Le città/ Più sfratti e più persone che vivono in roulotte ma le politiche abitative locali e nazionali privilegiano housing sociale abbandonando al Terzo settore i più deboli. Focus sulla Lombardia
«L’ora è venuta, dovete lasciare questo luogo. Mi dispiace per voi, eccovi del denaro, ma dovete andare».
«Preferirei di no» rispose, volgendomi ancora le spalle. Restò in silenzio.
- Melville, Bartleby lo scrivano (1853)
A giugno 2016 in un clima di disinteresse e indifferenza generale, senza che sia stato aperto un vero confronto con gli abitanti, i loro rappresentanti e le diverse organizzazioni impegnate nei quartieri, viene approvato dal Consiglio Regionale della Lombardia il nuovo Testo di Riforma dell’edilizia popolare, con il titolo “Disciplina regionale dei servizi abitativi”. Il nuovo modello viene proposto dalla giunta come la soluzione per risanare i quartieri dell’edilizia popolare, dare sostenibilità al sistema del welfare abitativo, arginare i processi di impoverimento del ceto medio, senza incidere sui bilanci regionali, grazie al coinvolgimento diretto del mercato e del Terzo Settore, secondo un orientamento di ridefinizione delle politiche sociali basato sulla convinzione che insieme, i diversi attori, pubblici e privati, possano concorrere al benessere collettivo, ciascuno guadagnandoci qualcosa.
Un piccolo passo indietro
L’occasione per rimettere mano in profondità al sistema dell’Edilizia Pubblica arriva alla fine del 2013, grazie alla “scoperta” da parte della stampa del collasso finanziario di ALER Milano (Azienda Lombarda Edilizia Residenziale), esposta per 500 milioni di euro. L’azienda lombarda viene quindi commissariata dalla Regione e per redigere un piano di risanamento adeguato viene istituita una Commissione d’Inchiesta Regionale sui fatti economici e gestionali di ALER di Milano e viene affidata a una società di revisione e consulenza aziendale la stesura di un’analisi di due diligence. Il dettagliato rapporto del crack finanziario di ALER individua tre grandi macro cause: 1) le fallimentari scelte di investimento immobiliari attuate per cercare di aumentare gli introiti, ma in alcun modo inerenti alla mission dell’azienda; 2) la gestione e organizzazione dispendiosa e sovradimensionata della struttura aziendale, caratterizzata da sprechi e malfunzionamenti; 3) la diffusione della morosità tra l’inquilinato.
Le misure di risanamento promosse sono state l’incremento dei programmi di vendita del patrimonio con consistenti riduzioni dei prezzi (che tuttavia fino ad oggi non hanno portato risultati), l’erogazione di finanziamenti diretti per coprire le spese correnti, una modifica dell’assetto organizzativo aziendale. La Giunta ha in questo modo evitato di aggredire le cause del collasso finanziario, ovvero gli assetti di potere e il sistema degli appalti, rinunciando a intervenire, se non in maniera superficiale, sull’assetto aziendale, con il risultato di ridurre ancora di più l’autonomia dell’ente. Intatti restano anche i nodi che hanno portano nel corso degli anni al degrado del patrimonio immobiliare, privo di adeguati piani di manutenzione ordinaria e straordinaria e con servizi carenti ma costosi. Una situazione che ha inciso fortemente sulle condizioni di vita dell’inquilinato, costretto ad abitare in alloggi e luoghi mal tenuti, spesso insalubri, caratterizzati da abbandono e incuria. Ad essere messi sotto accusa sono invece stati da una parte gli inquilini morosi e le famiglie di occupanti abusivi diventati unici responsabili della non sostenibilità del sistema dell’edilizia popolare e dall’altra il basso importo del canone sociale, giudicato un privilegio.
Cosa succede fuori dalla case popolari. Alcuni dati della moderna questione abitativa
Nel 2016 in Italia sono stati eseguiti più di 35 mila sfratti, sono stati emessi 61mila nuovi provvedimenti (il 90% per morosità dell’inquilino) e sono state pignorate 13000 abitazioni di residenza, secondo un trend in progressiva crescita. Sebbene siano state presentate 647mila richieste di assegnazione di un alloggio popolare, continua a diminuire il numero di alloggi pubblici disponibili a causa dei piani vendita e dalla diffusione dello sfitto (alloggi non assegnati a causa dell’insufficiente stato manutentivo). Secondo i dati Istat il 72% delle famiglie italiane vive in case di proprietà e, tra queste, il 18% si sta facendo carico di un mutuo. Contemporaneamente però risulterebbero più di 7 milioni di immobili vuoti, non occupati, il 22,7% del totale. Dagli inizi degli anni duemila risulta diminuito il numero di famiglie proprietarie del proprio alloggio di residenza, mentre risulta in constante aumento la percentuale delle famiglie che dipendono da un mutuo. Sono aumentate le persone che vivono in baracche, roulotte, cantine o soluzioni provvisorie e di fortuna (+131,8% dal 2001), così come sono cresciute le coabitazioni (+194,8%).
