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Un fisco forte con i deboli e debole con i forti

Bisognerebbe ripartire dalla rimodulazione della struttura delle aliquote irpef in modo da garantire una potenziata progressività dell’imposta ed il rispetto del principio della capacità contributiva sancito dall’art.53 della Costituzione

Dopo lo scoppio della crisi dei debiti sovrani del 2010, la XVII legislatura si è aperta nel segno di uno scenario macroeconomico estremamente complesso. In materia di politica fiscale, pur se ampiamente smentita dall’evidenza empirica, ha prevalso la convinzione che una rigida restrizione fiscale, basata principalmente su tagli lineari della spesa pubblica, avrebbe consentito di rilanciare la crescita delle economie in sofferenza, tra cui quella italiana.

In questo contesto, il Trattato sulla stabilità, il coordinamento e la governance (noto come “Fiscal Compact”), i cui dettami sul pareggio di bilancio sono inseriti nell’art. 81 della nostra Costituzione, ha tracciato la rotta delle manovre finanziarie degli anni successivi; una rotta seguita dai Governi Letta, Renzi e Gentiloni lungo il “sentiero stretto” della ripresa e della correzione dei conti, nel rispetto dei vincoli europei.

Ricordiamo che, come ulteriore garanzia della tenuta dei conti pubblici, sono stati stabiliti già dal 2011 aumenti automatici delle entrate tributarie, le cosiddette “clausole di salvaguardia”. Per operare la loro sterilizzazione e rimandare gli aumenti delle aliquote Iva e delle accise, nel corso della legislatura è stata impiegata un’ingente quantità di risorse, più di 50 miliardi di euro. Per comprendere l’entità delle coperture richieste, basti pensare che nell’ultima Legge di Bilancio 2018, su un totale di circa 28 miliardi, ben 15 sono stati destinati alla sterilizzazione delle clausole.

L’analisi dei principali provvedimenti fiscali degli ultimi anni rivela che, sul fronte dell’offerta, si è tentato di rilanciare la competitività del Paese con incentivi all’investimento e di favorire le assunzioni attraverso l’abbassamento del costo del lavoro, sul fronte della domanda, si è assistito invece a poco riusciti tentativi redistributivi e di stimolo dei consumi.

Si possono identificare quattro direttrici principali su cui si incardinano tali provvedimenti: lo spostamento del carico fiscale dai patrimoni ai redditi, la detassazione dei redditi di impresa e da rendite immobiliari (anziché dei redditi da lavoro), il ricorso a regimi di tassazione separata, la concessione di bonus ai lavoratori dipendenti come (unica) misura redistributiva e di stimolo dei consumi, primo fra tutti il “bonus irpef” di Renzi.

Lo spostamento del carico fiscale dai patrimoni ai redditi viene operato principalmente dal Governo Letta che abolisce, all’interno della Legge di Stabilità 2014, l’Imposta municipale unica (Imu) sull’abitazione principale (e la successiva riduzione di Imu e Tasi per gli immobili in locazione con canone concordato).

Questo è stato senza dubbio un provvedimento di facile consenso, ma ha di fatto rappresentato un passo indietro rispetto alla costruzione di un sistema impositivo patrimoniale progressivo che riesca a tenere conto della tipologia e della dimensione dei patrimoni – anche e non solo immobiliari – che sia preceduto dalla necessaria riforma di un sistema catastale datato 1939 (il calcolo della base imponibile Imu è infatti centrato sulla rendita catastale dell’immobile).

L’abolizione dell’Imu comporta una notevole riduzione del gettito fiscale – circa 4 miliardi di euro soltanto nel 2013, il primo anno di implementazione della misura – e un inevitabile aumento dei costi amministrativi legati al meccanismo di compensazione dei Comuni.

