Tre milioni di miliardi di dollari l’anno vanno in derivati, non siamo alla bolla ma quasi: scommesse finanziarie che tolgono soldi all’economia reale. La soluzione è una “Tassa per la Riconversione della Finanza”. Il decreto per la finanza etica è insufficiente.
Lo stato della finanza
Il Wall Street Journal, non il blog di una cricca radical, ha dedicato nel 2018 un’efficace infografica allo stato della finanza a dieci anni dalla grande crisi, per evidenziare quanto ancora profondi siano alcuni problemi cruciali: dalla concentrazione del mercato alla remunerazione dei manager, dalle cosiddette porte girevoli (tra banche e vigilanza, tra vigilanza e banche) alla finanziarizzazione sempre più profonda dell’economia reale (es. il mercato Usa degli immobili in affitto). Lo trovate qui.
I derivati? Stanno bene, grazie
Un ambito che non è stato sostanzialmente toccato dalle pur intense e profonde attività di regolamentazione del decennio appena trascorso è quello degli strumenti finanziari derivati: opzioni, futures, swap e altri strumenti sintetici che non rappresentano nulla di reale (merci o servizi) ma solo scommesse sui loro andamenti sottostanti.
Secondo le statistiche costantemente aggiornate dalla Banca dei Regolamenti Internazionali (la banca centrale delle banche centrali, da ora in poi BRI), poco è cambiato nell’ammontare complessivo di investimenti in strumenti derivati che circolano a livello globale, dalla crisi del 2008 a oggi.
Certamente notiamo un arresto della crescita impetuosa che fino al 2007 si era osservata. Ma la contrazione appare a tutt’oggi ben inferiore alle aspettative: i valori odierni sono ben sopra il quintuplo di quelli che si registravano nel 1997, già dieci anni dopo il film di denuncia “Wall Street” di Oliver Stone.
Andando più nel dettaglio dei numeri, notiamo che a giugno 2019 l’esposizione complessiva nozionale in derivati era pari a 120 trilioni di dollari, in crescita del 27% nel semestre (!), con un ammontare medio di scambi giornalieri pari a 14 trilioni. Il che significa che, con stima prudente, che non tiene conto dei pur numerosi scambi infragiornalieri (ossia di transazioni che si aprono e chiudono nell’arco della stessa giornata, cfr. paragrafo seguente), ogni anno in media si muovono solo sui derivati, a livello mondiale, almeno 3 mila trilioni di dollari (ossia 3 milioni di miliardi di dollari), una cifra pari a circa 50 volte il Prodotto interno lordo (Pil) globale, che l’Ocse stima in 60 trilioni di dollari.
Questi numeri hanno profonde implicazioni dirette e indirette sull’economia reale.
In modo diretto perché distolgono ingenti risorse dagli investimenti alternativi che sarebbe possibile immettere nel ciclo produttivo reale, ossia di beni e servizi, per l’occupazione, la riconversione ecologica, le infrastrutture ed il welfare.
In modo indiretto perché minano alla radice la capacità di tenuta, di stabilità, del sistema finanziario, proprio come nel 2007 la “crisi dei subprime”, forma di derivati sui mutui casa concessi a famiglie a basso reddito da banche senza scrupoli, generò il domino globale che dagli Usa infettò tutti i paesi industrializzati (qua l’efficace sintesi che ne fa Margot Robbie nel film “La grande scommessa”).
Un recente studio della stessa BRI conferma proprio il forte rischio di instabilità finanziaria, di natura sistemica, che oggi corriamo. Esiste, infatti, una intensa correlazione tra le maggiori esposizioni delle banche in derivati, il basso numero di banche cui si riferisce la grande parte di tali esposizioni, il numero piccolo di controparti centrali che fungono da garanti delle compensazioni interne al sistema di scambi in tale mercato. Lo studio mostra, infatti, che cinque sole banche contribuiscono per la metà delle risorse in derivati sul credito e per un terzo di quelli sui tassi di interesse.
E poiché il sistema è sempre più complesso dal punto di vista tecnologico e infrastrutturale, e ciò richiede investimenti crescenti, i cui costi le controparti non possono che ribaltare sulle banche, il rapporto della BRI spiega bene come si stia generando una rischiosissima interdipendenza tra le une (le banche maggiormente esposte in derivati, poche e sempre più grandi) e le altre (le controparti). Da cui, dice la BRI, il rischio che pur essendo le banche centrali consapevoli di tutto questo, “data la complessa ragnatela di incentivi, istituzioni e mercati fortemente diversi, ciò che può trasparire in alcuni esercizi di stress test potrebbe essere lontano dall’essere pienamente compreso”. Un’affermazione non rassicurante da parte di chi come missione deve proprio occuparsi della stabilità finanziaria mondiale.
