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Tutte le ombre del Def

Il Documento di economia e finanza del governo riconferma l’adesione totale del governo all’approccio di bilancio europeo, fatto di tagli di tasse, tagli di spesa pubblica, sostegno ai profitti, riduzione dei salari e delle protezioni

L’approccio generale di politica economica seguito dal DEF desta perplessità. Sostanzialmente ci si affida completamente alla favorevole congiuntura internazionale e alle riforme strutturali, di stampo neoliberista, che il governo intende perseguire. Pur se si cerca di sfruttare i pochi decimi di punti di Pil concessi all’interno delle regole di bilancio europee e si evidenziano alcune discrasie tecniche delle stesse regole, il DEF riconferma l’adesione totale del governo all’approccio di bilancio europeo, fatto di tagli di tasse, tagli di spesa pubblica, sostegno ai profitti, riduzione dei salari e delle protezioni, approccio già responsabile di una buona parte della disastrosa situazione dell’economia europea.

Manca una presa d’atto del fallimento delle politiche fin qui perseguite, manca una rifocalizzazione delle politiche economiche che punti al superamento dell’austerità, manca la capacità di finalizzare le risorse in direzione di uno sviluppo economico che offra vero benessere e progresso sociale. Mancano le politiche industriali o per l’occupazione. O meglio, le politiche industriali – se così si possono definire – si riducono da un lato a mettere in campo provvedimenti per il mercato e le imprese nella speranza che il privato faccia ripartire gli investimenti, dall’altro a proseguire il programma sulle privatizzazioni per fare cassa. In sintesi il principale assente nel DEF è semplicemente la politica economica.

Alcune considerazioni di dettaglio.

