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Manuale antiretorico dell’Unione europea

Sessant’anni di Europa: tra crisi economica e immigrazione, quale futuro per l’Unione? Un’anticipazione del libro di Luciana Castellina, edito da Manifesto libri

 

Castellina europa

Cinquant’anni di Europa. Una lettura antiretorica è il titolo di un libro che pubblicai nell’anniversario – il 2007 – della firma del Trattato di Roma, 25 marzo 1957, data di nascita di quella che venne battezzata, con ragionevole modestia, Comunità Economica Europea, poi cresciuta per diventare, nel dicembre 1993, Unione Europea. (Gli inglesi, che comunque all’inizio restarono fuori, minimizzarono ulteriormente la dizione, chiamando la nuova entità ECM (MEC, mercato comune europeo).

Il sottotitolo di quel libro – Una lettura antiretorica – stava a indicare che la nuova istituzione è stata narrata, e ha continuato a esserlo, con tale agiografica esaltazione, da coprire con un velo pietoso la sua vera storia. Pochissimo conosciuta dai più.

Quando scrissi eravamo all’indomani della solenne bocciatura, – nel 2005 – da parte di due paesi fondatori, del primo tentativo di fornire alla nuova creatura una Costituzione. Si trattava nientemeno che della Francia e dell’Olanda, i soli due paesi dove i cittadini erano stati interrogati con un referendum. Altrove, Italia compresa, non fu data al popolo altrettanta possibilità: non solo perché non ci fu referendum, ma anche perché non fu possibile nemmeno contribuire con un parere attraverso i meccanismi della democrazia delegata. Il dibattito parlamentare, e dunque il coinvolgimento di partiti e opinione pubblica fu, infatti, così frettoloso e disattento da potersi ben dire che nessuno si accorse che qualcosa era stato deciso. Così come del resto era accaduto in Italia anche per il fondativo Trattato di Maastricht, varato nel 1993.

Lo shock di quel «NO» francese e olandese fu grosso. Tanto è vero che il 16 gennaio del 2006 il Parlamento Europeo decise che «una pausa di riflessione» si imponeva. E così ritennero anche il Consiglio dei ministri e la Commissione.

E invece non rifletté nessuno. Il 13 dicembre venne varato, anziché una Costituzione (del resto difficile visto che la UE non è un’entità statale) un Trattato Internazionale (detto di Lisbona per via della città dove venne approvato), ratificato dai 25 stati che all’epoca componevano l’Unione e poi entrato in vigore, dopo un ulteriore rinvio dovuto alle perplessità della Corte Costituzionale tedesca, il 1° dicembre del 2009. Largamente simile – almeno nel nocciolo – alla Costituzione che era stata bocciata, e quindi alla sostanza del Trattato di Maastricht su cui questa era basata. Nonostante una prestigiosa commissione di saggi fosse stata incaricata di elaborare un nuovo testo che recepisse il senso delle obiezioni, non tutte, anzi quasi nessuna, ispirata a nostalgie sovraniste.

Nel mio libro, che ricostruisce la non brillante storia del come in mezzo secolo non si è data realizzazione ai sogni europeisti di Ventotene, pur tornando ad affermare la possibilità di procedere verso lo stesso obiettivo ma in altro modo, concludevo scrivendo: «L’Europa potrebbe. Ma è difficile, e credo si debba cominciare a ricostruire quel che di buono c’è nella nostra cultura comune. Dopo sarà più facile varare una Costituzione. Nel frattempo sarebbe utile aprire dei cantieri».

Oggi, a quasi dieci anni di distanza, non si può che essere assai meno ottimisti. Anche l’Europa è stata, infatti, investita in questi ultimi anni dalle crisi devastanti che si sono aperte nel mondo, e dunque dai giganteschi processi di destabilizzazione che queste hanno prodotto (anche per via del cieco contributo a fomentarle che la stessa Europa ha dato).

Prima fra tutte la biblica migrazione in atto, che ha messo in evidenza l’intrinseca debolezza della costruzione europea, tutta amministrativa e pochissimo politica, sì da aver tagliato fuori la società, rimasta ancorata alle diverse comunità nazionali, lontanissime dal sentirsi parte solidale della nuova entità europea. Al punto da mettere oggi in pericolo la stessa sopravvivenza dell’UE, un’eventualità che neppure il più pessimista avrebbe messo in conto dieci anni fa.

