sono arrivati a Roma, sotto l’ala benevolente del Ministero degli Esteri, team medici e aiuti cinesi. Mentre esperti europei denunciavano una campagna di fake news sul Covid-19 da parte di social media russi, dopo aver dribblato lo spazio aereo ucraino e quello polacco (che li considerano voli ostili) a Pratica di Mare sono arrivati da Mosca nove aerei carichi di aiuti. Hanno offerto aiuti Francia e Germania, e così via una serie di altri paesi fino ad Albania e Somalia, in misura più o meno simbolica. Gli Stati Uniti – i cui voli militari hanno importato i kit di test prodotti in Lombardia – hanno trasferito un’unità medica mobile dalla base di Ramstein a quella di Aviano.
Colpisce, in effetti, l’assenza della voce degli Stati Uniti come leader capace di risolvere i dilemmi dell’azione collettiva internazionale. Nel 2014 gli USA si misero alla testa della risposta al propagarsi dell’epidemia di Ebola in Africa Occidentale. Non solo, dopo aver a lungo ignorato i warning dell’intelligence, Washington arranca e si contraddice sul piano della risposta domestica; l’Amministrazione statunitense non ha oggi nessun ruolo nel coordinare la risposta internazionale. La Casa Bianca per giorni si è limitata a criticare la tardiva risposta Europea e ad attaccare la Pechino quale origine del “virus cinese”.
Dopo avere per un buon mese ha impedito che venisse lanciato l’allarme, venendo in tal modo meno al proprio dovere di trasparenza verso l’Organizzazione Mondiale della Sanità, la Cina oggi racconta una storia di efficienza domestica nel “domare la curva del contagio”, e distribuisce i propri aiuti nel nome del comune destino che unisce i popoli. Pechino annuncia la creazione a Nairobi di un Centro Africano per la Prevenzione e il controllo delle Malattie, e si muove anche sul piano delle elargizioni private: il miliardario Jack Ma distribuisce aiuti medici per l’Africa scegliendo come primo riferimento l’Etiopia e il suo presidente, il Nobel per la Pace Abiy Ahmed. A nessuno, Italia inclusa, sfugge il ruolo di soft power e propaganda negli aiuti cinesi: tuttavia è verosimile che essi verranno ricordati, così come l’indifferenza di molti alleati.
Il virus sembra mettere a nudo, esacerbandole, le vulnerabilità dell’ordine sociale dei diversi paesi. Se le ville degli oligarchi russi si dotano di stanze per terapia intensiva, in California si assiste a file davanti alle armerie, e in Israele i casi di sospetta positività fra la forza lavoro palestinese sono buttati oltre i checkpoint dei territori occupati. Il sedicente Stato Islamico e al Qaida non hanno adottato, al momento di scrivere, risoluzioni strategiche in materia di coronavirus al di là delle declamazioni di rito sul “flagello che colpisce gli infedeli”. Tuttavia, è assai plausibile che le formazioni jihadiste sui diversi teatri cercheranno di sfruttare il caos e intensificheranno gli attacchi.
In tutto il Niger, avamposto dei dispiegamenti internazionali per contenere l’insorgenza jihadista nel Sahel e i flussi migratori verso l’Europa, la capacità della terapia intensiva ammonta complessivamente a 6 posti letto. Sempre più stretto fra progressione di insorgenze e banditismo, il Burkina Faso figura fra gli stati africani più colpiti dalla pandemia. Vedremo i cosiddetti “Stati fragili” mostrare resilienza, oppure, sopraffatti da un contagio che non risparmia nessuno, implodere nell’anarchia? O forse, nel dichiarato intento di mantenere l’ordine, assisteremo al consolidarsi di dittature? È dimostrato quanto sia cruciale, per l’azione di contenimento di epidemie, il livello di fiducia che la popolazione mostra rispetto alle decisioni delle autorità. In assenza della trasparenza e fiducia, la compliance è discontinua, e il contagio si propaga esponenzialmente, come il caso iraniano in parte illustra.
Le implicazioni sono particolarmente serie per i territori nel mezzo di un conflitto armato, esposti all’interruzione delle forniture umanitarie, a forti limitazioni dell’operatività di dispiegamenti di pace, al deragliamento di delicati processi di pace che richiedono costanza e monitoraggio. Certo, in qualche teatro di guerra (ad esempio Camerun, Filippine, Yemen) si sono distinti segnali positivi e adesioni, almeno di facciata, all’appello a far tacere le armi del Segretario Generale Onu Guterres: ma quanto dureranno le tregue?