Lo stesso Ministero dell’Economia e della Finanza[1] prima della suddetta abolizione, evidenziava la scarsa efficienza di tale ipotesi e le notevoli criticità sotto il profilo redistributivo (ossia dell’equità) con un impatto regressivo rispetto al reddito e con effetti territoriali distorsivi, dovuti alla sperequazione delle rendite catastali, avvantaggiando i comuni del centro e del nord Italia rispetto ai comuni meridionali. Prendendo in considerazione il beneficio medio di tale misura per diverse classi di reddito, viene quantificato tale beneficio in 187 e 195 euro medi annui per le fasce di reddito, rispettivamente, fino a 10.000 euro e tra 10.000 e 26.000 euro annui, con un beneficio medio di 629 euro per i redditi superiori ai 120.000 euro annui. Nella stessa indagine viene stimato che tali maggiori benefici per i percettori di redditi alti, sarebbero stati spesi per oltre un terzo in risparmio e per meno di due terzi in consumi.

La detassazione dei redditi di impresa e da rendite immobiliari si realizza prevalentemente su iniziativa del Governo Renzi con l’adozione di diverse misure, tra cui la riduzione, con la Legge di Stabilità 2016, dell’aliquota sul reddito di impresa (Ires) dal 27,5 al 24% e l’esenzione di banche e fondi d’investimento dal pagamento dell’addizionale Ires (3,5%) (Legge di Bilancio 2017).

Per quanto riguarda invece il ricorso a regimi di tassazione separata, con la Legge di Stabilità 2016 viene introdotto un tale regime fiscale sui premi di produttività, mentre con la Legge di Bilancio 2017 assistiamo all’innalzamento sia del valore dei premi di produttività soggetti a detassazione (da 2.500 a 4.000 euro), sia del reddito annuo massimo per poterne usufruire (da 50.000 ad 80.000, facendovi rientrare i redditi dei quadri e di una parte dei dirigenti). Altri due esempi di ricorso a regimi di tassazione separata sono la tassazione delle transazioni finanziarie al 26% e l’introduzione dell’Iri (Imposta sul reddito dell’Imprenditore), che risulta essere di fatto una flat tax – ossia un’imposta proporzionale con aliquota fissa al 24% – per gli utili non prelevati da società di persone e imprese individuali in contabilità ordinaria[2].

Occorre a tal proposito sottolineare come il frequente ricorso a regimi di tassazione separata vada di fatto a frammentare ulteriormente la base imponibile irpef rendendo ancor più complicata la realizzazione di un sistema organico di tassazione progressiva.

Sul lato dell’offerta, tra le misure votate allo stimolo della competitività, abbiamo visto un’eccessiva attenzione rivolta alla riduzione del costo del lavoro, tramite ad esempio l’esclusione del costo del lavoro dalla base imponibile Irap, (Legge di Stabilità 2015), e dell’iper- e super-ammortamento per l’acquisto dei beni strumentali nuovi rientranti nel piano “industria 4.0” come unica misura di stimolo degli investimenti (Legge di Stabilità 2016).

Sul lato della domanda, è stata invece imposta la logica dei bonus come unico intervento redistributivo e di stimolo dei consumi. Emblematico in tal senso è stato certamente il Bonus Irpef di Renzi – introdotto inizialmente all’interno del c.d. “Decreto Irpef” (66/2014) e diventato poi strutturale con la Legge di Stabilità 2015.

Attualmente, si tratta di un credito di imposta erogato mensilmente in busta paga dal datore di lavoro e spettante ai lavoratori dipendenti che percepiscono un reddito annuo lordo compreso tra 8.174 e 26.600 euro.[3] Questi ultimi ricevono mensilmente un importo fisso di 80 euro (960 euro annui), mentre ai percettori di redditi compresi tra 24.600 e 26.600 euro spetta una somma decrescente, che si annulla al superamento del tetto massimo di 26.600 euro.

Il costo totale annuo per lo Stato di questa misura ammonta a circa 9,5 miliardi di euro.

Il Governo Renzi si era posto un duplice scopo con l’introduzione del bonus: redistributivo e di stimolo dei consumi. In entrambi i casi, i suoi effetti lasciano perplessi. Sotto il profilo redistributivo, il bonus Irpef non solo non coglie nel segno, ma provoca alcuni effetti distorsivi dovuti, innanzitutto, alle soglie reddituali che danno diritto o meno all’erogazione.