  1. In base ad una prassi ormai divenuta costante, le stime di crescita sono riviste al ribasso rispetto a quanto previsto nell’aggiornamento al DEF 2015 effettuato a ottobre.
Il Governo ridimensiona le stime sulla crescita del PIL nel 2016 e nel 2017 all’1,2% e all’1,4% (dovevano essere rispettivamente all’1,6% e all’1,5%) e rivede quelle sul deficit al 2,3% per il 2016 (anziché al 2,2%), all’1,8% per il 2017 (anziché all’1,1%).
Ciò evidenzia l’incertezza e l’inadeguatezza delle stime proposte.
  2. Il Def evidenzia uno sbilanciamento tra esportazioni e importazioni a favore delle seconde: il contributo alla crescita è negativo rivelando tutti i limiti di un approccio che affida il rilancio della crescita alle esportazioni. Il Governo sembra prenderne atto evocando la necessità di intervenire a supporto della domanda interna ma gli unici provvedimenti previsti sono a sostegno della redditività delle imprese e degli investimenti privati e la riduzione delle tasse.
  1. La riforma del lavoro effettuata con il Jobs Act non sembra aver dato i risultati sperati.
    Il numero di occupati è passato da 22,19 milioni del 2013 a 22,46 milioni del 2015. In particolare, l’occupazione maschile è aumentata dell’1,31% e quella femminile dell’1,11% nel biennio 2013- 2015. Un andamento peggiore e una disparità di genere emergono se si guarda al Mezzogiorno. L’incremento totale dell’occupazione nelle regioni meridionali è, in media, dello 0,8%, con l’occupazione femminile che vede un incremento solo dello 0,4%. Il tasso di disoccupazione rimane, a livello nazionale, pressoché stazionario passando dal 12,14% del 2013 all’11,89% del 2015. Guardando al 2015, si continuano a osservare importanti divergenze fra macro-ripartizioni in particolare fra tasso di disoccupazione femminile nel Nord-Italia (9,05%) e nel Mezzogiorno (21,3%).
    Per quanto riguarda la disoccupazione giovanile, la fascia d’età 15-29 anni si caratterizza per un tasso di disoccupazione che, nel periodo 2013-2015, è addirittura aumentato dal 29,8% al 29,9%. La categoria più fragile, tuttavia, è quella delle giovani donne meridionali il cui tasso di disoccupazione è passato, nello stesso periodo, dal 45,9% al 46,3%.
    Il Governo stima nel DEF una disoccupazione all’11,4% nel 2016, al 10,8% nel 2017 e al 9,6% nel 2019 superiore di quasi 3 punti a quella registrata nel 2008 (6,8%), anno di inizio della crisi. Ancora più significative le stime sull’andamento del tasso di occupazione che dovrebbe passare dal 57% del 2016 al 58,4% del 2019. Se tale andamento fosse confermato la distanza rispetto alla media europea salirebbe da 4 a 8,5 punti nel 2019, confermando la difficoltà del nostro paese a rilanciare l’occupazione.
    Evidentemente confidare negli investimenti privati per il rilancio dell’occupazione è una strada che non funziona.
  1. Il Governo fonda la sua strategia sul calo della spesa pubblica e del prelievo fiscale. Secondo il Fondo Monetario Internazionale invece le entrate fiscali saliranno quest’anno di 12 miliardi rispetto all’anno scorso e la spesa pubblica crescerà di 13,8 miliardi.
Secondo il Governo “dal 2013 al 2016, il peso della spesa pubblica corrente sul PIL è sceso dell’1,6 per cento. Si stima che l’effetto della Spending Review nel 2016 toccherà 25 miliardi di euro. La riduzione del numero dei centri di spesa e dell’e-procurement sono due aspetti fondamentali della strategia di razionalizzazione dei processi e dei costi di acquisto da parte delle Amministrazioni Pubbliche.”
    Gran parte della riduzione della spesa è prodotta in realtà dalla caduta degli interessi del debito pubblico. Manca invece una vera e propria strategia di revisione, riprogrammazione e riorganizzazione della spesa finalizzata a garantire i servizi risparmiando risorse. L’unico esempio di successo di riduzione della spesa pubblica citato dal Governo nel DEF è quello relativo ai costi standard e alla centralizzazione degli acquisti nel settore sanitario.
    Le politiche di spending review effettuate, tradotte perlopiù in tagli lineari alla spesa pubblica, hanno causato per altro, secondo lo stesso Presidente della Corte dei Conti (Relazione per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 2016) «una non ottimale costruzione di basi conoscitive sui contenuti, sui meccanismi regolatori e sui vincoli che caratterizzano le diverse categorie di spesa oggetto dei propositi di taglio». «Dai tagli operati è, dunque, derivato un progressivo offuscamento delle caratteristiche dei servizi che il cittadino può e deve aspettarsi dall’intervento pubblico cui è chiamato a contribuire».
    La conseguenza che ne è derivata è l’aumento delle disparità delle diseguaglianze tra i diversi sistemi sociali e sanitari territoriali.
  1. Secondo il Governo “nel 2015 il gettito a favore dell’Erario proveniente dal programma di privatizzazioni è stato equivalente a più dello 0,4 percento del PIL, pari a oltre 6,5 miliardi. Il programma per i prossimi anni prevede entrate pari allo 0,5 per cento del PIL l’anno nel 2016, 2017 e 2018, e allo 0,3 per cento nel 2019. La dismissione di immobili pubblici giocherà un ruolo crescente nel raggiungimento degli obiettivi di gettito. Nel 2015 le vendite di immobili da parte degli Enti territoriali, che detengono la gran parte degli immobili pubblici, hanno garantito introiti di 946 milioni di euro, superando l’obiettivo di 500 milioni.” Il Governo prosegue la sua politica di privatizzazioni per far fronte a problemi di liquidità omettendo di evidenziare che il contributo che apporta alla riduzione del debito è minimo laddove la dismissione degli immobili pubblici si traduce molto spesso in nuovi costi aggiuntivi per lo Stato.
  1. Il Social Act recentemente presentato dal Governo e al vaglio del Parlamento prevede una misura di sostegno delle famiglie in difficoltà, partendo in via prioritaria da quelle con minori a carico. A questo fine sono stanziati 600 milioni nel 2016 e un miliardo l’anno nel 2017. Dato il corrispettivo previsto pari a 320 euro mensili per nucleo familiare, la misura interesserà circa 280mila famiglie. La quota monetaria erogata ad ogni beneficiario appare, specie in alcune aree del Paese, così esigua da non consentire di far fronte a tutti i propri bisogni della famiglia.

Ciò accade in un paese in cui la crescita della povertà e delle diseguaglianze non si ferma.
Il rapporto Istat 2014 documenta i livelli di povertà e diseguaglianze nel nostro paese: sono 4,1 milioni i cittadini in povertà assoluta, triplicati negli ultimi sette anni di crisi, e 9 milioni quelli in povertà relativa, più che raddoppiati rispetto al 2008; i minori in povertà assoluta sono più di un milione, mentre l’11,6% della popolazione è in condizione di grave deprivazione materiale.

Solo 13 bambini su 100 (circa 193mila in tutto) hanno il privilegio di accedere a un asilo pubblico, servizio offerto dal 52,7% dei Comuni italiani (ultimi dati ISTAT disponibili relativi al 2012). Ciò accade nonostante gli investimenti pubblici in questo ambito siano quasi raddoppiati nel 2012 (+49%) rispetto al 2002, superando 1,5 miliardi di euro.

Il complesso della spesa per interventi e servizi sociali dei Comuni italiani ha registrato nel 2012 il secondo calo consecutivo rispetto all’anno precedente attestandosi a poco meno di 7 miliardi di euro (6.982.391.861 euro). In crescita è risultata invece la compartecipazione degli utenti al costo delle prestazioni (quasi 1 miliardo euro).

Uno sguardo ai Fondi Sociali Nazionali rivela un significativo ridimensionamento negli anni della crisi. Due esempi per tutti. Il Fondo Nazionale per le Politiche Sociali dagli 1,4 miliardi del 2008 è sceso a 312,6 nel 2016. Il Fondo per la Non Autosufficienza, dopo essere stato azzerato nel 2011, ha raggiunto i 400 milioni solo nel 2015 e nel 2016, con uno stanziamento ancora gravemente insufficiente rispetto alla domanda esistente.