Quale sarà l’impatto dell’epidemia in quell’enorme carcere a cielo aperto che è la striscia di Gaza, mentre nel dataset sulla pandemia tenuto dalla Johns Hopkins University sparisce Palestina e Territori Occupati? In Libia, il governo internazionalmente riconosciuto, con sede a Tripoli, ha impegnato milioni di dollari nella risposta all’epidemia, anche se non è dato sapere cosa questo significhi in pratica, considerata l’implosione dell’infrastruttura sanitaria, la fuga del personale medico e infermieristico, e la frammentazione del controllo territoriale: la comparsa del primo caso di Covid-19 nel paese è coincisa con l’intensificarsi dell’offensiva militare del maresciallo Haftar su Tripoli, che dura ormai da un anno. Cosa succederà alle migliaia di migranti detenuti in condizioni inumane nei centri di detenzione del paese, o abbandonati lungo le strade?
Sul pianeta si contano 25 milioni di rifugiati e 40 milioni di sfollati, spesso concentrati in campi dove condizioni sanitarie sono estremamente difficili e il distanziamento sociale è impossibile. I punti nevralgici sono noti, dal milione di Rohingya ammassati in Bangladesh, alle centinaia di migliaia di siriani in fuga da Idlib, agli immensi campi profughi del Darfur, dello Yemen, fino alle migliaia sulle isole greche, nell’Unione Europea, dove mancano acqua e sapone.
Il dopo-coronavirus
Ma quando il dopo si potrà intravedere, cosa di quel dopo ci parlerà del prima? Quanto può essere incubatrice di un cambio di paradigma una crisi profonda e protratta?
Nella storia della nostra specie ogni epidemia ha portato alla ricerca del rimedio e – a suon di profilassi e internamento coatto dei poveri – a una ripartenza, forte delle nuove conoscenze, ma sul medesimo binario. Nel tempo i rimedi sono diventati così efficaci e disponibili da generare l’illusione di immunità: antibiotici e vaccini, in fondo, non sono che succedanei secolari del miracolo. Oggi che torniamo ad immergerci nell’incertezza, e l’obiettivo diventa rallentare il virus abbassando la curva di contagio esponenziale, val la pena domandarsi che cosa ci dicono del mondo in cui vivremo domani i modelli di risposta che scegliamo oggi.
Il grande, simultaneo esperimento sociale coronavirus interroga il rapporto fra individuo e società. Il social distancing passa attraverso le insidie della transizione digitale della quotidianità. Nella realtà incapsulata e virtuale, divenuta totalizzante, il prodotto su larga scala di crack finanziari e guerre – ovvero senzatetto, evasi, rifugiati, migranti – esce magnificato nel ruolo di agenti perturbatori dell’ordine.
I modelli di contrasto all’epidemia che vediamo circolare sembrano ridurre la società ad interazioni casuali fra individui-atomi avulsi da qualsiasi dinamica relazionale strutturata. Eppure, senza toccarci, ci guardiamo, ci emuliamo: le affollate stazioni di Parigi riflettono la fuga dalla stazione centrale di Milano. Noto nel carrello degli altri in coda alla cassa il voluminoso pacco della carta igienica, penso un motivo ci sarà, penso “se non altro finirà”, e mi pare razionale, in quella circostanza, precipitarmi a comprarla. Il mio comportamento, a sua volta, contagerà il vicino di carrello, producendo una supply crisis di un bene non certo essenziale.
Il modello liberale poggia sull’idea che il mercato sia in grado di provvedere a ciò che serve, e di individui che anche davanti al pericolo fanno scelte razionali. Ma le cose si ingarbugliano. Il tessuto produttivo italiano conta 107 aziende che producono armi, settore di traino delle nostre esportazioni, mentre una solo una che produce respiratori. E comunque, quali sono le soglie di comportamento attorno al diritto individuale alla salute? Prendere una boccata d’aria è permesso e certamente salutare, ma se molti decidono di goderne, l’atteggiamento viene stigmatizzato come irresponsabile – per citare i nostri amministratori. Il jogger solitario diventa il capro espiatorio: si sprecano i controlli di polizia che esentano le condizioni di lavoro dietro alle casse dei supermercati, nelle fabbriche, nei cantieri, nella logistica. Il governatore veneto Zaia, già estimatore del manganello, evoca il coprifuoco, compare l’esercito nelle strade. Ma i controsensi di sprecano ovunque: dalla Casa Bianca che obbliga chi arriva negli aeroporti americani ad assembrarsi per sottoporsi al test, fino ai droni kuwaitiani, che invitano la popolazione a disperdersi ottenendo come unico risultato l’assembramento di curiosi a filmarli col cellulare.
