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Un modello di analisi della Green economy

In attesa di capire come si articolerà il Green New Deal promesso sia da Gentiloni, sia da Gualtieri, cerchiamo di capire cosa si cela sotto il paradigma “green” oltre a una nuova domanda di beni più “intelligenti” e meno inquinanti.

Sebbene l’obbiettivo del contenimento del riscaldamento climatico entro i 2 (auspicabilmente 1,5) gradi sia al centro dell’agenda mondiale, c’è una tendenza diffusa a trattare il problema su piani inadeguati. Il cambiamento climatico appare una questione o legata genericamente a impegni politici più avanzati da parte di Stati e imprese, e/o dipendente dalla scelta di aumentare o meno i costi sui beni e sui processi inquinanti, e/o connessa agli stili di vita e di consumo (scelte relative ai trasporti, agli acquisti alimentari, alla modalità di climatizzazione degli ambienti…). Ciascuno di questi approcci ha una sua fondatezza, anche se nessuno tra essi si rivela soddisfacente da un punto di vista del modello di analisi. Le sfide che sottostanno ad un cambio di paradigma, chiamato nel seguito Green economy, sono evitate o solo sfiorate dalle letture di cui sopra.

Da un punto di vista degli impegni politici ad esempio il think tank Climate action ha calcolato diversi scenari di innalzamento della temperatura in funzione di quali piani di azione statali verranno effettivamente concretizzati nei prossimi anni. Si va da un minimo di 2,6 gradi (laddove le promesse di azione venissero tutte realizzate) a un massimo di 3,4 gradi (l’ipotesi più negativa in caso di continuazione delle politiche attuali). Lo strumento è senz’altro utile, ma offre dati secondo un modello di analisi a “cruscotto” senza entrare nel merito delle scelte di politica industriale. Altrettanto parziali sono gli approcci che si concentrano sull’analisi degli stili di consumo e sui relativi premi o punizioni, senza entrare nel merito di come produrre beni che permettano effettivamente di migliorare gli stili di vita in termini di impatto sulla natura.

Ciò che non è emerso finora è qualcosa di diverso: un modello d’analisi capace di combinare difesa dell’ambiente e paradigma tecno-economico green, con tutte le implicazioni tecnologiche sottese. I paradigmi tecno-economici si affermano quando si esaurisce un modello di riferimento e la tecnologia emergente permette di soddisfare la nuova domanda. Un paradigma green sottende una combinazione tra offerta e domanda di beni e servizi che incorporino maggiore conoscenza, unitamente ad una intensità energetica e inquinante (CO2) più contenuta. 

L’associazione e centro di ricerche e formazione sulla sostenibilità integrata EStà (Economia e sostenibilità) sta indagando il dare e l’avere della Green Economy e delineando i cosiddetti beni capitali, intermedi e di consumo (dal lato della domanda e dell’offerta) connessi al nuovo paradigma. I risultati sono inediti e smentiscono il modus operandi delle politiche ambientali piegate sui soli costi, mostrando un ritratto più completo della Green economy e svelando le insidie che una sua interpretazione semplificata nasconde per l’industria, la finanza e la politica. Un ritratto che di seguito viene riassunto attraverso tre tesi. 

1) L’impatto degli effetti climalteranti sul PIL andrebbe misurato in termini di perdita di capitale e non solo in termini di costi. Il territorio italiano è esposto a gravi rischi connessi all’innalzamento dei mari, a sua volta effetto del riscaldamento globale. A tentare una valutazione dell’impatto ha provveduto uno studio condotto da ricercatori del laboratorio Modellistica Climatica e impatti dell’Enea e successivamente pubblicato sul Quaternity Science Reviews. Secondo la ricerca, l’Italia nel 2100 perderà una parte importante del suo territorio e di ciò che esso contiene, poiché un innalzamento del livello dei mari calcolato in un arco plausibile di 28-60 centimetri, insieme ai movimenti tettonici, potrebbe portare alla sommersione di 5.500 chilometri quadrati di pianure costiere.

