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Il “pasticciaccio brutto” del referendum

Il “pasticciaccio brutto” della premiata ditta Renzi & Boschi richiamano le vecchie tare italiane. E se la vittoria del no aiuterebbe, forse, a superarne alcune, quella del sì finirebbe per consolidarle

Il “pasticciaccio brutto” della premiata ditta Napolitano & Renzi & Boschi & Verdini & J.P. Morgan e il suo dibattito richiamano, per tanta parte, le nostre vecchie tare. E se la vittoria del no aiuterebbe, forse, a superarne alcune, quella del sì finirebbe, almeno mio avviso, per vieppiù consolidarle.

Un “pasticcio”, quello della riforma più legge elettorale, nato sulla spinta dell’antipolitica, ma lisciandole il pelo anche nella propaganda. Impastato da una classe politica che per buona parte è responsabile dell’antipolitica.

I veri “populisti” sono infatti coloro che si pongono ad “utilizzatori finali” delle difficili reali condizioni di vita della gente, strumentalizzandole anche per soluzioni conservatrici, ancor peggio se per modifiche costituzionali. Il vento conservatore e di intolleranza razzista e xenofobo che gira nel mondo dovrebbe a maggior ragione rafforzare assetti istituzionali di garantismo democratico.

Alla base del “pasticcio” sta il fatto che, contro ogni ragione giuridica, politica e di buon senso, un Presidente della Repubblica e un Presidente del Consiglio, nemmeno eletto, si sono eretti a Costituente imponendosi, con procedure inusitate e minacce di elezioni, ad un Parlamento intimorito e debolissimo sul piano giuridico, politico e morale. Parlamento, che ha votato, peraltro, senza averne ricevuto alcun mandato popolare. E non va sottaciuta nemmeno la remissività dei presidenti dei due rami del Parlamento, ricordata anche da De Mita, per aver permesso l’inusitata irruzione del Governo in una materia di competenza elettiva delle assemblee da loro presiedute.

Questo grave vulnus democratico iniziale, rimacinato poi ulteriormente dal tormentato iter parlamentare, da reciproche e ciniche furbizie, e dal confuso ed agitato dibattito che non si limita, né può limitarsi alle sole singole questioni di merito come vorrebbe ipocritamente, oggi, chi ha determinato questa situazione, presentando un unico pacchetto eterogeno da “prendere o lasciare” in blocco, come giudizio di Dio, dilatando i tempi per comprare consensi al sì; sollecitando la ben nota disposizione alle intolleranti e campanilistiche divisioni che distraggano dalla vera posta in gioco.

I sostenitori del sì, che invitano oggi ad un esame “sereno” del merito, mentre ieri “minacciavano”, in caso di sconfitta, addirittura il “ciaone” dalla politica, sono nel contempo mobilitati sul piano interno e su quello esterno a “raccogliere” o a “pietire” interessati sostegni; a questi subordinano ogni scelta di Governo.

Così, scendono in campo industriali, agrari, banchieri, commercianti, associazioni professionali, con la mano tesa alle erogazioni e alle promesse governative. Debolissimi per la crisi e per storiche carenze di capacità competitive, salvo quella fondata sul basso costo del lavoro, e noti per la scarsa sensibilità democratica (ricordiamo il sostegno di agrari e industriali al fascismo, la permanente contrarietà ad ogni governo progressista e la feroce opposizione ad ogni forma di democrazia aziendale). È la conferma di un “capitalismo senza capitali” da sempre “assistito” e non “assistenziale” come vogliono i critici di un welfare state che non ha mai raggiunto una sua maturità, ma occasione spesso di abusi e speculazione.

A questi, si unisce la finanza internazionale a ranghi compatti, e al solito motto: “piatto ricco mi ci ficco”; pronta ad altri lucrosi affari e a comprare, a prezzi stracciati, altri pezzi dell’Italia, chiaramente facilitati dalla (seconda) riforma del titolo V. Né va dimenticato che l’Italia è l’unico, tra i grandi paesi europei, ad essere, senza riserve, a favore del TTIP tanto caro alle multinazionali americane e ad Obama che non a caso ha offerto un ultima cena a Renzi e compagnia.