In Lombardia nel 2016 sono stati eseguiti 5343 sfratti (il 15% del dato nazionale), di cui 244 nella sola città di Milano, dove ogni anno vengono assegnati poco più di 1000 alloggi popolari mentre ne continuano a rimanere vuote 10000, a fronte di 24000 richieste di assegnazioni presentate ogni anno. Non esistano dati precisi sulle condizioni del patrimonio sfitto e non sono disponibili i dettagli dei piani di recupero, diffusi dall’Amministrazione esclusivamente per cifre aggregate e buoni propositi. Nel 2017 a Milano non è stato assegnato alcun alloggio pubblico ai nuclei famigliari con più di 3 componenti, “per mancanza di alloggi disponibili”, e solo nel mese di dicembre è stato assegnato qualche alloggio ai nuclei famigliari con un componente disabile motorio.
I contenuti della Legge Regionale
Il nuovo modello di welfare abitativo previsto dalla Legge Regionale 16/2016 è del resto coerente con il quadro normativo nazionale e con l’impianto generale del Piano Casa Berlusconi (2008) consolidato nel 2014 con il Piano Casa Renzi-Lupi. Questa impostazione articola le politiche abitative in tre linee strategiche di intervento: 1) i servizi abitativi pubblici, ossia le case di edilizia sovvenzionata tradizionale, a canone sociale; 2) i servizi abitativi sociali, ossia «interventi diretti alla realizzazione e gestione di alloggi sociali destinati a soddisfare il bisogno abitativo dei nuclei familiari aventi una capacità economica che non consente né di sostenere un canone di locazione o un mutuo sul mercato abitativo privato né di accedere ad un servizio abitativo pubblico». Alloggi realizzati e gestiti con fondi pubblici con canoni più bassi del mercato (canoni moderati, concordati e convenzionati) o in vendita convenzionata o in patto a futura vendita (in affitto per almeno 8 anni e poi venduti) 3) «le azioni per sostenere l’accesso e il mantenimento dell’abitazione che riguardano il mercato abitativo privato e i servizi abitativi sociali e comprendono le forme di aiuto ai nuclei famigliari in condizione di morosità incolpevole e le azioni rivolte a favorire la proprietà dell’alloggio […]».
Il nuovo sistema prevede la possibilità che a erogare i diversi servizi, attraverso un sistema di accreditamento, non sia più solo l’istituzione pubblica, ma anche soggetti privati, sul modello di quanto già succede nella sanità lombarda: operatori immobiliari, Terzo settore, cooperative. Viene abbandonata la graduatoria unica costruita secondo il bisogno abitativo delle famiglie in favore di graduatorie sui singoli alloggi disponibili per cui i cittadini possono concorrere solo accedendo a una piattaforma informatica tramite Spid (Sistema Pubblico di identità digitale). Viene riconosciuto come interlocutore privilegiato il sistema dei Fondi Immobiliari, che entra a far parte di diritto anche nella normativa regionale, con compiti di gestione, valorizzazione e incremento dell’offerta abitativa.
L’ingresso dell’attore privato e in particolare dei Fondi Immobiliari, subordinato evidentemente alla redditività dell’intervento, sebbene forse potrà determinare una gestione economica meno fallimentare, comporta dall’altro lato già sulla carta un capovolgimento delle priorità delle politiche pubbliche. La Legge pone infatti un limite, pari al 20%, all’accesso delle famiglie più povere e bisognose (cioè con un ISEE inferiore a 3000). Queste, inoltre, possono avere una casa solo ed esclusivamente tramite una presa in carico da parte dei Servizi Sociali, determinando quindi un inasprimento delle dinamiche di esclusione, di marginalizzazione e di stigma della povertà. Il cambiamento è in primo luogo quindi ideologico a tal punto che si può parlare di uno stravolgimento della funzione sociale dell’edilizia pubblica, messa in secondo piano rispetto al principio della reddittività del sistema. Per attrarre maggiormente l’investitore privato, la norma consente che gli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria possano essere ridotti dai comuni fino al 100% anche per l’Housing sociale. Vengono introdotti, consolidati e promossi piani di alienazione e programmi di valorizzazione che premetteranno di vendere o “spostare” in un sistema più redditizio per gli enti gestori 1/3 del patrimonio di case popolari, facendo diventare di fatto, in prospettiva, i servizi abitativi sociali la misura strategica del welfare abitativo lombardo.