Secondo un approccio tradizionale questi dati possono essere letti come costi futuri, ma in realtà i costi di qualcuno sono anche un reddito per altri. La messa in sicurezza di un’area, il risanamento di un territorio, il disinquinamento delle falde acquifere e/o la ricerca di falde più profonde, sono effetti del cambiamento climatico che potrebbero diventare reddito in presenza di una politica economica capace di misurarsi con il tema. La disputa sui costi fa ombra a qualcosa di più profondo, ossia la quantità di capitale che rischia seriamente di essere compromesso perché distrutto o reso inutilizzabile dagli effetti climalteranti. Più precisamente, considerate le previsioni sulle inondazioni, ci sono ampie porzioni di territorio che rischiano di essere private di capitale tout court e della relativa possibilità di produrre valore aggiunto.

2) Nel settore del cambiamento climatico la finanza può produrre effetti distorsivi. Con quali lenti la politica monetaria guarda al cambiamento climatico? Nei più importanti documenti istituzionali, compresi quelli della Banca d’Italia, il tema è connesso ai parametri ESG (criteri ambientali, sociali e di governo), che permetterebbero la predisposizione di bond collegati agli obiettivi climatici. Secondo la banca d’affari Goldman Sachs, gli ESG hanno già generato investimenti per 59 mila miliardi di dollari.

Purtroppo, le dinamiche finanziarie, anche quando inserite nella cornice dei parametri ESG, con difficoltà considerano alcuni rischi rilevanti quali ad esempio il rischio di erogare più credito-capitale nelle zone a minor vulnerabilità climatica – dove ci sarebbe meno necessità di credito-capitale da investire – rispetto ad aree ad alta vulnerabilità. Le stime della Banca d’Italia mostrano che, a parità di altre condizioni, l’ammontare di credito erogato in Italia a imprese residenti in aree ad elevato rischio alluvionale è correlato negativamente a tale rischio (-0,17%) e che colpisce soprattutto le imprese medio-piccole.

Più limitato per ora appare il rischio speculativo, cioè la creazione di bolle in un nuovo macro settore ritenuto ad alto potenziale di redditività. Esaminando i titoli a maggior rischio di speculazione si nota che rispetto al mercato degli ABS/CDO legati alla crisi del 2007-08, la diffusione dei Cat Bonds (e di altri strumenti similari di riassicurazione) è per ora irrisoria: mentre la securitization dei mutui era infatti lievitata nel 2007 nell’ordine dei trilioni (migliaia di miliardi) di dollari, il mercato dei titoli di riassicurazione contro catastrofi è oggi ancora inferiore ai 100 miliardi di US$, dollari americani.

In tutti i casi resterebbe eluso il nodo strategico principale: uno degli ostacoli allo sviluppo del mercato delle obbligazioni verdi è la mancanza di progetti green, così come di misure politiche volte a rafforzare gli investimenti dell’economia reale in beni e infrastrutture verdi, essenziali per raggiungere gli obiettivi posti dagli accordi climatici di Parigi 2015. Anche i piani recentemente annunciati dalla nuova Commissione europea appaiono fondati su una logica di mercato che elude il ruolo fondamentale del governo pubblico. 

3) Per esaminare le prospettive della Green economy occorre indagare la relazione tra andamento di CO2, PIL e struttura produttiva. Nonostante vi sia accordo pressoché unanime sull’obiettivo di ridurre la CO2 per contenere gli effetti climalteranti, questo orizzonte è stato storicamente interpretato da taluni come un vincolo alla crescita e/o come un vincolo all’uso delle risorse naturali. Da diverse parti, inoltre, si è manifestata l’intenzione di introdurre tasse di scopo per implementare il principio di chi “inquina paga”.

