Sabato scorso l’Avvenire ha opportunamente dedicato due pagine all’attacco che il terzo settore (e i diritti sociali che rappresenta) sta subendo da questo governo. Non solo il terzo settore, ma tutti i corpi intermedi e con essi i movimenti, il sindacato, le associazioni, la società civile – quella indipendente – che si organizza.
L’editoriale di Marco Tarquinio, l’intervista a Stefano Zamagni e l’elenco di dieci “capi d’accusa” al governo illustrano bene il punto in cui siamo. E il punto di partenza è il rifiuto del dialogo, dell’interlocuzione vera, dell’ascolto delle organizzazioni sociali e dei corpi intermedi.
Ad essere onesti, non si tratta solo del vizio del governo giallo-verde, ma anche del governo Renzi che iniziò nel 2014 a praticare la cosiddetta “disintermediazione”, preferendo il rapporto diretto con il “popolo”, senza alcun riconoscimento alla funzione di rappresentanza degli interessi generali, sociali, di categoria delle organizzazioni.
Il governo giallo-verde porta alle estreme conseguenze questo atteggiamento – tipico di tutte le formazioni e coalizioni populiste – mescolando l’autoritarismo della Lega e la “disintermediazione” democraticista dei 5 stelle a base di like e piattaforme digitali.
L’autonomia del terzo settore è stata da tempo (non è questione degli ultimi mesi) intaccata, e dopo essersi indebolito politicamente e nella sua capacità di conflitto e di resistenza, il terzo settore è ora costretto a subire senza capacità di reazione un’aggressione molto concreta. Ad esserne espressione non sono solo i provvedimenti sull’IRES e la mancata emanazione dei decreti sulla legge delega del terzo settore e sulla finanza etica, ma anche la messa al bando delle ONG che difendono i migranti, la riduzione dei fondi alla cooperazione allo sviluppo, l’irrisione ai pacifisti che chiedono la riduzione delle spese militari e la stabilizzazione dei corpi civili di pace, la criminalizzazione delle organizzazioni che si occupano della difesa dei diritti civili, dell’introduzione dello ius soli, eccetera.
Il governo sta riducendo risorse e strumenti per un welfare universalistico e dei diritti. La buona idea e le tante risorse per il reddito di cittadinanza (male pensato, male costruito, male organizzato, ma speriamo non fallisca) non può significare la desertificazione di tutte le altre misure di politica sociale: dalla non-autosufficienza all’inclusione dei migranti, dagli interventi per i senza fissa dimora ai minori. Magari costringendo il terzo settore (e la società civile) al guinzaglio, cooptato e inerme, al servizio di un welfare compassionevole e residuale.
Non c’è da aspettarsi molto – su questo terreno – dall’attuale governo. Speriamo di essere smentiti. Ma il terzo settore rialzi la testa, si faccia sentire e riacquisti la sua dimensione e capacità politica, di denuncia e di conflitto: per riportare l’interesse generale e il bene comune al centro di una democrazia partecipata, fondata sui diritti sociali e di cittadinanza che la nostra Costituzione riconosce e promuove.