La riforma abolisce il sistema delle assegnazioni in deroga alla graduatoria che per anni è stato lo strumento con cui, soprattutto a Milano e nelle città lombarde ad alta tensione abitativa, è stato gestito lo sfratto, evitando a moltissime famiglie di finire e rimanere per strada e riducendone in questo modo anche i costi sociali. La gestione di questa emergenza viene affidata al Terzo Settore attraverso il sistema dei “servizi abitativi transitori”, alloggi dove le famiglie di sfrattati potranno rimanere per massimo di un anno.
Viene premiato il periodo di residenza in Regione e nel Comune nella stesura delle graduatorie; viene programmata la creazione di un database delle famiglie di occupanti senza titolo di un alloggio popolare, a cui viene negato il diritto di presentare una richiesta di assegnazione e di regolarizzazione della propria posizione; vengono inasprite le misure di allontanamento per gli inquilini riconosciuti “morosi colpevoli” e occupanti senza titolo.
La riforma del sistema ha quindi un unico caposaldo: rendere l’edilizia residenziale pubblica economicamente sostenibile e appetibile per il privato. E l’equilibrio finanziario è trovato attraverso il “cambiamento dell’inquilinato”: allontanare la domanda delle famiglie più fragili e povere e cercare di sostituirle con famiglie con capacità economiche più certe.
Housing Sociale: un problema travestito da soluzione
Dopo 8 anni dalla creazione del Sistema Integrato dei Fondi Immobiliari (SIF) non è semplice reperire i dati che giustifichino l’enfasi positiva che accompagna solitamente i discorsi sull’Housing Sociale. Introdotto nel 2009 dal Piano Caso del Governo Berlusconi, si basa sul FIA, Fondo di Investimento per l’Abitare, un fondo comune di investimento immobiliare di tipo chiuso, istituito da Cassa Depositi Prestiti Investimenti Sgr nel 2009, il cui regolamento di gestione è stato approvato dalla Banca d’Italia a marzo 2010. Con un patrimonio complessivo di 2 miliardi e 28 milioni di euro di cui, 1 miliardo sottoscritto da Cassa depositi e prestiti, 888 milioni da parte di gruppi bancari e assicurativi e di casse di previdenza privata, e 150 milioni di fondi pubblici, il FIA funziona investendo in altri fondi immobiliari locali volti alla realizzazione e gestione di edilizia sociale. La partecipazione del FIA a questi fondi inizialmente prevista per un massimo del 40% è passato nel 2012 a un massimo dell’80%, a causa delle difficoltà incontrate dai fondi locali a raccogliere risorse private. Il funzionamento di questi nuovi strumenti con un focus particolare sui risultati ottenuti in Lombardia è stato oggetto di una ricerca di due studiosi del Politecnico di Milano, Cassandra Fontana e Jacopo Lareno Faccini[1]. Le criticità dell’attività del Sistema Integrato dei Fondi Immobiliari (SIF) che hanno rilevato nel loro lavoro sono la mancanza di informazioni pubbliche sull’operato del FIA, a partire dalla decisione di non divulgare i contenuti del Regolamento che ne regola il funzionamento in merito a obiettivi, strumenti e strategie; la difficoltà del sistema di garantire la socialità dell’intervento senza un ulteriore supporto del pubblico; la disomogeneità degli interventi nelle varie aree geografiche; la discrezionalità dei criteri di accesso all’abitazione che porta ad escludere le componenti più marginali e quindi più economicamente in difficoltà; l’asimmetria esistente nello scambio tra amministrazioni pubbliche e SIF; la mancanza di sistemi di valutazione efficaci e trasparenti da parte degli Enti locali; il rischio che l’impostazione del SIF permei «l’intero discorso sulle politiche abitative sociali spostandone progressivamente l’obiettivo»; il rischio che nell’impostazione del SIF tra i diversi discorsi che definiscono la socialità degli interventi delle politiche abitative prevalgano esclusivamente i «caratteri immateriali (condivisione, collaborazione, ecc)». In Lombardia, dove si concentravano già alla fine del 2013 cinque Fondi, tramite 18 progetti, sono stati realizzati 1938 alloggi e 278 posti letto. Il 6% del patrimonio è costituito da residenze temporanee, il 10% è in vendita libera, l’84% in affitto. Solamente però l’11% è a canone sociale, cioè rivolto a famiglie con un iSEE-erp inferiore a 16000 euro.