La tumultuosa – e tragica – cronaca quotidiana è lì a dimostrarlo: un susseguirsi di decisioni unilaterali dei singoli stati membri che, in un sussulto sovranista, procedono ad elevare, allestiti dalle proprie forze militari, muri su confini che sembravano aver perduto significato. Misure cui Bruxelles tenta, invano, di porre riparo adottando decisioni non solo del tutto inadeguate a fronteggiare il fenomeno, ma a loro volta del tutto illegali, come gli hotspot (le strutture di rapida identificazione, ndr). Che dovrebbero scovare tra chi arriva alle frontiere europee i richiedenti asilo (e tra questi, in particolare, i SIA: Siria, Iraq, Afghanistan) per distinguerli da chi parte per ragioni economiche, sì da reimpatriare questi ultimi, sebbene nessuna regola contempli simili divisioni, al di fuori dalla procedura prevista, con il paradosso che lo stesso Ministero degli Interni italiano ha diramato una circolare nella quale richiama il rispetto della legge, che non consente l’adozione di tale criterio. E così, per esempio, i gambiani ricevono, anziché un’informazione corretta e in una lingua da loro conosciuta (come prevede la legge in tutti i 28 paesi europei), un formulario (spesso compilato dagli stessi poliziotti) nel quale, in italiano, devono rispondere a domande trabocchetto (ad esempio: «vuoi lavorare?». Come se ci si potesse aspettare da un immigrato una risposta negativa!). E, se si risponde sì, si viene ovviamente catalogati come «migranti economici». Così discriminando in modo arbitrario fra nazioni di provenienza. Con la conseguenza che alla fine viene effettuato un «respingimento differito»: rilascio e ordine di lasciare l’Italia entro sette giorni. Un diktat che, in realtà, diventa tempo per sfuggire al controllo visto che i titolari del suddetto modulo non hanno alcun modo, anche se lo volessero, di tornare nei loro paesi di origine. (L’Arci di Sicilia ha trovato non pochi minori in questa condizione abbandonati nelle pieghe delle città.)

Se si considera che Schengen – l’area di libera circolazione tra 26 paesi dell’UE (ne mancano 2) e alcuni esterni, risultato di un accordo faticosamente legittimato dopo decenni di incubazione col Trattato di Amsterdam nel 1997 – e, successivamente, Frontex – prima polizia sovranazionale destinata a presidiarla, operativa dal

2005 – erano state immaginate come simbolo dell’ormai inarrestabile processo di integrazione europea, quanto sta accadendo consentirebbe di dire che l’avventura si è chiusa. Sia Schengen che Frontex stanno infatti saltando. Per ironia della sorte, la costosissima e sofisticatissima direzione di Frontex era stata, fin dalla nascita, ufficialmente collocata proprio in Polonia, in uno dei paesi più colpiti dal rigurgito nazionalista.

Non c’è da versar lacrime, su quest’ultima almeno. Coerentemente con la filosofia corrente, Frontex – che adesso dovrebbe partorire anche una vera e propria guardia di frontiera – rende, più di ogni altro organismo, evidente il paradosso su cui si fondano oggi le istituzioni internazionali: enfatizzazione del valore della libertà di movimento in nome della globalizzazione e insieme feroce rafforzamento di misure poliziesche apertamente discriminatorie intese a bloccarlo. Ne è risultato, con il crescendo del processo di disintegrazione dei paesi della costa africana, un regime «a cavallo fra la sfera criminale e quella del diritto amministrativo, in cui gli agenti del controllo esercitano vasti poteri sulla libertà individuale dei migranti restando sostanzialmente liberi dai vincoli previsti per il funzionamento del sistema penale». Così, con la nascita dello spazio di libera circolazione, sono stati aboliti i confini nazionali dei paesi membri dell’UE «per sostituirli» come osserva Giuseppe Campesi nel suo Polizia della frontiera, «con spazi e istituzioni di collaborazione poliziesca». Il confine, così presidiato in virtù dell’ennesima violazione di ogni criterio democratico, viene eufemisticamente chiamato smart border (frontiera intelligente) in quanto, appunto, in grado di stabilire una gestione differenziata, cioè arbitraria, dei flussi migratori in nome dell’ossessione securitaria.

Protagonista nell’attività di reimpatrio forzato dei migranti, anche Frontex è stata contagiata dalla passione eurocrate per i nomi fantasiosi da affibbiare ai progetti, forse nella speranza di renderli più umani. Così i respinti dell’America latina si chiamano Amazon, Hydra i cinesi, Longstop gli indiani, Zarathustra gli afgani, Zorba i balcani, Silence quelli del Corno d’Africa. Del resto, le frontiere dell’UE, non a caso definita «fortezza Europa», nonostante le dichiarazioni, erano rimaste blindate per ben 7 anni, anche ai cittadini degli stessi stati pur diventati membri con l’ultima ondata di ingressi dal centro europea e dai Balcani. La libertà di movimento lungamente auspicata dai cittadini del blocco sovietico è così diventata, con la caduta del Muro e l’ingresso nell’UE di molti di quei paesi, diritto di uscita ma non diritto di entrata in Europa.

