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UE, le barriere economico-sociali

L’erezione di muri e barriere non ha un carattere transitorio ma tende ad assumere una durevole estensione temporale, accompagnando il protrarsi della stagnazione economica

Una tendenza separante ed escludente sembra affermarsi nel secondo decennio del duemila, caratterizzando non solo il problema delle migrazioni ma molti eventi politici recenti. Compresi quelli che stanno incidendo sulla struttura stessa dell’Unità Europea. Nuove barriere vengono erette. Non solo lungo i confini ma nel corpo stesso dei paesi a sviluppo maturo; dove la diseguaglianza si approfondisce, assume forme nuove, ridisegna i rapporti economici e sociali; e incide sull’accesso all’istruzione superiore e, ovviamente, alla politica. E spesso accade che ad accogliere messaggi promettenti muri alle frontiere sia proprio chi di interni muri escludenti sta divenendo vittima.

La crescente diseguaglianza non è l’unico aspetto del fenomeno. E non si tratta soltanto di quell’“esclusione sociale” che riguarda particolari segmenti della società e implica attese di possibile superamento. Il processo di cui qui si discute non ha un carattere transitorio ma tende ad assumere una durevole estensione temporale, accompagnando il protrarsi della stagnazione economica e investendo un vasto insieme di gruppi sociali: da ciò che resta della classe operaia alla sempre più ampia fascia non protetta della classe media.

E’ possibile esaminare tali problemi considerando, ad esempio, i cambiamenti in corso nelle metropoli; dove si vanno ridisegnando interi quartieri allontanando di fatto gli abitanti, dove si accentrano patrimoni immobiliari immensi, dove l’estrema, crescente ricchezza è scarsamente utilizzata in investimenti produttivi.

Manhattan è l’esempio più noto. In Central Park West il prezzo di un appartamento può superare i 600.000 dollari. In altre parti è normale pagare l’equivalente in dollari di 15 mila euro al metro quadro. Ma si raggiungono anche cifre tre volte superiori . E vediamo, ad esempio, la zona di Tribeca, un tempo degradata, situata tra China Town e l’ultimo tratto del fiume Hudson, trasformarsi ora in un luogo esclusivo, che include un porto per yacht di extra-lusso. Ma lo stesso quartiere di Harlem è oggetto di questa nuova ondata speculativa, in quanto troppo vicino alle zone a Ovest e a Nord del Central Park per restare fuori. La trasformazione che lo investe ristruttura gli spazi e rivaluta enormemente i prezzi immobiliari. Ma ne espelle di fatto i residenti tradizionali. E ne cancella una buona parte di storia, inclusi i locali dove si suonava e si ascoltava una grande musica jazz.

Ma il fenomeno, chiamato anche hyper-gentrification per distinguerlo dal più tradizionale, medio-imborghesimento urbano, riguarda un gran numero di città nel pianeta: da Berlino a Dubai, fino a Giacarta, a Pechino. Ora anche Milano pare avviarsi verso questo processo trasformativo, in particolare nel quartiere di Porta Nuova. Le concentrazioni finanziarie, effetto perverso della competizione globale, sembrano preferire la formazione di grandi unità patrimoniali all’investimento industriale. Con conseguenze non indifferenti nel protrarsi della stagnazione.

Il caso Londra è fra i più sorprendenti. Nella metropoli , dopo un temporaneo calo imputato alla Brexit, vediamo il mercato riprendersi vivacemente. Se nel 2017 potrà darsi un assestamento, sarà per effetto di un’eventuale variazione nel rapporto domanda-offerta. Durante gli scorsi anni, i prezzi immobiliari in alcuni quartieri erano continuamente saliti, superando il 300 % . Zone un tempo attraversate da alterne vicende tra cui una normale gentrification, videro poi la middle class sostanzialmente espulsa. E divennero cittadelle di altissimo pregio, inaccessibili e protette. Qualcosa di simile sta accadendo nell’area di Kensington, dove troviamo appartamenti da 15 milioni di sterline. A Canary Wharf, sta edificandosi la Hertsmere House, il più alto grattacielo della metropoli, 240 metri e 861 appartamenti di lusso estremo. Appartamenti che hanno rappresentato uno degli acquisti preferiti da parte di ultraricchi non solo britannici ma anche e soprattutto stranieri, generalmente proprietari assenti o residenti saltuari. Non esclusi alcuni riciclatori di denaro dalle origini opache.

Possiamo aggiungere che in queste nuove realtà urbanistiche si disegna un mondo di oggetti sociali la cui valenza simbolica interagisce con quella economica. Ma sulla “lettura” degli oggetti ci soffermeremo fra poco. Occorre ora gettare un breve sguardo all’indietro.