La distorsione riguarda sia il passaggio dalla “no tax area” alla soglia minima degli 8.174 euro (che comporta come detto un aumento annuo di 960 euro del reddito), sia la fascia reddituale in cui l’importo viene erogato in misura decrescente – fascia che ricomprende 1,2 milioni di lavoratori dipendenti[4].

Inoltre, gli scarsi effetti redistributivi del bonus interrogano la sua vocazione di misura “anti-povertà” e la limitata platea di famiglie e individui in difficoltà cui si rivolge. Già lo stesso Ufficio Parlamentare di Bilancio (Upb), nel suo Rapporto sulla politica di bilancio 2015[5], in relazione all’impatto degli 80 euro in busta paga sottolineava come solo il 39% delle famiglie ricadenti nel primo decile della distribuzione del reddito – cioè il 10% più povero – benefici del bonus, mentre le famiglie con reddito superiore registrano un’incidenza maggiore (dal 43 al 47%).

Anche per quanto concerne lo stimolo ai consumi gli effetti del bonus sono incerti e legati a vari fattori, tra cui la diversa propensione marginale al consumo delle famiglie. Basandosi sui dati forniti dall’indagine di Banca d’Italia sui redditi delle famiglie (2012), l’Upb stimava nel Rapporto sopra citato una propensione marginale al consumo per le famiglie percettrici del bonus pari a quella media (intorno al 46%), e quindi incapace di garantire una consistente reazione dei consumi.

Inoltre, dopo anni di dibattito, nella Legge di Bilancio 2018 abbiamo visto un timido tentativo di approccio alla c.d. “web tax”. Destinata a entrare in vigore solo nel 2019, si tratta di un’imposta (con aliquota al 3%) sulle transazioni digitali relative a prestazioni di servizi effettuate tramite mezzi elettronici che si applicherà nei confronti di stabili organizzazioni di soggetti residenti e non in Italia (la stima del gettito previsto è di circa 190 milioni di euro per il 2018)

Pur rappresentando un passo in avanti verso l’introduzione di un vero regime di tassazione della nuova economia digitale, la “web tax” rischia tuttavia di rivelarsi potenzialmente dannosa per le piccole e medie imprese italiane (che potrebbero incorrere in una doppia imposizione fiscale) e, al contempo, di non riuscire (a causa dell’aliquota troppo esigua e dei criteri di definizione delle stabili organizzazioni troppo poco stringenti) a colpire proprio quei “giganti del web” che avrebbero dovuto invece rappresentare il primo target della tassazione.

Andare oltre questi timidi tentativi ed aggredire in modo serio e decisivo le pratiche elusive messe in atto dalle multinazionali del web consentirebbe finalmente di andare nella direzione indicata ormai da anni dall’OCSE nei suoi Action Plan[6] sul contrasto alla pratica diffusa del trasferimento dei profitti intragruppo verso Paesi con fiscalità di vantaggio – che spesso sono Paesi membri dell’UE, come Irlanda o Lussemburgo – e alla conseguente erosione della base imponibile con effetti devastanti sul mancato gettito fiscale. Questa è condizione necessaria per poter ripensare oggi, nel contesto europeo ed internazionale attuale, un fisco più equo che sappia andare a tassare là dove è necessario.

Dunque, nel mezzo di una crisi che continua a incidere pesantemente su occupazione, produzione, salari e consumi (e sull’aumento delle disuguaglianze nel nostro Paese), ci troviamo a dover sottolineare come i provvedimenti appena descritti avvantaggino in prevalenza le classi privilegiate di imprenditori, rentiers, ricchi possidenti e persone ad alto reddito.

Quello che ereditiamo, in vista della apertura della prossima legislatura, è pertanto un sistema fiscale “alla rovescia”: costoso e iniquo sotto il profilo dell’adeguatezza e dell’equità delle misure adottate, nonché fortemente segnato da uno spostamento del carico impositivo dai patrimoni ai redditi, dai redditi di impresa ai redditi da lavoro dipendente, e dalle fasce di reddito più elevate a quelle più basse. Dopo l’era berlusconiana, prendiamo atto di altri cinque anni di Governo in cui il dettato dell’art. 53 della nostra Costituzione (“Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”) è rimasto lettera morta.

