Intervista all’economista Mario Pianta sui 15 anni di euro: «La situazione è critica e instabile. Il rischio che l’unione monetaria così com’è salti c’è, ma sarebbe gestito da governi e retoriche reazionari»
Quindici anni di euro, non è l’ora di fare un tagliando alla moneta unica?
Il bilancio va fatto ed è sicuramente critico – risponde Mario Pianta, professore di politica economica a Urbino e tra i fondatori di Sbilanciamoci! – partendo dalle due stelle polari che hanno guidato tutto il percorso di integrazione, da Maastricht nel ’92 fino all’unione monetaria. Il primo di questi due punti di riferimento è il neoliberismo come orizzonte della politica economica, cioè una politica che dà la priorità ai mercati e rinuncia a un intervento pubblico di rilievo nel guidare i processi, con un’ondata di privatizzazioni massiccia che anche nel nostro paese è stata il biglietto d’ingresso per entrare nel club. La seconda stella di questa traiettoria è la finanza che a partire dagli anni ’90 su scala planetaria e anche europea, attraverso una totale liberalizzazione dei movimenti di capitale, ha pesantemente condizionato i contesti politici e economici a livello nazionale. La quantità di governatori delle banche centrali e di ministri che vengono o vanno in grandi banche internazionali come Goldman Sachs – ultimi esempi macroscopici l’ex presidente della Commissione Barroso appena assunto e Trump che mette al dipartimento del Tesoro un loro banchiere – dà il segno di questa egemonia della finanza internazionale. Il risultato di questo imprinting è che l’euro non ha trainato alcuno sviluppo dell’economia reale, ma è vissuto di bolle finanziarie poi sfociate nella crisi del 2008 mentre si è verificato un aumento delle diseguaglianze all’interno dei paesi e un aumento della polarizzazione e della divergenza tra paesi del centro e della periferia nell’Unione.
L’euro si è quindi rivelato una forza centrifuga?
Questa modalità e traettoria ha avviato meccanismi di polarizzazione per cui i poveri sono diventati più poveri, i ricchi più ricchi, i paesi deboli più deboli, i paesi forti più forti. Mentre l’Unione ha dimenticato di affrontare temi grandi come la responsabilità comune del debito pubblico dei paesi dell’area euro, la regolamentazione bancaria, l’implementazione di una politica fiscale espansiva e comune in grado di far uscire l’Europa dalla stagnazione, tre questioni che sono diventate centrali nella crisi del debito del 2011 con fattori come lo spread e i fallimenti delle banche nazionali, cosa che ora sta vivendo l’Italia ma sono fattori che sono esplosi in tempi diversi nei vari paesi.
La moneta unica serve o è più un fardello dell’Europa?
Non ci sono scorciatoie. È illusorio aprire un dibattito sull’uscita dall’euro come soluzione a questa complessità. Certo che se si mantiene la totale libertà dei capitali e non si adottano drastiche misure come una cancellazione significativa del debito pubblico in euro non si può escludere la fuoriuscita delle economie più deboli come la nostra dall’area euro. Ma se in Grecia fosse tornata la dracma la situazione ora sarebbe peggiore.
Anche a sinistra c’è chi dà la colpa all’euro della svalutazione del lavoro e dei salari.
Lo spostamento di 15 punti percentuali di reddito dai salari ai profitti è un fenomeno che si è verificato in tutti i paesi occidentali, con o senza euro. Ha a che fare con i rapporti di forza tra capitale e lavoro.
Con la Brexit e l’euroscetticismo di destra montante l’euro può saltare?
Se non cambia niente a Berlino e a Bruxelles, dove non si capisce neanche come gestire la Brexit, l’instabilità e l’incertezza aumenteranno insieme a stagnazione e diseguaglianze. L’euro può saltare ma la transizione sarebbe gestita da governi e retoriche reazionarie per far accettare i sacrifici. L’unica via è ricostruire un blocco sociale post liberista e una egemonia culturale e politica in grado di proporre un orizzonte di cambiamento su scala nazionale all’altezza delle sfide.
L’intervista è stata pubblicata sul Manifesto del 3 gennaio 2017