A mettere ora in mora Frontex, comunque, non è stato il rimbrotto della stessa Corte europea per i diritti umani, quanto il fatto che oramai, uno dopo l’altro, i paesi UE hanno deciso di provvedere in modi anche più sbrigativi e da soli, alzando i propri muri e rifiutando di ubbidire al farraginoso sistema previsto dall’accordo di Dublino, in base al quale si dovrebbero obbligare i rifugiati a restare nei pesi dove sono approdati. Un piano complessivo per la accoglienza e l’allocazione delle risorse necessarie ad attuarlo, quale pure era stato delineato dalla direttiva 55/2001, insomma, non è stato approntato.

Quindi l’Europa si ritrova incapace di affrontare la questione migranti, che pure è ancora poca cosa rispetto agli analoghi fenomeni del passato e a quelli che si prevedono per il futuro: sebbene triplicati in 40 anni, quelli che provengono dal sud del mondo verso il nord sono – dicono le statistiche – complessivamente 130 milioni; niente se si pensa che dalla sola Italia, fra la metà del XIX e la metà del XX secolo sono partiti ben 32 milioni di emigranti. Con il grosso dei flussi che, come sanno tutti, non pesa sull’Europa, ma su altri continenti. Comunque è chiaro che con quello che succede nel globo il numero di richiedenti asilo o rifugio non potranno che aumentare: basti contare i 200 milioni che per via della catastrofe climatica si aggiungeranno entro la fine del secolo. Si tratta di un processo ineluttabile che trasformerà l’Europa, come del resto ogni altra regione della Terra, in società sempre più plurali. Ci si dovrebbe aspettare una riflessione seria e di lungo periodo su come gestire queste novità prendendo atto che, a meno di non gettare la bomba atomica, non sarà possibile arrestare questo fenomeno, perché non c’è più tempo per porre riparo alla clamorosa disuguaglianza che siamo riusciti a produrre nella storia. Sarebbe possibile, per esempio, introdurre, nel frattempo, una cittadinanza speciale per i «cittadini mobili»? Allestire una sorta di inserimento non carcerario dei nuovi venuti? Mai l’assenza di lungimiranza si è dimostrata così clamorosa.

Basterebbe peraltro prendere atto che le «politiche di contrasto» dell’immigrazione sono costate all’UE (dati relativi al periodo 2007-2013) quasi il doppio rispetto alle «politiche di sostegno» (2,4 miliardi di euro contro 1,4). Quasi tutti gli studi seri sul fenomeno dei migranti concordano, del resto, nel dire che si tratta di un fenomeno alla lunga benefico. Se lo sarà o meno, però, dipende dalla lungimiranza della politica europea: cioè dalla qualità dell’accoglienza. Per ora, come sappiamo, si privilegia l’appalto del fardello alla Turchia, dietro pagamenti in danaro e cecità rispetto alle malefatte del regime di Ankara.

La caotica serie di misure d’emergenza assunte in rapporto all’immigrazione non ha fatto, del resto, che consolidare la prassi adottata per tutto quanto è avvenuto in questi ultimi dieci anni durante i quali l’UE ha affrontato i nuovi problemi accentuando ulteriormente i tratti peggiori della costruzione europea, e si è accelerato il cammino verso un modello istituzionale post-parlamentare e post-democratico che ha contagiato anche il quadro istituzionale dei singoli stati membri, rispetto ai quali l’UE ha oggi una rischiosissima funzione anticipatrice. Come non vedere, anche a livello nazionale, il progressivo stravolgimento del nostro, ma non solo, ordinamento democratico fondato sulla dialettica parlamentare?

Questa storia da me scritta dieci anni fa per raccontare come ebbe inizio il processo di integrazione europea, spero possa aiutare a capire come si sia arrivati a questo pessimo risultato e, forse, a individuare meglio cosa fare oggi per riparare. L’intento non è rievocare storie ormai lontanissime. Come sappiamo, per comprendere il presente, occorre avviare una riflessione critica sul passato, e l’archeologia ci aiuta. Per questo ho pensato che valesse la pena di ripubblicarla aggiungendovi questa postfazione collocata in premessa, che fornisce le informazioni più significative necessarie ad aggiornare la riflessione. Lavoro complicato dalla difficoltà di rintracciare le fonti e le ragioni delle decisioni europee. Gli ordinamenti sono un ginepraio «dove neppure una gatta saprebbe ritrovare i suoi gattini», come disse Jean Pierre Cot, l’allora presidente del gruppo socialista europeo, in occasione del varo del trattato di Maastricht. Per questo mi è parso utile servizio una ricapitolazione per sommi capi di quanto è accaduto dal 2006. Moltissimo e pessimo.

Il testo pubblicato costituisce l’introduzione del libro di Luciana Castellina, Manuale antiretorico dell’Unione europea, da dove viene (e dove va) questa Europa (pp. 176, euro 18,00, manifestolibri 2016)