Il SIF, nonostante le opacità e le difficoltà a trovare una sua giusta collocazione nell’ambito delle politiche pubbliche, è stato consacrato a nuova misura innovativa e strategica delle politiche abitative. I fondi immobiliari sono infatti chiamati a progettare e a realizzare le politiche abitative ai diversi livelli istituzionali, in quanto ritenuti più capaci di evitare le disfunzioni burocratiche e gli sprechi che avevano caratterizzato il precedente modello. Considerati capaci di massimizzare l’investimento pubblico attraendo capitali, con l’obiettivo di garantire la sostenibilità economica del sistema, hanno però prodotto una sinergia con il mercato talmente stretta da apparire quasi un’assimilazione del pubblico da parte del privato.
Mix sociale o esclusione dei poveri?
«L’assegnazione delle unità abitative è effettuata in modo da assicurare l’integrazione sociale attraverso la presenza di nuclei familiari diversificati per categoria e composizione,…tenuto conto delle seguenti categorie: anziani, famiglie di nuova formazione, famiglie monoparentali, appartenenti alle forze di polizia […] disabili ovvero altre categorie di particolare e motivata rilevanza sociale».
Individuando a priori specifiche categorie di possibili abitanti e conseguenti percentuali di assegnazioni, la Regione intende “garantire il mix sociale“ dei quartieri in modo da evitare contesti troppo omogenei per fragilità, favorire e facilitare la coesione sociale. A scomparire dalle case popolari saranno quindi le famiglie per cui il mercato libero delle locazioni è troppo oneroso e le famiglie senza casa a seguito di sfratto o pignoramento, ricondotte ai servizi abitativi transitori gestiti dal Terzo Settore. Il quadro delineato mostra chiaramente come si tenti di strutturare l’accesso al sistema dell’edilizia popolare solo valutando le condizioni soggettive dei richiedenti, escludendo e discriminando le famiglie straniere e chi ha meno anni di residenza, cancellando le condizioni strutturali del disagio abitativo e cioè l’incidenza dell’affitto sul reddito. Lo sfratto è trattato come una condizione transitoria e soggettiva del nucleo famigliare superabile attraverso un percorso di accompagnamento sociale, come se si trattasse di una patologia da cui guarire, nonostante siano molte le ricerche che dimostrano come esista un profondo divario tra reale domanda per capacità economica dei nuclei famigliari e offerta di alloggi[2] e nonostante i dati dell’emergenza abitativa.
Empowerment o colpevolizzazione della povertà?
La retorica della colpevolezza/incolpevolezza della morosità ritorna nel testo due volte: in riferimento agli inquilini delle case popolari e in riferimento agli inquilini del mercato delle locazioni private, secondo quanto introdotto dal Piano Casa Renzi-Lupi. La distinzione, sebbene mai esplicitata, lascia intendere che ci siano famiglie che per cause oggettive si trovano in difficoltà e non riescono più a pagare l’affitto e altre che colpevolmente cercano di approfittare dei privilegi e degli aiuti garantiti dal welfare state. Il riconoscimento dell’incolpevolezza della morosità è inoltre connesso all’individuazione di una causa scatenante che è necessario rimuovere e superare. Per questa ragione la gestione delle morosità è affidata al Terzo Settore e ai Servizi Sociali con il compito di accompagnare anche da un punto di vista educativo i nuclei famigliari in modo che riescano a farsi nuovamente imprenditori di loro stessi e a rientrare e a rimanere sul mercato. Questa impostazione è però purtroppo destinata a infrangersi contro l’onda d’urto della miseria che dilaga nei quartieri e alla profonda crisi della società italiana: lavoro nero o precario, sussidi, assistenza alimentare di Caritas e altre associazioni, mense per i poveri, famiglie che vivono stabilmente senza luce o senza gas, famiglie che vivono con l’assegno di invalidità pari a 280 euro o anziani con la pensione sociale pari a 480 euro mensili… Dopo 3 anni il sistema dei fondi per la morosità incolpevole rivolti agli inquilini dell’edilizia privata, introdotti con il Piano Casa Renzi–Lupi (Legge 80), ha infatti dimostrato tutta la sua inutilità, poche domande accolte e difficoltà da parte dei Comuni a spendere i fondi stanziati. L’approccio alla gestione delle morosità e degli sfratti che sottende alla normativa appare quindi retorico e inconsistente e porterà a un aumento dei senza tetto, delle occupazioni e dei disordini sociali.
