Il cambiamento che si può intravedere nelle ultime elezioni non vuole dire, come ottimisticamente proclama Pablo Iglesias, che in Spagna si sia aperto un ‘tempo nuovo’ della politica
Le elezioni di dicembre sono le specchio dei cambiamenti che hanno investito la Spagna negli ultimi anni. Il numero di donne elette in parlamento sarà, per la prima volta, molto vicino a quello degli uomini. E, malgrado la legge elettorale attualmente in vigore penalizzi fortemente i piccoli partiti, il nuovo parlamento avrà una composizione fortemente plurale. Una pluralità che riflette, in larga misura, la frammentazione sociale ed economica prodotta da più di cinque anni di politiche di austerità.
Tuttavia, il cambiamento che è possibile intravedere in quest’elezione dagli esiti ‘all’italiana’, un italianità identificabile nell’assenza di un blocco politico capace di avere la netta maggioranza nel paese, non vuole dire, come ottimisticamente proclama Pablo Iglesias, che in Spagna si sia aperto un ‘tempo nuovo’ della politica. Ci sono perlomeno quattro ragioni per essere cauti, da questo punto di vista.
Primo, il bipartitismo e ferito, ma non è morto. Il Partito Popolare e quello Socialista hanno raggiunto appena il 50% dei suffragi. Tuttavia, grazie all’attuale legge elettorale (eredità avvelenata della transizione post Franchista) avranno due terzi dei seggi nel nuovo Congresso. Ed il Partito Popolare avrà, da solo, la maggioranza assoluta al Senato. Non è affatto improbabile dunque che, dopo un po’ di teatrino ed innumerevoli pressioni, da queste elezioni emerga il primo esperimento di ‘grossekoalition’ alla spagnola. Non vi è dubbio che, in questo modo, il Partito Socialista si suiciderebbe andando ad allungare la schiera dei partiti socialisti e socialdemocratici europei prossimi alla scomparsa, come in Francia, o in preda ad una mutazione genetica, come in Italia. Ma c’è più di un maggiorente socialista che ha già fatto capire come una prospettiva simile potrebbe non essere vista di cattivo occhio da consistenti aree del partito. Tra questi, val la pena menzionare Felipe González già capo del governo dall’ 82 al 96.
In secondo luogo, la destra ha sì perso voti, ma non quanti ne avrebbe potuti perdere considerando l’entità delle misure antipopolari attuate in questi anni. Misure che hanno visto una massiccia precarizzazione del lavoro e tagli senza precedenti ai servizi pubblici. Ed è anche vero, che un terzo di coloro che avevano votato Rajoy alle precedenti elezioni gli hanno voltato le spalle, ma la gran parte lo ha fatto dirottando il proprio consenso su Ciudadanos. Un partito ‘nuovo’ che si è rivelato, in realtà, un’ improvvisata operazione di marketing politico. Un operazione che, peraltro, non ha ben sopportato il confronto con gli elettori. Se il partito d’Albert Rivera era dato secondo o addirittura primo nei sondaggi di novembre, le proposte dal profumo ‘renziano’ in campo economico e l’ardore marziale sulla crisi siriana hanno portato Ciudadanos a posizionarsi, infine, quarto, ben lontano degli altri concorrenti.
Terzo, il Partito Socialista è arrivato secondo, pur perdendo moltissimi voti. Ha rischiato, infatti, di venire sorpassato da Podemos. Il leader socialista Pedro Sánchez e stato personalmente sconfitto a Madrid, risultando il meno votato fra i leaders nazionali. Questo risultato sta facendo montare, come prevedibile, un clima da resa dei conti nelle file socialiste. In questo contesto, Sánchez potrà ottenere la propria salvezza politica solo riuscendo a diventare primo ministro. Ma per diventare l’occupante del Palazzo della Moncloa, il capo socialista dovrebbe costruire una coalizione di sinistra (PSOE, Podemos e Izquierda Unida) coinvolgendo anche i nazionalisti baschi e quelli catalani. La cosa, di per se non impossibile, vede una forte opposizione di una parte rilevante dell’establishment socialista. Con quest’ultimo che sembra essere disposto a tutto per scongiurare quest’evenienza. Già si sente invocare, dalle prime pagine dei maggiori quotidiani spagnoli, un intervento personale del re Felipe V per bloccare questo ‘compromesso storico’ alla iberica.
Infine, va registrato l’importante successo elettorale di Podemos. Tuttavia, l’atteso ‘shock’ non si è materializzato poiché il ‘sorpasso’ a danno dei Socialisti è avvenuto nelle grandi citta, ma non a livello nazionale. Va detto che Podemos è stato, con tutta probabilità, il partito più votato fra gli under 30. Ed è stata la forza politica più votata degli elettori catalani e baschi. Ha saputo sfruttare parte della tensione politica ancora viva attorno al recente referendum sull’indipendenza della Catalunya centrando, però, il proprio discorso sulla vera ragione della frattura che oggi attraversa la Spagna: le politiche socio-economiche degli ultimi venti anni. Ed è per tutti questi motivi che i militati ed i simpatizzanti di Podemos erano gli unici ad esultare nella notte della domenica, agitando le loro bandiere violette, memoria storica del passato repubblicano della Spagna.
La politica è un’arte che prevede la capacità di mutare pareggi, o parziali sconfitte, in vittorie. In questo senso, è lecito aspettarsi che nelle prossime settimane i contendenti dell’agone politico spagnolo si distingueranno nell’esercizio della tattica. Per ciascuno sarà prioritario tentare di rendere concreto quel che oggi sembra impossibile. Per l’establishment, la costruzione della grossekoalition. Per il popolo della sinistra, l’insediamento di un governo di sinistra. La politica, però, dovrebbe anche lasciar intravedere la sua ambizione più vera e più alta. Quella di riuscire a cambiare lo stato di cose presenti. E, malgrado nel programma de Podemos, ci siano alcuni spunti che vanno in questa direzione, l’ultima fase ha visto la leadership del partito concentrarsi più sull’efficacia comunicativa che sulla chiarezza rispetto a temi chiave come, ad esempio, le relazioni con l’Unione Europea.
Solo il Partito Comunista aveva un programma netto sulle questioni fondamentali dell’Unione Europea, dell’euro e del legame tra questi e l’apparentemente irrinunciabile austerità. Ma gli elettori sembrano non aver voluto premiare la chiarezza delle posizioni dei comunisti percepiti, questi ultimi, come incapaci di incidere in modo rilevante sulla dinamica politica attuale. I nodi, però, son destinati a venire al pettine e, a quel punto, la tattica non soltanto non basterà ma potrebbe addirittura far danni. Il tempo nuovo arriverà solo se l’azione politica di chi è intenzionato a produrre un vero cambiamento vedrà unite la tattica e la sostanza di posizioni politiche di rottura radicale rispetto all’attuale schema dominante. Le prossime settimane mostreranno su quale sentiero il paese si incamminerà.