Queste increspature non dovrebbero sorprendere, producendosi sull’orlo di un crepaccio che in realtà è molto più profondo. I paesi a capitalismo avanzato negli ultimi decenni hanno visto deteriorare significativamente la capacità del proprio sistema sanitario pubblico nel tentativo di contenere la spesa sanitaria davanti a una popolazione che invecchia. Le tanto decantate “eccellenze della sanità privata” di fronte al Covid-19 risultano di utilità marginale. Come colmare, dunque, il gap fra necessità/libertà individuali e saturazione delle infrastrutture deputate alla salute pubblica, che gli indici di letalità apparente della pandemia impietosamente espongono? Quanto, nel modello di risposta scelto, è biopolitica pura – ruolo pastorale dell’autorità a garanzia della salute e della prosperità – e quanto trascolora invece nella più tradizionale coercizione affidata allo stato d’emergenza e alla criminalizzazione dei comportamenti?
Nella situazione presente, i decreti adottati in Italia e Spagna affidano un ruolo di pubblica sicurezza ai militari, mentre il cittadino sperimenta margini di discrezionalità di giudizio da parte delle forze dell’ordine che controllano le strade. In Ungheria, Viktor Orban ottiene la dichiarazione di stato d’emergenza senza limiti di tempo, con pieni poteri all’esecutivo, sospensione del parlamento e pesanti condanne per giornalisti che diffondono “informazioni false”. Insediata dai militari, la presidentessa ad interim boliviana, Jeanine Añez, annuncia il rinvio sine die delle elezioni presidenziali. Similmente, in Sri Lanka, il presidente ultranazionalista Gotabaya Rajapaksa fa leva sulle ragioni di salute pubblica per prorogare le elezioni e accrescere i propri poteri. In Kosovo, la proclamazione dello stato d’emergenza è coincisa con una manovra di palazzo che ha rovesciato il governo allineandone la guida con i voleri della Casa Bianca.
Tuttavia, la spinta al disciplinamento sociale che si accompagna all’azione di contenimento della pandemia non si esaurisce nel ricorso a forme tradizionali di coercizione in un clima di emergenza storicamente amico di soluzioni autoritarie.
La decantata efficienza della risposta cinese all’epidemia non si limita alla costruzione di ospedali a tempo di record, né può essere ridotta ad aspetti coercitivi inumani, famiglie letteralmente sigillate in casa senza assistenza, deportazioni a forza e cifre dubbie circa la mortalità. In Cina come in Corea e a Singapore abbiamo visto entrare in azione un vasto apparato di sorveglianza e monitoraggio digitale, riferibile al concetto di sicurezza algoritmica: il tracciamento dei percorsi degli infetti, la produzione di mappe del pericolo, disseminate attraverso app commerciali che informano autorità e individui incrociando dati individuali su condizione di salute, spostamenti, acquisti, comunicazioni. In Israele un governo con controversa legittimità elettorale cavalca l’emergenza e in assenza di dibattito parlamentare estende al coronavirus il programma di tracciamento a lungo usato per il controllo dei palestinesi. Abilitando forme selettive e discriminanti che promettono di alleggerire il peso massiccio delle restrizioni, il tracciamento digitale dei casi corona-positivi promette efficacia e conquista favore anche in un’Italia che ancora deve risolvere il problema chiave: quello, per l’appunto, di uno screening tempestivo ed efficace dei casi di positività persino fra i medici in prima linea.