Com’ è noto, nel periodo successivo alla seconda-guerra, il modello keynesiano aveva implicato non solo un intervento pubblico nell’economia ma un’ inclusione di massa nella produzione e nella domanda di beni. Certo debbono essere riconosciute le ambigue valenze di quel sistema. E ciò a partire dalle forme alienanti dell’organizzazione industriale tayloristica. Nel rapporto lavoro-tempo, l’analisi marxiana dello sfruttamento si mostrava attuale più che mai; tuttavia, con il fordismo inteso come accesso dell’operaio-consumatore al frutto del suo lavoro, entrava in discussione un altro aspetto di quell’analisi: ovvero l’estraneità dell’oggetto rispetto al suo produttore diretto. Peraltro non possono ignorarsi neppure le discutibili innovazioni organizzative che sarebbero state introdotte in seguito, nel declino del sistema stesso: in particolare quelle dirette a snellire i processi, “coinvolgere” il lavoratore; e poi creare distinzioni di ruolo, frammentazioni ulteriori e contrapposizioni. Nei paesi a sviluppo maturo, il lavoro vivo si confronta oggi, non solo con un’offerta mondiale riguardante i salari, ma con innovazioni tecnologiche volte sempre più a sostituirlo.

Tornando ai decenni sopra indicati, va ricordato che, pur nell’intensificarsi dello sfruttamento, la separazione tra le classi era sembrata attenuarsi. Nel percorso delle rivendicazioni e della contrattazione si affermavano politiche sociali nella previdenza, nella sanità, nell’istruzione. E con l’accesso dei lavoratori al consumo di beni pur non strettamente essenziali per la sopravvivenza, si estendeva il cosiddetto “consumismo”, così duramente criticato dalle avanguardie intellettuali. Le quali sottovalutavano quanto il fenomeno implicasse anche di possibile maggior domanda culturale e possibili maggiori attese nella politica. Lungo la vita del cittadino medio, apparivano possibili altre prospettive includenti, altre attese di mobilità ascendente.

Le scienze sociali proponevano un quadro dove la divisione tra contrapposte classi era sostituita dalla permeabilità fra sovrapposti strati. E sembrava formarsi in molti paesi, a partire dagli Stati Uniti, un nuovo tipo di ceto medio, comprendente non solo la cosiddetta “piccola borghesia” ma anche la maggioranza dei lavoratori dipendenti dell’industria e del terziario.

Il “lusso” entrava in gioco. Ma – diversamente che nei secoli precedenti – esso appariva virtualmente accessibile a tutti. In una frequente sovrapposizione semantica tra “lusso” e “moda”, assumevano rilevanza gli oggetti posseduti, ma non meno contavano le loro immagini; concepibili a loro volta come un vero e proprio linguaggio. Nel paradigma cosiddetto linguistico-strutturale, tutti i beni di consumo costituiscono un sistema di segni: un sistema che non attiene direttamente alla sfera di ciò che consideriamo necessario per soddisfare bisogni ma che invece è destinato a veicolare messaggi. In particolare, messaggi che riguardano differenti posizioni entro l’ordine sociale.

Roland Barthes evidenziava la conversione dell’ uso delle merci in segno dell’uso stesso; e tutti gli esponenti del paradigma linguistico, da Umberto Eco a Jean Baudrillard, avrebbero sviluppato in vario modo questa problematica. E non sarebbero mancati ripensamenti sul marxiano feticismo della merce.

Quanto sopra ci rinvia alla dicotomia tra beni relazionali e beni posizionali; dove i secondi risultano strumenti di confronto competitivo. Un confronto però che oggi è sempre meno simile al confronto che caratterizzava l’era dei consumi diffusi; e che si svolgeva in un terreno di gioco mimetico, cui avevano accesso strati sociali non distinti rigidamente.

Nei secoli fra il XIV e il XIX, i secoli del passaggio attraverso la modernità, l’ostentazione competitiva si era manifestata nel confronto “interno”, tra diversi gruppi dominanti, o aspiranti ad affermarsi come tali.

Nel novecento invece, soprattutto nei decenni successivi alla seconda Guerra mondiale, il confronto parve presentarsi in un continuum, quasi includente tutti.

Oggi lo scenario è ancora una volta mutato. E ci mostra un duro gioco di inclusione ed esclusione, il cui terreno è nuovamente riservato a una cerchia ristretta: più privata, separata, protetta. Un gioco che vede in campo, sia le concentrazioni di ricchezza, sia (quand’anche non direttamente) il potere politico.