Anche le operazioni ad “alta frequenza” non se la passano male
Se nel mercato finanziario i derivati rappresentano un problema strutturale “di prodotto” (perché lungi dalla propria funzione originaria di copertura, ormai sono soprattutto scommesse finanziarie pure, a danno di persone e ambiente), va ricordato che la loro potenziale nocività è accelerata e moltiplicata negli effetti dall’altra grande criticità strutturale di cui si parlò tanto dopo la crisi, e su cui nulla o poco si è fatto: il problema “di processo” rappresentato dagli scambi ad alta frequenza, o High Frequency Trading (HFT).
Oggi una percentuale tra il 50% e il 60% delle transazioni nei mercati finanziari ha caratteristica di alta frequenza, che significa operazioni che si aprono e chiudono in un arco temporale inferiore ai 5 minuti (più o meno, non ci sono definizioni ufficiali).
Secondo un recente studio della Banca Centrale Europea (BCE) ciò peggiora in modo significativo la liquidità dei mercati, incrementandone la volatilità giornaliera di un valore aggiuntivo che oscilla dal 9 al 14%.
Tipicamente le transazioni HFT mirano a profitti derivanti da un acquisto ed una immediatamente successiva vendita, o viceversa, contando sugli scostamenti istantanei nei prezzi dei titoli, grazie all’uso di algoritmi sempre più sofisticati e livelli di automazione crescenti, in modo esponenziale, dell’operatività sui mercati.
Ma algoritmi e automazioni con cui gli operatori si fanno concorrenza tendono ad assomigliarsi, per cui spesso gli operatori HFT si trovano sullo stesso lato del mercato (tutti a vendere o tutti ad acquistare). La BCE dimostra che ciò avviene nel 70% dei casi, in media, e tale competizione ha un impatto sui prezzi pari al 23%. Di fatto la sola presenza di questi operatori e la forte correlazione tra le loro strategie conduce dunque a “bolle speculative” (con relative esplosioni) per un valore pari ad un quarto del valore dei listini.
In generale, conclude lo studio della BCE, “gli scambi ad alta frequenza deteriorano la qualità dei mercati finanziari”.
Guardando a ciò che accade in Italia, i risultati non sono molto diversi. Un’analisi della Consob ha verificato l’impatto dell’HFT sulla volatilità dei prezzi dei titoli negoziati sul mercato azionario italiano nel periodo 2011-2013, evidenziando che un incremento esogeno del livello di attività HFT determina un significativo incremento della volatilità dei rendimenti giornalieri. In particolare, viene calcolato nello studio dell’autorità di vigilanza sulla Borsa, un incremento di 10 punti percentuali del peso degli HFT sul totale degli scambi porta ad un aumento della volatilità intraday compreso tra i 4 e i 6 punti percentuali, che rapportato ad un ordine di grandezza della volatilità che si colloca attorno al 15 per cento circa per i titoli inclusi nell’analisi, significa un aumento della volatilità complessiva del 40 per cento.
Frenare la finanza speculativa, via obbligata per un Green New Deal
Riepilogando: la BRI vede instabilità all’orizzonte, a causa dei derivati; la BCE teme le “bolle” da trading ad alta frequenza; la Consob stima che questa operatività aumenti la volatilità dei mercati del 40%. Tutti in allarme. Ma non si fa nulla.
Eppure la soluzione è a portata di mano e in tanti la chiedono da tempo, a partire dalla campagna Sbilanciamoci!. Non chiamiamola “Tobin Tax”, perché le condizioni di mercato e le tecnologie sono talmente cambiate che sarebbe difficile piegare questa idea al pensiero del vecchio saggio premio Nobel James Tobin.
Anche “Tassa sulle transazioni finanziarie”, come è chiamata oggi, rischia di essere fuorviante. Perché l’obiettivo non è un’ambigua demonizzazione di tutte le transazioni finanziarie, con il rischio che passi per un approccio culturale anti-finanza in sé, astuta manipolazione di chi vuole screditare queste richieste.
Potremmo forse chiamarla “Tassa per lo Riconversione Ecologica” o più esplicitamente “Tassa per la Riconversione della Finanza” (TRF), ma il nome è veramente poco rilevante. Ciò che conta è l’obiettivo: costruire un meccanismo fiscale efficace che si insinui nell’operatività dei mercati, rendendo più costose, dunque meno convenienti, proprio quelle transazioni che fanno male allo sviluppo sociale e ambientale, a partire da derivati e HFT.
