Top menu

Paradisi fiscali e tasse: la debole proposta dell’Ocse 

L’Ocse ha presentato una proposta organica su come tassare le multinazionali, in particolare quelle su piattaforma, che si rifugiano nei paradisi fiscali. Ma l’Icrict, un centro studi internazionale sui temi fiscali ha sottoposto il documento a una critica severa.

Paradisi fiscali e diseguaglianze, delle lotte per finta 

Quello della lotta ai cosiddetti paradisi fiscali rappresenta apparentemente e da molto tempo uno dei cavalli di battaglia ricorrenti dei governi occidentali; nei consessi internazionali, a partire dai vari incontri del G7 e del G20, si possono ascoltare delle voci molto indignate in proposito da parte anche di politici molto autorevoli e potenti. Peraltro, negli ultimi venti anni, non è stato fatto sostanzialmente alcun progresso sostanziale nella lotta al fenomeno, anzi la situazione ha continuato, per molti versi, a degradarsi e le somme trasferite in tali amene località da quelli che se lo potevano permettere, ad aumentare. 

Del resto due dei maggiori paradisi fiscali del mondo si collocano rispettivamente negli Stati Uniti (e specificamente nel Delaware) e in diversi territori amministrati dalla Gran Bretagna; si tratta di due Paesi che in teoria dovrebbero guidare la lotta a tale fenomeno. Anzi, incidentalmente, secondo il Tax Justice Network gli Stati Uniti sono lo stato più offshore del mondo. Altri rifugi si trovano invece in alcuni Paesi facenti persino parte dell’Unione Europea, dal Lussemburgo, all’Olanda, all’Irlanda.

Il fatto è che dietro la questione di tali trasferimenti di denaro ci sono in gioco interessi enormi,  più o meno nascosti, interessi cui tutti molti dei governi dei Paesi ricchi non sono certo di solito insensibili, e questo per le più varie ragioni. Va peraltro sottolineato che alcuni governi appaiono sul tema più colpevoli di altri.

La questione ha, per molti versi, almeno alcune somiglianze con la parallela e pretesa lotta alle diseguaglianze. Anche questo secondo fenomeno, almeno altrettanto nocivo, non ha certo cessato di crescere in tutto il mondo negli ultimi decenni, grazie anche di nuovo, in effetti, a governi che, visti i risultati sino ad oggi sul tema, hanno evidentemente operato fattivamente perché questo accadesse. 

Del resto, togli al povero e dai al ricco è una linea di condotta che si potrebbe adottare tranquillamente per descrivere il comportamento di moltissimi governi di destra e di pretesa sinistra nei Paesi ricchi negli ultimi decenni. E non è che manchino le informazioni al riguardo. Gli studi e le ricerche sui due fenomeni, sulla loro analisi e sul come combatterli, oggi potrebbero riempire una intera biblioteca; ma evidentemente questo non basta per spingere all’azione. Ma concentriamoci a questo punto sul solo tema dei paradisi fiscali.

Il ruolo delle imprese multinazionali

Una parte consistente dei soldi che sbarcano nei Paesi più accoglienti, hanno origine dalle grandi imprese multinazionali, e ora in particolare da quelle operanti nei settori delle tecnologie numeriche, che per evitare la tassazione dei loro guadagni fanno in qualche modo transitare i loro ricavi per tali amene località. Il Fondo Monetario Internazionale ha così stimato, secondo noi molto prudenzialmente, la perdita di gettito fiscale degli Stati attraverso le pratiche di tali gruppi in circa 500 miliardi di dollari all’anno (Saraceno, 2019).

In un Paese come l’Italia il potenziale recupero delle somme sui profitti eluse da tali imprese si potrebbe stimare in diversi miliardi di euro all’anno, somma che rappresenterebbe ovviamente un’importante boccata di ossigeno per casse statali come le nostre notoriamente esangui.    

Banche, non banche, paradisi fiscali

Da qualche tempo il Financial Stability Board, un organismo  internazionale creato dopo la crisi del 2008, ha finalmente cominciato a pubblicare dati e informazioni sul sistema finanziario-ombra e sui suoi rapporti con quello bancario ufficiale. Ne escono fuori considerazioni importanti sulle quali si sofferma un recente articolo del Financial Times (Tett, 2019).

Vi si apprende sorprendentemente che tra il 2007 e il 2017 la quota degli intermediari finanziari-ombra sul totale delle attività finanziarie globali è aumentata dal 31 al 36%. Altrettanto sorprendentemente vi si viene a conoscenza del fatto che, ed eccoci al nostro tema, sono anche aumentate in misura rilevante le relazioni d’affari del sistema bancario ufficiale con le finanziarie-ombra e con le imprese non finanziarie nelle loro filiali onshore e offshore. 

