Il presidente di Confindustria Boccia vorrebbe mandare in soffitta il Green New Deal utilizzando l’emergenza coronavirus come grimaldello per scardinare le priorità e tornare al “bussiness as usual”. Speriamo risulti minoritario nell’incontro del 4 marzo a Palazzo Chigi tra governo e parti sociali.
C’è solo da sperare che l’incontro di mercoledì 4 marzo a Palazzo Chigi delle forze sociali sulle misure economiche da prendere per fronteggiare il coronavirus non diventi il pretesto per far riemergere, nascondendosi dietro l’emergenza pandemia, formule fallimentari e poco lungimiranti per il futuro del Paese.
La tendenza che un’emergenza serva come pretesto per cancellarne, o meglio per celarne un’altra è tipico costume italico. In questo senso, non si esce confortati dalla dichiarazioni rese domenica 1 marzo, durante la trasmissione “Mezz’ora in più” di RaiTre, dal presidente di Confindustria Vincenzo Boccia, sollecitato dalla conduttrice della trasmissione Lucia Annunziata a chiarire quali siano i contenuti del Patto tra sindacati confederali e Confindustria per il rilancio dell’economia che, a quanto pare, sarà portato il 4 marzo al presidente del Consiglio Conte e al ministro dell’Economia e delle Finanze Roberto Gualtieri in occasione dell’incontro previsto a Palazzo Chigi.
Di fronte ad un imbarazzato Maurizio Landini, segretario generale della Cgil – che ha tentato di ricondurre su un terreno più razionale e sostenibile le scelte che verranno proposte – il presidente Boccia ha dichiarato la scorsa domenica, in sostanza, che l’Italia si deve fare portatrice in Europa di un piano per le infrastrutture da 3.000 miliardi di euro, fuori dal Patto di Stabilità, da mettere in campo subito, con impegni pluriennali, invece di perseguire le priorità indicate dall’European Green Deal. Per fortuna, il segretario generale della Cgil ha teso a puntualizzare che è d’accordo sull’intervenire sull’adeguamento delle infrastrutture e sui servizi (intendendo anche scuole ed ospedali), sulla rigenerazione urbana e sulla manutenzione del territorio, ma la facile liquidazione dell’European Green Deal è stata avallata improvvidamente anche dalla stessa conduttrice del programma Lucia Nunziata, che ha accreditato l’idea che le scelte green lascino il tempo che trovino .
Figuariamoci se, in una situazione come quella italiana in cui le grandi aree metropolitane sono assediate dalla congestione e dall’inquinamento atmosferico, dove crollano i ponti e le gallerie autostradali, smottano le strade statali e provinciali e ci sono ancora 9 mila km di ferrovie a singolo binario (su una rete ferroviaria di complessivi circa 17mila km) non ci si debba porre il problema delle infrastrutture. Ma indicare questa come “la” priorità – in alternativa secca, alle misure che dovrebbero mettere in sicurezza il pianeta, il nostro paese e la popolazione dai fenomeni estremi causati dai cambiamenti climatici e da modelli di sviluppo insostenibili – è davvero troppo.
Il disegno, posto a base dell’aut-aut, poco originale, proposto da Boccia ricorda troppo da vicino la vecchia formula della legge Obiettivo e delle infrastrutture strategiche, che fu sponsorizzata a suo tempo da Confindustria come chiave di volta per il rilancio del Paese. Una formula fallimentare sul piano ambientale, economico-finanziario e sociale, spazzata via con il Codice degli Appalti 2016, dopo che si è scoperto che il fabbisogno necessario a realizzare le grandi opere previste nel programma di infrastrutturazione del Paese era lievitato, fuori da ogni controllo, dai 125,8 miliardi di euro del 2001, per ben 115 !Infrastrutture strategiche, ai 375,3 miliardi di euro, per 419 opere nel 2014, e che di queste, in ben tre lustri, è stato realizzato solo il 10% dei lotti e il 4% delle opere nel loro complesso.
L’Italia, quindi, se volesse seguire quanto sembra auspicare Confindustria, potrebbe prestarsi ad operazioni furbette per tentare di portare fuori dal perimetro del bilancio pubblico gli investimenti in infrastrutture, come già a suo tempo aveva fatto l’allora ministro dell’Economia e delle Finanze Giulio Tremonti. Un tentativo che portò Eurostat a non certificare i bilanci dello Stato italiano del 2004 e 2005, anche a causa del fatto che oltre 17 miliardi di euro per l’Alta Velocità ferroviaria non erano stati contabilizzati nei conti pubblici (vulnus poi sanato dal Governo Prodi nel 2007). Chissà, se qualcuno si sta chiedendo, se, sull’onda della minaccia pandemica, non sia questa la volta buona.