Mentre sul piano fiscale parrebbe molto più opportuna la rilevazione di una base imponibile coerente, slegata dal consumo, introducendo un criterio di progressività connessa alla produzione CO2, la sfida più importante si colloca in ogni caso nella relazione tra emissione di CO2 e struttura produttiva (modello di sviluppo). Osservando alcuni indicatori di sistema dei principali paesi europei (brevetti, R&S, investimenti verdi, PIL), si osserva che non tutti i paesi registrano gli stessi andamenti (E. Camisana). Le differenze sono legate alla struttura produttiva: tanto più questa è orientata alla Green Economy, tanto più mostra maggiori tassi di crescita e viceversa. Alcuni dati possono illustrare questo concetto. 

Le emissioni di gas serra totali (LULUCF – Land Use, Land Use Change and Forestry – che esclude le emissioni da traporto aereo e marittimo) sono diminuite di 1327 milioni di tonnellate dal 1990 (23,5%), raggiungendo il livello più basso negli ultimi sui 27 anni (4307 Mt CO2eq.). Dal 1990 all’interno dell’Unione europea si assiste pertanto a un progressivo disaccoppiamento tra PIL ed emissioni di gas serra, con un aumento del PIL di circa il 58%, che fa il paio con la riduzione delle emissioni del 23% nel periodo (sebbene il Low carbon index 2019 segnali che il tasso di diminuzione annuo della carbon intensity a livello globale sia largamente insufficiente).  La riduzione delle emissioni di gas a effetto serra nel corso degli ultimi 27 anni dipende da molti fattori, da cui emergono la crescente quota di energie rinnovabili sul totale, l’uso di combustibili a minore intensità di carbonio e il contemporaneo miglioramento dell’efficienza energetica, nonché i cambiamenti strutturali dell’economia. 

Sebbene la crescita del PIL concorra alla riduzione della CO2, è necessario indagare cosa si cela dietro la scatola nera di questo fenomeno. Il peso specifico della ricerca e sviluppo in rapporto al PIL cresce nel tempo, e questa crescita concorre significativamente alla riduzione dell’impatto ambientale delle nuove produzioni. La struttura dei brevetti dà conto di questa trasformazione. I brevetti dell’Unione Europea (dal 2000) aumentano del 78,38%, ma i brevetti green crescono del 458,1%. Si affaccia uno scenario economico e tecnologico che richiama solo in parte lo sviluppo delle tecnologie ICT di inizio 2000 con un possibile impatto oggi assai maggiore. Ciò che emerge in particolare è il ruolo dell’innovazione nel contenimento della CO2, ed in particolare di quella connessa alle tecniche a basso impatto ambientale, che spiega il 70% delle variazioni nelle emissioni di CO (cit). 

La Green economy poggia sull’industrializzazione della ricerca e sulla politica pubblica; la distanza tra i paesi fotografa il loro posizionamento tecno-economico e la relativa possibilità di diventare protagonisti del cambiamento. Questo tema emerge con nettezza se misuriamo le relazioni determinate dalla produzione e dalla circolazione dei beni tra i vari settori in cui si articola un sistema economico, secondo l’approccio definito dall’economista russo Wassily Leontief.

Ad un primo livello dell’indagine condotta da EStà, emerge come il settore della manifattura industriale, rispetto ad altri maggiormente considerati dalla narrazione mainstream (trasporti, agricoltura) sia quello che meglio di altri reagisce in termini di de-carbonizzazione rispetto agli stimoli coordinati di Ricerca e sviluppo e brevettazione. Nell’insieme dell’Unione europea, considerando il periodo 2008-2017, il settore dell’agro – silvicoltura e pesca diminuisce le sue emissioni di CO2 solamente dell’1,04%, il settore dei trasporti del 4,54%, la manifattura ben del 20,78%.  La manifattura inoltre è il settore strategico della Green economy in quanto produce e cede i beni che saranno poi utilizzati dai settori, agricolo, dei trasporti, della climatizzazione etc.

Anche solo considerando queste prime indagini, emergono spunti sufficienti per stimolare disegni di politiche economiche adatte alle sfide dei prossimi anni, e per definire contemporaneamente una Strategia nazionale di Sviluppo sostenibile per il settore della manifattura industriale.