Si blatera di autorevolezza del Paese che si rafforzerebbe con l’approvazione della riforma! Ma quale autorevolezza può venire da un Paese che accetta supinamente tali violente intrusioni (peraltro sollecitate dallo stesso Presidente del Consiglio)? Nel silenzio assordante del capo dello Stato e dei presidenti del Parlamento.

E con quale coraggio si potranno ancora commemorare coloro che caddero, combattendo per l’indipendenza e l’onore dell’Italia, sia sul piano militare che sul piano dell’impegno civile? Dal Risorgimento, alle guerre di indipendenza, alla Resistenza, ai combattenti contro la pervasiva criminalità organizzata.?

Siamo di nuovo al “volgo disperso che nome non ha”, di manzoniana memoria? E, tanto per restare nel dramma, dimentichiamo che “col novo signore rimane l’antico e l’uno e l’altro sul collo vi sta”?

Intellettuali, sempre bisognosi di consensi e sovvenzioni statali; uomini di spettacolo condizionati dalla grande impresa statale del settore a cominciare dalla RAI occupata militarmente dal Premier; alcuni grandi vecchi “rosso antico” e falsi liberali, arruolati sollecitando la nota ambizione dei vecchi per una rinnovata quanto effimera e mortificante tribuna, arrivano, come di consueto, in soccorso del (presunto) vincitore. Salvo poi riciclarsi prontamente in caso che il potere passasse di mano.

C’è chi fa sapere pubblicamente che inclina per un verso e dopo un po’ dichiara, senza motivare, il controverso; chi diceva ieri che la nostra Costituzione è “la piu bella del mondo”, oggi dice che solo la prima è la più bella, dimenticandosi che la seconda deve essere coerente con la prima come ci insegna Tina Anselmi; c’è chi dice che riforma costituzionale e legge elettorale fanno pena e però, “filosofeggiando”, vota sì; c’è chi ravvisa “lievissimi aspetti positivi” e “lievissimi negativi” che (sulla bilancia del farmacista, immagino) si equivalgono e quindi andrà a votare annullando la scheda; ci sono giornalisti e persino navigati uomini politici che devono “ancora meglio documentarsi e capire”, dimostrando loro malgrado che alcuni aspetti sono davvero incomprensibili, mentre proprio loro dovrebbero illuminare i cittadini; c’è chi si aggrappa a transeunti accordi interni al partito di Governo sulla legge elettorale per potere votare e indurre a votare sì; c’è poi chi, novello oracolo di Delfi, ci avvisa di “avere le idee chiarissime”, ma “ovviamente” non ce le dice, nemmeno sotto tortura.

E non lo dica troppo forte perché a sentire Amnesty International le torture da noi non mancano. E se qualcuno contesta si ricordi la vicenda del G8 !

Dice una famosa canzonetta di antica e paesana sapienza: “Chi ha avuto, ha avuto, ha avuto, scordammoce ‘o passato, paisà”. Il nostro Paese non ha mai fatto veramente i conti con il suo passato; che invece ritorna, con le nostre responsabilità collettive e le nostre vecchie tare.

Il trasformismo che è il conformismo al potere che cambia, e il “particulare” sono indubbiamente un dato autobiografico del Paese.

E così la ricerca dell’uomo forte, dell’uomo della provvidenza e, in caso di fallimento, del capro espiatorio non di rado lo stesso, non di rado messo e allontanato da altri, in un continuo processo di deresponsabilizzazione collettiva.

Il frutto, è stato detto, è della mancata rivoluzione borghese e della Controriforma senza aver avuto la Riforma. E la scarsa cultura liberaldemocratica e liberalsocialista, il frutto innanzitutto del nefasto ventennio e poi anche della lunga egemonia politica, nel dopoguerra, delle “due chiese”, Pci e DC, le cui dirigenze, nel tempo, si sono progressivamente impoverite umanamente e culturalmente sino ad assorbire in gran parte l’ideologia di mercato dominante, niente affato liberaldemocratica. Per non parlare del ventennio berlusconiano e del suo partito padronale che ha accentuato la deriva corruttiva; inutilmente denunciata da un economista e intellettale come Paolo Sylos Labini di cultura salveminiana.