Che Fare?

  • Una proposta prioritaria, in risposta alla logica dei bonus e alla flat tax[7], riguarda la rimodulazione della struttura delle aliquote irpef in modo da garantire una potenziata progressività dell’imposta ed il rispetto del principio della capacità contributiva sancito dall’art.53 della Costituzione. Questa è una misura strutturale proposta ormai da diversi anni dalla Campagna Sbilanciamoci! e che andrebbe certamente a vantaggio delle fasce di reddito più deboli andando inoltre a stimolare quella componente fondamentale della domanda aggregate rappresentata dai consumi.

In dettaglio, si propone di rimodulare le aliquote e gli scaglioni di reddito così come segue:

  • riduzione di un punto percentuale dell’aliquota sul I scaglione di reddito (fino a 15.000 euro) dal 23 al 22%, e sul II scaglione (dai 15.001 ai 28.000 euro) dal 27 al 26%;
  • aumento dell’aliquota sul IV scaglione (dai 50.001 ai 75.000 euro) dal 41 al 44%, e dell’aliquota sul V scaglione (oltre i 75.000 euro) dal 43 al 47,5%;
  • introduzione di un VI scaglione (tra i 100.000 e i 300.000 euro) con un’aliquota al 55% (modificando, dunque, il V scaglione che comprenderebbe dai 75.001 ai 100.000 euro di reddito);
  • introduzione di un VII scaglione oltre i 300.000 euro di reddito con un’aliquota al 60%.
  • A questo andrebbe legata l’eliminazione delle forme di tassazione separata per consentire una ricomposizione della base imponibile, seguendo il c.d. “comprehensive income principle”, in modo da ricondurre tutte le fonti di reddito alla progressività dell’imposta.
  • Infine, come precedentemente detto, risulta di fondamentale importanza pensare alla costruzione di un sistema impositivo patrimoniale fortemente progressivo che riesca a tenere conto della tipologia e della dimensione dei patrimoni.

 

Il testo pubblicato è tratto dal Bilancio di fine legislatura di Sbilanciamoci!

 

[1] Ministero dell’Economia e della Finanza – Dipartimento delle Finanze “Ipotesi di Revisione del Prelievo sugli Immobili” (2013) http://www.mef.gov.it/primo-piano/documenti/Ipotesi_di_revisione_del_prelievo_sugli_immobili_new.pdf .

[2] L’introduzione dell’Iri è stata rinviata al 2019 dalla Legge di Bilancio 2018.

[3] Con la Legge di Bilancio 2018 è stato innalzato il range di reddito superiore da 24.000-26.000 a 24.600-26.600 euro lordi. Restano esclusi dunque gli incapienti fiscali, ossia chi ricade nella cosiddetta “no tax area”, poiché avendo redditi annui lordi inferiori agli 8.174 euro hanno detrazioni per redditi da lavoro dipendenti superiori all’imposta lorda dovuta.

[4] Per ulteriori approfondimenti si rimanda a Fernando Di Nicola “Bonus 80 euro: facciamo il punto“ Menabò Eticaeconomia https://www.eticaeconomia.it/bonus-80-euro-facciamo-il-punto/

[5] Ufficio Parlamentare di Bilancio “Rapporto sulla Politica di Bilancio 2015” http://www.upbilancio.it/rapporto-sulla-politica-di-bilancio-2015-2/ .

[6] OECD – Base Erosion and Profit Shifting (BEPS), Public Discussion Draft, “BEPS Action 10” https://www.oecd.org/ctp/transfer-pricing/Revised-guidance-on-profit-splits-2017.pdf

[7] Per un’analisi dettagliata sul tema “flat tax” si rimanda al contributo scritto per Sbilanciamo le Elezioni da Francesco Saraceno “La Flat Tax: solo un problema di finanza pubblica?