Le banche prestano rilevanti importi di denaro alle imprese non finanziarie nei Paesi che sono paradisi fiscali. Ma, d’altro canto, con una tendenza anche opposta, le finanziarie-ombra dei Paesi offshore aumentano a loro volta i finanziamenti alle banche. Un doppio ed armonico movimento.

Così circa il 20% dei finanziamenti internazionali in dollari delle banche proviene da entità collocate nelle sole Isole Cayman, mentre per quelli in euro si ricorre in maniera massiccia al Lussemburgo e sempre alle isole Cayman (Tett, 2019). Tutto questo può sorprendere visto anche il ruolo giocato dalle entità-ombra nella crisi del 2008 e nelle dichiarazioni dei politici che tuonavano subito dopo il crack contro tali istituzioni.

Entra in scena l’Ocse

È merito dell’Ocse di aver dato per primo nel 1998 una definizione di paradisi fiscali, anche se tale definizione appare piuttosto restrittiva a confronto ad esempio da quella fornita dal Tax Iustice Network.

E’ comunque almeno da sette anni che si parla con qualche serietà di intenti di riforma del sistema di tassazione delle imprese internazionali. In effetti, già nel 2012 il G20 aveva invitato l’Ocse ad aiutarla a riformare il sistema di tassazione delle società multinazionali. 

Da allora alcune riunioni del G7 e del G20 hanno preso in esame la questione promettendo il pugno duro, ma ogni volta hanno poi delegato sempre all’Ocse il compito di fare le proposte operative sul tema. 

Senza entrare nei dettagli di tutti i passaggi, ora, nell’ottobre del 2019, l’ente citato ha finalmente presentato una proposta relativamente organica sulla questione.  

Se vogliamo, tale proposta ha certamente il merito di prendere in considerazione il problema di come allocare i profitti globali delle imprese multinazionali tra i vari Paesi e la loro conseguente tassazione. Ma per altri versi la proposta è ben lontana dall’essere soddisfacente.

L’Icrict, un centro studi internazionale sui temi fiscali di cui fanno parte eminenti  studiosi tra i quali ricordiamo soltanto Joseph Stiglitz e Thomas Piketty, ha sottoposto il documento a una critica abbastanza serrata e a questo documento facciamo in particolare riferimento. Ricordiamo anche un articolo di stampa apparso nel nostro Paese (Saraceno, 2019). 

Sottolineiamo che la proposta non si rivolge a tutte le imprese multinazionali, ma a quelle operanti nelle nuove tecnologie (le cosiddette Gafa) e ad un certo numero di altre entità. Nella sostanza, sono interessate dalla misura tutte le imprese multinazionali che operano sul mercato del consumo finale e il cui fatturato annuo superi i 750 milioni di euro. La proposta escluderebbe così molte imprese industriali (pensiamo ad esempio alle società di componentistica) e quelle minerarie (Michel, 2019). 

Poi la stessa Ocse prevede di distribuire i profitti tra i vari Paesi sulla base del solo criterio del fatturato rispettivo, senza considerare ad esempio il numero degli occupati o la quantità di risorse naturali estratte nel Paese. Il criterio favorisce così la concentrazione dei profitti e dell’eventuale tassazione degli stessi nei Paesi sviluppati, mentre a quelli emergenti andrebbero solo le briciole. 

D’altro canto, l’ente propone poi di separare i profitti normali da quelli “residuali”, cioè superiori a quelli normali, e di sottoporre soltanto questi ultimi a tassazione; si apre la strada alla minimizzazione del carico fiscale e all’arbitrio pieno.

Infine la proposta dell’Ocse, pur così blanda, è comunque ancora soggetta a vari passaggi burocratici futuri. Così il giorno dell’applicazione si allontana ancora e comunque la stessa proposta è ancora evidentemente soggetta ad ulteriori annacquamenti da parte delle varie infaticabili lobbies, che di solito hanno abbastanza facilmente buon gioco.

Insomma, ancora una volta, sostanzialmente una presa in giro. Possiamo solo sperare in tempi migliori.

Testi citati nell’articolo

-Icrict, International corporate tax reform, ottobre 2019

-Michel A., L’OCDE dévoile les contours de la “taxe GAFA”,  Le Monde, 10 ottobre 2019

-Saraceno F., Le big tech sono tassabili, basta volerlo, Il Sole 24 Ore, 19 ottobre 2019

-Tett G., Better data on modern finance reveals uncomfortable truths, www.ft.com, 10 ottobre 2019