Il nostro paese è buon ultimo in Europa per investimenti pubblici nell’istruzione (7,9% della spesa pubblica contro una media europea del 10,2%) e penultimo per quelli nella cultura (1,4% contro una media europea del 2,1%). Ciò mentre la Legge di Stabilità 2016 ha finanziato il Servizio Sanitario Nazionale con 111 milioni di euro, 4 in meno rispetto ai 115,4 previsti nel Patto per la Salute nel luglio 2014.

Ancora una volta nel Def 2016 il Governo conferma l’opzione per un modello di welfare selettivo e caritatevole che non arriva neanche a coprire l’intera domanda che interessa i cittadini in condizioni di povertà assoluta, archivia come non ricevuta la proposta che Sbilanciamoci! avanza da tempo di introdurre una vera e propria misura strutturale di sostegno al reddito e soprattutto rinuncia a varare misure di politica economica volte ad una reale redistribuzione di reddito e di ricchezza nel nostro paese.

Le proposte di Sbilanciamoci!

Come già evidenziato in occasione dell’approvazione della Legge di stabilità 2016 Sbilanciamoci! torna ad indicare le seguenti priorità:

  1. Rilanciare l’economia. Occorre puntare non sulla riduzione del costo del lavoro ma su investimenti pubblici mirati, capaci di avviare una nuova politica industriale, generare nuova occupazione stabile e, per questa via, rilanciare la crescita.
  2. Ridurre le diseguaglianze. Occorrono politiche di redistribuzione del reddito e del lavoro, una riforma fiscale improntata all’equità e alla progressività, provvedimenti finalizzati ad arginare i poteri della finanza, strumenti di sostegno al reddito non compassionevoli e strutturali.
  3. Una buona spesa pubblica. La riqualificazione e il riorientamento della spesa pubblica devono essere finalizzati al rilancio dell’economia e dell’occupazione, al contrasto della povertà e delle diseguaglianze, alla salvaguardia dei diritti sociali e dell’ambiente. I tagli devono privilegiare la spesa sbagliata: quella militare, per le grandi opere, gli investimenti che distruggono l’ambiente, i sussidi all’istruzione e alla sanità privata.
  4. Per un nuovo modello economico e sociale sostenibile. Occorre riconoscere che il mercato da solo non è in grado di garantire uno sviluppo equilibrato dell’economia, il benessere delle persone e la salvaguardia dell’ambiente è il punto di partenza.

Nel Def 2016 il Governo sembra prendere atto almeno in premessa che le politiche restrittive di bilancio imposte a livello comunitario non costituiscono una risposta efficace contro la crisi. Ancora una volta, come ormai avviene da diversi anni, il raggiungimento del pareggio di bilancio è posticipato al 2019.

Parallelamente il Presidente della Commissione Europea Junker, si è dichiarato favorevole il 18 novembre 2015 ad escludere la spesa per la sicurezza dal Patto di stabilità e crescita.
In considerazione di ciò Sbilanciamoci! ha avviato in collaborazione con Arci, Libera e Rete della Conoscenza la campagna im(Patto) Sociale che propone al Parlamento e al Governo di:

  • –  Escludere dal Patto di stabilità la spesa sociale;
  • –  Aumentare le risorse per i fondi sociali nazionali e per il sistema territoriale dei servizi 
sociali riportandole almeno al livello del 2008;
  • –  Dismettere la politica dei tagli lineari agli enti locali;
  • –  Dismettere la politica dei tagli lineari effettuati sulla spesa sanitaria portando la sua 
incidenza ad almeno il 7,2% del PIL (media europea registrata nel 2013) dal 6,8% 
registrato nel 2015;
  • –  Aumentare la spesa per l’istruzione e per la cultura portandole almeno al livello della 
media europea (rispettivamente 10,2% e 2,1% del totale della spesa pubblica) e rimodulare il sistema del diritto allo studio tanto a livello scolastico quanto a livello universitario, prevedendo la sua estensione universale.
  • –  Introdurre una misura strutturale di sostegno al reddito di entità almeno pari al 60% del reddito mediano pro-capite così come indicato dall’art. 34 della Carta di Nizza;
  • –  Impegnarsi a livello europeo affinché siano abbandonate le politiche di austerità a 
vantaggio degli interventi a sostegno dei consumi e della domanda interna, della crescita, dell’occupazione e dell’inclusione sociale. 
Per i dettagli sul complesso delle proposte elaborate dalla campagna a partire dall’analisi della Legge di Stabilità 2016 rinviamo al Rapporto Sbilanciamoci! 2016 consultabile qui: sbilanciamoci.org

 

Il testo pubblicato è l’Audizione di Sbilanciamoci! presso le Commissioni Bilancio di Camera e Senato 18 aprile 2016

Def2016 Slide dell’Audizione di Sbilanciamoci!