Lottare contro i tagli alla spesa per le politiche sociali è una condizione necessaria, ma non sufficiente. Ecco perchè
Se dovessimo scrivere la storia delle risorse destinate al sociale, a partire dall’anno in cui in questo paese fu approvata per la prima volta una norma quadro sugli interventi e sulle politiche sociali, avremmo a scrivere, per ogni anno, lo stesso amaro finale, fatto di molti tagli e pochi soldi. In ultimo il ministro Padoan, nella frenetica ricerca di risorse per la prossima manovra correttiva, ha proposto una riduzione di 214 milioni di euro del Fondo nazionale politiche sociali 2017 (Fnps) e di 50 milioni di euro per il Fondo per la non autosufficienza (Fna). Nel momento in cui scriviamo, dopo le proteste di sindacati e associazioni, il ministro del lavoro Poletti ha preso impegno per il governo di ristabilire la dotazione inizialmente prevista (312 milioni per il Fnps e 500 per il Fna). Per sapere se le promesse corrispondono a verità occorre attendere l’intesa ufficiale che dovrà essere raggiunta nella Conferenza Regioni-Governo.
Potremmo allora dire che, per una volta almeno, c’è un finale a lieto fine? Prima di rispondere, proviamo a fare un primo calcolo elementare. Se dividiamo le risorse stanziate per il numero di abitanti, vediamo che il governo ha stanziato come quota pro capite per cittadino di 5 euro e 20 centesimi per sostenere gli interventi sociali e 8 euro e 35 centesimi per il sostegno alle persone non autosufficienti. Se considerate che i dati ufficiali dell’Istat dicono che la spesa sociale pro capite in Italia è stata in media di 117 euro per abitante, sorge spontanea una prima domanda: se lo Stato investe così poco, chi mette la differenza? A mettere la differenza sono, in primo luogo, le Regioni e i Comuni. Così, nei territori dove vi sono condizioni di bilancio favorevoli, le istituzioni locali possono stanziare più risorse rispetto a quelli dove la situazione non è altrettanto buona. Di conseguenza anche la spesa sociale è figlia della differenza nella distribuzione di ricchezza, tanto che nel nord-ovest, la spesa sociale è in media di 126 euro per abitante, nel nord-est di 159 euro, nel centro di 144 euri, nel sud di soli 51 euro. Per paradosso, dunque, nei territori in cui si registrano le più gravi crisi sociali, con il numero più alto di disoccupati e persone in condizioni di vulnerabilità, ci sono meno risorse per gli interventi sociali.
Un Fondo nazionale degno di questo nome avrebbe la funzione di equilibrare le differenze territoriali e di garantire a ogni cittadino, indipendentemente dal luogo di nascita e di vita, il diritto ai servizi sociali. Invece, le spinte leghiste e lo smantellamento dello stato sociale, hanno nei fatti, prima che ancora per legge, delineato gli elementi fondanti del federalismo che verrà. Quando fu approvata la legge quadro delle politiche sociali (la 328/2000), sembrava potesse aprirsi, pur con molti limiti già visibili allora, una nuova stagione che poneva fine a interventi caritatevoli o di settore per costruire un sistema fondato su diritti essenziali e politiche di inclusione sociale.
Nell’anno della sua istituzione la quota del Fnps trasferita alle Regioni ammontava a € 1.000.000.000, ma di lì in poi lo scenario è mutato in peggio e la consistenza del fondo è diminuita, con diverse oscillazioni. Nel 2008 ammontava a 670.797.413,80, l’anno successivo è stata di € 518.226.539, riducendosi a € 380.222.941 nel 2010 e a € 178.500.000 nel 2011. Nel 2012 l’assegnazione fu talmente bassa, di soli € 10.680.362 da ripartire tra tutte le Regioni e le Province autonome, che per la prima volta nella sua storia non fu raggiunta l’intesa in Conferenza Stato-Regioni perché queste ultime si opposero ai tagli. Nel 2013 il fondo è stato riportato a 300.000.000 per poi essere ridotto nuovamente, nel 2014, a € 262.618.000 e attestarti a € 278.192.000 nel 2015.
Questo triste oscillare di cifre, insufficienti a rispondere ai bisogni per i quali dovevano essere destinate, ha reso ogni anno più debole il sistema delle politiche sociali. Lo stesso destino è toccato in sorte a tutti gli altri Fondi nati a vario titolo per interventi specifici (Fondo pari opportunità, fondo politiche per la famiglia, fondo politiche giovanili, etc.). Più in generale, a furia di tagli e sforbiciate, i trasferimenti statali a regioni e comuni si sono ridotti in ogni campo (trasporti, sanità, eccetera). Così, quasi ovunque, è stato introdotto il sistema della compartecipazione che vuol dire, tradotto in parole semplici, che chi accede ai servizi e alle prestazioni sociali si fa carico di una quota dei costi (in genere di un terzo) se il suo reddito supera una soglia minima. A essere penalizzati, in modo particolare, i disabili e le loro famiglie hanno la prospettiva di dover accedere ai servizi per l’intera durata della loro vita.
In tutto questo, che cosa sia il sociale, cosa voglia dire “intervento sociale”, quali politiche di trasformazione della città e delle periferie siano possibili attraverso interventi di inclusione attiva, quale margine vi sia per nuove sperimentazioni, per non istituzionalizzare gli anziani in strutture residenziali dal vecchio sapore di cronicario, per non parcheggiare i minori per anni in case famiglia, quali siano gli strumenti più efficaci per contrastare la violenza di genere, sono domande che nessuno ha più il tempo o i soldi per porre. Strada facendo la “questione risorse” ha inciso sulle caratteristiche delle imprese del terzo settore che erogano servizi e sui loro operatori. La crisi ha favorito la sopravvivenza delle imprese sociali dalle dimensioni più strutturate, connessa alla condizione di precarietà degli operatori sociali e alla compressione del costo del lavoro attraverso forme flessibili di contrattualizzazione. Le grandi imprese, quale che sia il loro campo, si sa hanno esigenza di ottimizzare i profitti e ridurre i costi. Per tanto le imprese sociali preferiscono intervenire nel campo degli interventi sociosanitari (anziani e disabili non autosufficienti) e gestire strutture residenziali (molto redditizie rispetto ai costi di gestione) che disperdere energie in interventi territoriali complessi. E lì dove prima intervenivano piccole e dinamiche realtà associative, cooperative di utenti, gruppi di auto-aiuto, vere e proprie “agenzie di cambiamento” capaci di valorizzare la dimensione politica dell’intervento sociale, resta il vuoto o quasi. Non dappertutto lo scenario è negativo, in alcuni casi, vivono e resistono realtà cocciute e ostinate, una per tutte ricordiamo quella di Progetto Sud a Lamezia, in Calabria, ma occorre lavorare perché dalle eccezioni nasca una nuova regola.
Lottare contro i tagli alla spesa per le politiche sociali è una condizione necessaria, ma non sufficiente. I soldi per le politiche sociali sono pochi e maledetti, ma soprattutto rischiano di essere inutili, al di là delle circostanze che determinano una cifra piutosto che un’altra. Molto di più bisogna fare, ancora di più occorre chiedere. Soprattutto ripensare un paradigma che relega il “sociale” in una nicchia di economia di semi-mercato di imprese che spartiscono un pane che non lascia neppure le briciole e recuperare, per contro, una visione politica di insieme che ne faccia parte di una lotta più ampia contro le disuguaglianze.
L’articolo pubblicato è uscito sul numero 40 di giugno 2017 della rivista Gli Asini