Alcune considerazioni
Il nuovo modello di welfare abitativo basato sul coinvolgimento degli operatori privati, sul riconoscimento dell’housing sociale come nuovo asse strategico, sulla riduzione dell’intervento pubblico diretto, non mantiene quanto promesso e lascia irrisolti diverse questioni:
- dismettere e valorizzare il patrimonio di edilizia pubblica lascia scoperto il segmento di popolazione più fragile, accelerando maggiormente i processi di marginalizzazione e di esclusione urbana e sociale, indebolendo ancora di più il già fragilissimo sistema dell’edilizia popolare, intervento sempre più residuale e povero.
- Sganciare il tema dell’emergenza abitativa e degli sfratti dai meccanismi di organizzazione e sviluppo urbano e sociale della città, stemperandolo in un generico discorso sulla povertà come condizione individuale e transitoria, risulta essere una posizione ideologica che ha trovato fino ad ora pochissima evidenza nei risultati portati dal sistema dei fondi della morosità incolpevole e delle misure di sostegno all’affitto e all’accesso ai mutui.
- L’ingresso dell’attore finanziario nella programmazione e attuazione delle politiche pubbliche ne sposta il centro verso la ricerca della reddittività dell’intervento, premendo verso una nuova definizione dei significati del corpo concettuale delle politiche, a partire dai confini della nozione di “sociale”: meno inerente al tema della riduzione della disuguaglianza e dell’universalità dei diritti, più convergente con i temi della coesione e della sostenibilità.
- i processi di finanziarizzazione delle politiche pubbliche e di ristrutturazione in corso privi di una visione strategica e di adeguati strumenti di governance si inseriscono in un quadro più complessivo di sostegno da parte del Pubblico al mercato e alla rendita finanziaria, favorendo meccanismi di mantenimento, se non di rialzo, dei canoni di locazioni e dei valori immobiliari.
Quando il tema delle politiche abitative pubbliche rimane ai margini dei discorsi sulla città, confinato in recinti ristretti per addetti ai lavori ed esperti di piani di assistenza sociale, è l’anima stessa della città a venire manipolata. City Life, “business and shopping district in Milan” e il Giambellino, quartiere storico popolare, non sono semplicemente due entità giustapposte di un medesimo territorio. È sempre più diffuso considerare il centro la città sana, motore dell’economia e dello sviluppo, contrapposto ai quartieri di edilizia popolare, la periferia da risanare, assimilare, guarire. È meno frequente che vengano considerate polarità di un campo comune, attraversato e definito da dinamiche e geometrie, l’una in relazione con l’altra. Il vuoto di periferia, diseguaglianza sociale e urbana, ingiustizia e ghettizzazione che le politiche hanno prodotto e consolidano nella città, è in primo luogo un vuoto di “pubblico”, di res publica: è il mercato che ha il compito di riempire questo vuoto? Con quali risultati? L’edilizia popolare non è un patrimonio da smantellare e da svendere. Così come non può essere dismesso il principio secondo cui è in capo all’Istituzione Pubblica il compito di regolare l’interazione dei diversi attori affinché ogni persona possa vivere in una casa sostenibile con il proprio reddito, limitando in primo luogo il potere della rendita. È urgente riaprire il dibattito sui temi della casa e della città, non solo da un punto di vista tecnico, anche di senso. E per questo è necessario che la Riforma Lombarda venga radicalmente trasformata, dopo un confronto profondo e aperto, a partire dalla consapevolezza che i quartieri di edilizia popolare sono una risorsa per la città intera e i suoi abitanti non sono e non intendono rimanere in silenzio e chiedono pari dignità, ascolto, partecipazione.
[1] Cassandra Fontana e Jacopo Lareno Faccini, Un nuovo strumento per la casa sociale. Il Sistema Integrato di Fondi Immobiliari tra rimuneratività e socialità, TERRITORIO, vol. 2016 FrancoAngeli, Milano 2016, p. 163-172.
[2] citiamo a titolo di esempio la ricerca condotta nel 2012 dal Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano “Offerta e fabbisogno di abitazioni al 2018 in Lombardia”. La ricerca mostra come in Lombardia «il 73,97% del fabbisogno complessivo stimato al 2018, sulla base dell’analisi dei redditi, è ascrivibile necessariamente a nuovi interventi di edilizia residenziale pubblica, il 26,03% del medesimo fabbisogno è invece ascrivibile alla domanda di Edilizia residenziale sociale. Infine il surplus di edilizia residenziale libera stimato ammonta a 808.656 vani, pari a 367.656 abitazioni»