Una tassa che in questo modo freni la speculazione, non tanto per raccogliere gettito da destinare a investimenti green o social, esito che pure non va disdegnato, ma soprattutto per riorientare l’operatività dei mercati, dei loro algoritmi e dei robot che li gestiscono.
Il tema va affrontato con convinzione ora che cresce l’attenzione su modelli di sviluppo necessari a sostenere la riconversione ecologica. E ora che, ancora una volta, le tante negoziazioni per una tassa sulle transazioni finanziarie (FTT, dall’inglese Financial Transaction Tax), che a livello europeo mobilitano parlamentari, commissari, eserciti di sherpa e ministri nazionali, stanno portando all’ennesimo buco nell’acqua.
Grazie all’attento lavoro della società civile che monitora queste attività, da Finance Watch alla campagna 005, sappiamo infatti che dopo le roboanti dichiarazioni dei molti politici che a turno urlano contro la speculazione e la finanza, i governi europei stanno convergendo su un’ipotesi di tassazione la cui base imponibile dovrebbe essere rappresentata solo da azioni di imprese a grande capitalizzazione (sopra 1 miliardo di euro), niente derivati o altre tipologie di titoli, replicando le peggiori caratteristiche strutturali degli schemi di tassazione dell’Italia e della Francia, che escludono le singole transazioni e prendono a riferimento soltanto i saldi netti giornalieri, rinunciando a monte al tentativo di disincentivare il trading giornaliero.
È arrivato invece il momento di fare scelte coraggiose e strutturali per:
- fermare la deriva autoreferenziale e speculativa dei mercati finanziari;
- orientare la finanza privata verso l’economia reale;
- incentivare gli investimenti in grado di produrre impatti green e social.
Sarebbe bello se fosse l’Italia ad aprire questa strada rivedendo lo schema nazionale di FTT, che esclude le operazioni HFT che avvengono in un arco di tempo inferiore al mezzo secondo (quando la BCE parla di 5 minuti!) e che applica un’aliquota irrisoria sui derivati (0,0015%). Trasformare la debole e rachitica FTT italiana in una forte e coraggiosa TRF non solo sarebbe coerente con la promessa di un Green New Deal ma darebbe al nostro paese anche una leadership importante nell’Unione europea del prossimo futuro.
E la finanza etica? Il Green New Deal dovrebbe incentivarla
Secondo un’analisi della rete internazionale Banktrack, nei tre anni trascorsi dall’adozione degli Accordi di Parigi per il clima (2016-2018), 33 tra i maggiori gruppi bancari mondiali hanno fornito fin qui 1.900 miliardi di dollari di prestiti al settore dei fossili: una cifra che continua a crescere ogni anno. Ben 600 miliardi sono andati alle 100 imprese che in modo più aggressivo stanno ampliando le attività legate ai combustibili fossili. Di questi 33 gruppi bancari la metà, ovvero 16, sono tra i firmatari dei “Principles for Responsible Banking” recentemente proposti dall’ONU.
Queste banche sono le stesse che gestiscono la gran parte degli scambi globali sui derivati e che affollano il mercato degli scambi ad alta frequenza.
Banca Etica ed Etica Sgr da due decenni escludono dai propri finanziamenti settori rischiosi per il clima (come il carbone e il petrolio) e per l’ambiente in generale (come il nucleare) o per la collettività (gli armamenti e il gioco d’azzardo). Investendo invece in tante aziende, grandi e piccole, che guardano al futuro e sviluppano attività innovative nel campo delle energie da fonti rinnovabili, della riduzione della CO2, dei materiali alternativi alle plastiche, della bioedilizia e che costruiscono strumenti che ci permettono di cambiare i nostri stili di vita.
Il Governo ha messo in consultazione in questi giorni un Decreto attuativo per la norma che istituisce gli “operatori di finanza etica e sostenibile” (art. 111 bis del Testo unico bancario). Un passo importante, dopo 3 anni dall’approvazione della legge in Parlamento. Ma fa sorridere leggere che tali operatori saranno incentivati (attraverso una detassazione degli utili reinvestiti) per un importo non superiore a 200mila euro in 3 anni. Sì, avete letto bene, si parla di 66mila euro all’anno per incentivare le banche a scegliere la finanza sostenibile (o per premiare quelle che già lo fanno).
Ecco, se l’attuale Governo vuole seriamente farsi carico del grido dei milioni di giovani che il 27 settembre hanno manifestato per il clima, se vuole veramente caratterizzare la propria azione all’insegna di un Green New Deal, bè la strada passa per scelte chiare e coerenti sulle regole della finanza e i relativi sistemi di incentivo e disincentivo.
Alessandro Messina, direttore generale di Banca Etica