Il periodo di maggior riformismo sociale, culturale e laico dei primi governi di centrosinistra venne prima depotenziato e poi soffocato insieme al partito socialista che si autodissolse nella stagione di “mani pulite”. Il partito liberale si pose ben presto al servizio della Confindustria, mentre la cosiddetta “nuova sinistra”, pur di generosi ideali, rimase sempre frazionata e sostanzialmente impregnata di filosofie politiche totalitarie, e non immune dalle critiche di Pier Polo Pasolini.

L’attuale pontefice sta cercando di riavvicinare la Chiesa al suo vangelo in una visione ecumenica; dovrebbero fare altrettanto coloro – se ci sono – che vogliano rianimare alcuni nobilissimi valori, quei valori liberali, socialisti e cristiani, che furono alla base del riuscito compromesso a fondamento della nostra Costituzione, come riconobbero Norberto Bobbio e Giuseppe Dossetti, e del suo programma sociale di democrazia progressiva. Contrastare il quale è il vero obiettivo di tante “riforme” comprese quelle costituzionali.

La battaglia democratica oggi è sempre più ardua perché sempre più di dimensione internazionale.

Lo Stato di diritto in Occidente si sta affievolendo di fatto sussunto dal Big Business, tanti altri paesi non sanno nemmeno di che si parli, mentre si afferma prepotente la globalizzazione predatoria degli affari.

Insieme alla falsa “liquida” deideologizzazione, perché l’ideologia del capitalismo finanziarizzato è persino inconsapevolmente introiettata, sono scomparsi i partiti politici, in quella che doveva essere la loro essenziale funzione democratica. Divenuti aggregazioni e promotori di consenso intorno a un leader contornato da cortigiani e sostenuto da poteri economici, o aggregazioni confuse di protesta antipolitica, manipolate a loro volta. Non solo in Italia, certamente. C’è persino chi, come il M5S, ancorché meritevole per aver evitato derive reazionarie, si considera “un non partito” con un “non statuto” pensando forse di andare a un “non governo” del “paese delle meraviglie”.

La mancata regolamentazione dei partiti prevista dall’art. 49 è stato veramente un tragico e voluto errore.

Il “populismo” si combatte, come insegnò un grande politico democratico, Franklin Delano Roosevelt, con più democrazia, con più sollecitudine verso gli interessi popolari e dei più bisognosi, con il ricercato consenso critico e partecipazione consapevole dei cittadini. E in una visione necessariamente cosmopolita per condividere idee ed equamente i frutti dello sviluppo. Aiutano letture come quelle di Domenico De Masi, Mappamundi, modelli di vita per una società senza orientamento (Rizzoli, Milano 2015). Che andrebbe accolto come libro di testo scolastico.

Lo sviluppo civile mette al centro la persona umana nella sua integrità, come fattore principale della produzione e come vero fine, secondo Immanuel Kant, che non può essere contraddetto e mortificato, come avviene clamorosamente oggi, nella funzione produttiva; intesa nel senso proprio della nostra Costituzione, e cioè come contributo al “progresso materiale o spirituale della nazione” (art. 4). Funzione, che dovrebbe anzi valorizzare la persona nelle sue “capacità” per una sua piena realizzazione.

Sviluppo civile che richiede il rifiuto dello scambio economico (trade – off) tra efficienza ed equità e quello politico correlato tra efficienza e democrazia, sostenuti da Federico Caffè e Guido Calogero. I qiali ci ricordano che le libertà come le democrazie (civili, siciali, economiche, religiose e politiche sono tra di loro solidali): avanzano o regrediscono insieme.

Ed è appena il caso di sottolineare che, per quell’effettivo concorso al “progresso spirituale” indicato dalla Costituzione, è necessario che i lavoratori nel campo dell’informazione, dell’istruzione, della ricerca e dell’arte, della cultura in generale e, a maggio ragione, della religione e della politica nel senso più alto, siano non solo indipendenti, ma anche lontani, molto lontani dai poteri economici.

Che sia in pericolo, altrimenti, non solo il progresso materiale e spirituale, ma anche la capacità di leggere il presente, lo hanno dimostrato le recenti elezioni americane.

L’autore è iscritto ANPI. Sez. A Bei. Collabora con la Fondazione Giuseppe Di Vittorio.