Davanti a un’emergenza che perdura, e all’ipotesi di un rientro “a fisarmonica”, con periodi di alleggerimento e periodi di restrizione, si fanno strada due idee, entrambe modulate sul concetto di rischio. La prima, modulare le restrizioni su base territoriale, in base agli indici di circolazione del virus, o – per categorie sociali: si è parlato di fasce di popolazione (giovani, adulti, anziani) e di rientro anticipato per le donne, i cui indici di letalità sono nettamente inferiori. Tuttavia, la sicurezza algoritmica accende un’altra ipotesi: un rientro dall’isolamento modulato su base individuale, in base tanto a “patenti di immunità” per chi ha sviluppato anticorpi quanto al profilo di rischio elaborato dalla sicurezza algoritmica. I nodi vengono dunque al pettine: se i dati sono “il nuovo petrolio” e occorrerà stare sempre in allerta per il ritorno di epidemie, chi tutelerà rispetto a termini indefiniti di uso i dati personali sensibili fra pubblico e privato? Anche questa partita si proietta sugli scenari della politica internazionale: in Cina i dati appartengono allo stato, in America alla corporation che li estrae, in Europa all’individuo che he è oggetto.
Mondi post-liberali
Trovatasi esposta per prima fra le democrazie occidentali, con il cuore produttivo e logistico lombardo-veneto-emiliano nell’occhio del ciclone, l’Italia ha dapprima perseguito una gradualità di misure poco incline alla criminalizzazione, salvo poi imboccare con decisione un modello di lockdown che stigmatizza e sanziona comportamenti socialmente pericolosi. Agendo con competenze sanitarie distribuite su diversi livelli di governo, l’Italia ha pagato un alto prezzo alla scarsa preparazione, e faticato a dare forma alla risposta, mentre il dibattito pubblico impazzava facendo perdere tempo prezioso: siamo passati dai riaprire tutto! al chiudere tutto!, dal razzismo dei cinesi mangiatopi ai cinesi come modello da emulare.
Giorno dopo giorno la magnitudine e la pervasività della crisi illuminano tanto la distanza quanto i nessi che esistono fra le dottrine di “sicurezza nazionale” (tradizionalmente intesa come sicurezza dello Stato) e le aspettative di “sicurezza della società” (societal security, la salute e il benessere delle persone comuni). In questo contesto, l’emergenza coronavirus apre, quantomeno in potenza, uno spazio per l’azione politica a tutela della comunità democratica, a partire dallo sforzo a protezione dei più vulnerabili. Tale spazio si apre se si riconosce che i confini nazionali sono in buona parte un feticcio e il mercato deve fare molti passi indietro. Saltano ovunque i dogmi neoliberali sul pareggio di bilancio, mentre in diversi paesi l’emergenza apre la strada per ritorno del privato sanitario nella disponibilità del pubblico. Come scrive Mario Pianta (“Le conseguenze economiche del coronavirus”), “il welfare non è un ‘costo’ per il sistema economico privato, è un sistema parallelo che produce beni e servizi pubblici e assicura la riproduzione sociale in base a diritti e a bisogni, anziché alla capacità di spesa.”
Certo, diversamente da Bernie Sanders, Joe Biden resta convinto che il sistema sanitario pubblico non stia facendo alcuna differenza in Italia. Certo molti non vedono il nesso fra ecocidio, cambiamento climatico e crescente frequenza delle pandemie. Altri, certamente a ragione, contestano l’esistenza di un rapporto di causalità fra gli alti indici di inquinamento che caratterizzano la pianura padana e le complicazioni delle patologie polmonari. Similmente, non mancano certo commentatori che sottolineano la razionalità di tenere aperta la filiera produttiva legata alle armi, soprattutto davanti alla Beretta che utilizza le stampanti 3D per produrre valvole per le maschere respiratorie.
Ma fino a quando potrà operare il velo dell’ideologia, tanti fallimenti potranno essere letti in modo disgiunto, e tanti presupposti fallaci potranno essere ignorati? Lo scenario che abbiamo davanti non è riducibile al semplice schema del soggetto immobile e della paura individualizzata, fra irreggimentazione sociale coercitiva e sorveglianza. Sovranisti e neoliberali proveranno disperatamente a rivendicare l’accoppiata privato-nazione, ma la storia che si dipana sotto i nostri occhi spinge verso la centralità del pubblico, dell’interdipendenza e della discontinuità di politiche e pratiche sociali. Resta sicuramente da capire quale sia il soggetto che storicamente può farsi portatore di queste istanze, se l’Europa sia in grado di battere un colpo, ma può trattarsi di una buona notizia per le dinamiche di pace e sicurezza internazionale.