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Sanders e i Panama papers

Quando fu messo in votazione un accordo Usa-Panama a opporsi duramente fu un semisconosciuto senatore del Vermont, denunciando che serviva solo a facilitare l’evasione

scudi

Chi avesse ancora dubbi sul perché i paradisi fiscali continuino a prosperare, nonostante il fatto che, se davvero i leader mondiali lo volessero, potrebbero essere cancellati (o quasi) rapidamente, ha avuto l’ennesima risposta dai “Panama papers”: non vogliono cancellarli perché tengono i soldi lì anche loro o i loro amici.

Obama, per esempio, si è affrettato a dichiarare che è necessario combattere l’evasione fiscale in tutto il mondo. Ma cinque anni fa non ha fatto nulla per bloccare un accordo -guarda un po’ – proprio con Panama. Ci fu invece chi si oppose duramente, contestando proprio il fatto che quell’accordo avrebbe facilitato l’evasione fiscale delle imprese e dei ricchi statunitensi. Era un senatore del Vermont del tutto sconosciuto non solo fuori dagli Usa, ma anche fuori dal suo Stato: tale Bernie Sanders.

Il discorso che Sanders fece contro quell’accordo è stato ripescato da Internazionale, che ne riporta la trascrizione (qui, invece, il discorso con i sottotitoli in inglese). Eccone alcuni brani.

“Parliamo dell’accordo di libero scambio con Panama. Il pil annuale di Panama è di appena 26,7 miliardi di dollari ovvero due decimi dell’1 per cento dell’economia statunitense. Nessuno può davvero sostenere che approvare questo accordo di libero scambio aumenterà in maniera significativa i posti di lavoro per gli statunitensi. E allora perché l’ipotesi di un accordo di libero scambio autonomo con questo paese? Beh, il fatto è che Panama è il leader mondiale quando si tratta di permettere agli statunitensi e alle grandi aziende di evadere le tasse negli Stati Uniti, nascondendo il loro denaro in paradisi fiscali offshore. E l’accordo di libero scambio con Panama renderebbe una brutta situazione ancora peggiore”. (…)”Signor presidente, l’accordo di scambio con Panama rischia d’impedire agli Stati Uniti di reprimere più severamente i paradisi fiscali offshore illegali e abusivi. Anzi, la lotta ai paradisi fiscali a Panama sarebbe una violazione di questo accordo di libero scambio, che esporrebbe gli Stati Uniti a multe da parte delle autorità internazionali”. (…)”Aggiungendo al danno la beffa, signor presidente, l’accordo con Panama obbligherebbe gli Stati Uniti a rinunciare a chiedere i requisiti previsti dal Buy America act per i bandi pubblici a migliaia di aziende straniere, comprese quelle cinesi, incluse in questo grande paradiso fiscale”.

Naturalmente l’opposizione di Sanders restò isolata e l’accordo venne approvato. Chissà, nell’ipotesi ancora abbastanza improbabile, ma ormai niente affatto da escludere, che vincesse la corsa alla presidenza, potrebbe essere la volta buona che si faccia qualcosa di concreto contro i paradisi.

Le carte di Panama sono già costate il posto al premier islandese e hanno scoperto gli altarini del presidente degli Emirati Arabi Uniti, ma potrebbero fare una vittima ben più importante, ossia il leader britannico David Cameron. Nella lista appare infatti un Fondo d’investimento che fa capo a suo padre Ian (ah, questi padri…!), e che, osserva il Guardian, “ha sempre evitato di pagare le tasse nel Regno Unito”. La società era basata nelle Bahamas, poi dal 2012 ha trasferito la sede legale a Dublino. Questo fatto, scrive il quotidiano, può permettere a Downing Street di sostenere che non si tratta di un Fondo offshore, anche se l’Irlanda ha quasi tutte le caratteristiche proprie dei paradisi fiscali.

Cameron ha ufficialmente smentito che lui o sua moglie o i suoi figli abbiano tratto alcun vantaggio da quel Fondo e che sarà così anche per il futuro. Ma la pressione dell’opinione pubblica non sembra essersi allentata, anche perché i laburisti, con in prima linea il leader Jeremy Corbyn, affermano che i chiarimenti non sono ancora sufficienti e stanno allargando il discorso ai paradisi britannici, dai territori d’oltremare alle Isole Vergini, chiedendo di “fare pulizia”.

Per carità, non c’è da illudersi troppo. Di questi scandali ne abbiamo visti tanti, e finora, dopo una tempesta passeggera, tutto è tornato come prima. Certo, se servisse a disarcionare uno dei premier più reazionari che il Regno unito abbia avuto da un secolo (peggio della Thatcher, a parere di chi scrive) già sarebbe una bella soddisfazione. Ma probabilmente non succederà neanche questo.

(pubblicato su Repubblica.it il 6 apr 2016)