Nel frattempo il governo farebbe bene ad attrezzarsi perché l’European Green Deal (Egd) è tutt’altro che una scatola vuota. Il 14 gennaio scorso è stato presentato dalla Commissione Europea (CE) il Piano di Investimenti per l’Egd in cui si prevede di movimentare 1000 miliardi di euro in 10 anni così composti:503 miliardi di euro dal Budget Europeo; 25 miliardi di euro derivanti dai proventi delle aste Ets; 100 miliardi di euro per il nuovo Fondo EU per la Giusta Transizione, 114 miliardi di euro dal co-finanziamento degli Stati Membri; 279 miliardi di euro di finanziamenti pubblico/privati per il perseguimento di obiettivi climatici e ambientali. E, secondo la Comunicazione CE del 12 dicembre 2019, entro il marzo 2020 è prevista la presentazione di un pacchetto di strumenti operativi la presentazione della nuova strategia industriale – corredata di un piano d’azione per la produzione e il consumo sostenibili -, il Patto e la nuova Direttiva europea per il Clima, la strategia per la filiera agroalimentare.
E’ certo che il dilagare in Europa dell’emergenza sanitaria porterà a ridefinire in parte le priorità, ma è bene che l’Italia si prepari adeguatamente a tenere il ritmo dell’Europa nell’impostare il nuovo corso delle scelte economico-finanziarie di fondo necessarie a sostenere la ri-conversione ecologica del sistema produttivo e dei consumi nella direzione dell’efficienza nell’uso delle risorse, della ricerca e dell’innovazione, garantendo così nel contempo il benessere e la sicurezza dei cittadini.
Continuare con il modello “business as usual” potrebbe portare l’Italia a perdere il 7% del Pil pro capite, gli Stati Uniti il 10,5%, a causa dell’impatto dei mutamenti climatici sul sistema economico: ce lo ha ricordato ASVIS, l’Alleanza per lo Sviluppo Sostenibile (cui anche il WWF aderisce) nel settembre 2019, citando le stime dello studio condotto dallo statunitense “National bureau of economic research” dal titolo “Long-term macroeconomic effects of climate change: a cross-country analysis”, reso noto lo il 19 agosto dello scorso anno.
Ma, come dicevamo, fare scelte che intervengono sui precari equilibri ambientali del nostro Paese, come giustamente ha tentato di dire Landini domenica scorsa, vuol dire anche garantire la sicurezza di una porzione non irrilevante della cittadinanza.
Ispra, l’istituto di ricerca del ministero dell’Ambiente, il 24 luglio 2018 ha aggiornato la mappa nazionale del rischio nella seconda edizione del Rapporto “Dissesto idrogeologico in Italia”, presentato alla Camera dei Deputati. Nel Rapporto è stato descritto lo scenario attuale del dissesto idrogeologico in Italia. Nel 2017, rileva Ispra, è a rischio il 91% dei comuni italiani (88% nel 2015) ed oltre 3 milioni di nuclei familiari risiedono in queste aree ad alta vulnerabilità. il 16,6% del territorio nazionale è mappato nelle classi a maggiore pericolosità per frane e alluvioni (50 mila km2). Quasi il 4% degli edifici italiani (oltre 550 mila) si trova in aree a pericolosità da frana elevata e molto elevata e più del 9% (oltre 1 milione) in zone alluvionabili nello scenario medio. Complessivamente, sono oltre 7 milioni le persone che risiedono nei territori vulnerabili: oltre 1 milione vive in aree a pericolosità da frana elevata e molto elevata e più di 6 in zone a pericolosità idraulica nello scenario medio Le industrie e i servizi posizionati in aree a pericolosità da frana elevata e molto elevata sono quasi 83 mila, con oltre 217 mila addetti esposti a rischio.
Come si vede, in Italia il rischio ambientale è pervasivo e bisogna avviare un programma duraturo per la manutenzione del territorio.Il ministero dell’Ambiente nel 2013 aveva stimato che fossero necessari 40 miliardi di euro in 15 anni per “mettere in sicurezza” il Paese. Non si tratta di porre con faciloneria in concorrenza, in modo strumentale le priorità, ma fare per tempo scelte giuste e di fondo che si attendono da tempo, per rendere meno precario il nostro futuro.