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L’Ilva nel caos italiano

La vicenda dell’Ilva mostra la condizione del Paese, tra totale inerzia e paralisi politico-amministrativa, da una parte, e interventismo senza regole dall’altra. Oggi l’impianto rischia la chiusura definitiva: qual è il quadro nazionale e internazionale e quali sono gli scenari futuri.

Il blocco del sistema Italia

In queste settimane i preoccupanti casi di Alitalia, Ilva, Mose-Venezia e altri minori (potremmo citare anche quello della FCA, che a nostro parere si potrebbe rivelare una bomba a scoppio ritardato), che si trascinano nella massima confusione da molti anni, hanno almeno una cosa in comune: appaiono i segni evidenti del fatto che la decadenza del nostro paese ha ormai raggiunto livelli forse di non ritorno; si oscilla su molti fronti tra inerzia e paralisi politica e amministrativa, da una parte, e interventismo senza regole dall’altra. 

È chiaro a molti come si manifesti in tutta la sua evidenza, con questi casi, la crisi di lunga durata delle classi dirigenti economiche, finanziarie, politiche del nostro paese, di fronte anche al disorientamento, foriero di sbocchi molto incerti, di gran parte della popolazione. Comunque, sull’Ilva in particolare è stato già detto tutto o quasi ed è soltanto l’indignazione che può continuare a spingere a parlarne ancora.

Partiamo dalla sciagurata politica di privatizzazioni a suo tempo portata avanti trionfalmente dai governi di centro-sinistra. In tale quadro, l’Ilva viene ceduta ai Riva per poche lire (ci saranno certamente in quegli anni anche altri casi di frettolosa svendita di aziende pubbliche) e la famiglia si installa al comando, accumulando grandi profitti – che poi i magistrati hanno scoperto essere stati trafugati all’estero tra un paradiso fiscale e l’altro –, disinteressandosi del tutto dei problemi ambientali, con la sostanziale complicità della classe politica.

Dopo la caduta dei Riva per opera della magistratura, i governi che si sono succeduti nel tempo non hanno condotto alcuna azione seria e determinata per rilanciare il polo industriale e per abbattere i livelli di inquinamento; l’unica costante delle loro politiche sembra essere stata quella di cercare di bloccare via via i provvedimenti dei magistrati emessi a tutela della salute dei cittadini.

Alcuni punti fermi

È difficile oggi districarsi nel mare magnum delle notizie e informazioni che girano intorno al caso, ma ci sono una serie di cose che appaiono, a un attento esame, abbastanza chiare. Intanto bisogna ricordare come vi sia una diffusa convinzione tra una parte almeno della popolazione di Taranto e in alcune formazioni politiche – dai Verdi ai 5 Stelle – secondo la quale l’impianto non è risanabile, e che quindi bisogna chiuderlo e portare avanti dei piani di riconversione. C’è anche chi si azzarda a citare con sicurezza i progetti più improbabili. 

Ora, per quanto riguarda il primo punto, è opportuno ribadire che in Europa e nel mondo si registrano tanti esempi di grandi siti dell’acciaio che hanno superato i problemi di inquinamento (basta ricordare i casi della Voestalpine a Linz in Austria, a pochi chilometri dal nostro confine, e quello della Tata Steel vicino ad Amsterdam), anche se in generale bisogna fare ancora molto in tale ambito. D’altra parte, pensare che, dopo aver chiuso l’impianto, il governo sia in grado in poco tempo di varare piani produttivi per trovare una nuova occupazione per le 15.000-20.000 persone, dirette e indirette, coinvolte dalle attività dell’ex-Ilva, appare come pura fantascienza.

Il settore pubblico è ormai da tempo incapace di portare avanti un progetto di tali dimensioni; altri casi, come a suo tempo quello di Bagnoli, pur di dimensioni più ridotte, mostrano chiaramente che la cosa è impossibile. Questa considerazione rimanda a quello che sembra essere il problema dei problemi della crisi italiana, il fatto che la macchina organizzativa del settore pubblico gira da molto tempo a vuoto, mentre nessuno pensa a cercare di riformarla.

D’altro canto l’ipotesi della decarbonizzazione, cioè del passaggio dell’alimentazione dell’impianto con il gas invece che con il carbone, che sulla carta appare una soluzione corretta, si scontra con il fatto che non esistono ancora al mondo impianti paragonabili come dimensioni a quello di Taranto con tale tecnologia, con l’ulteriore problema del reperimento del gas. Ma nel lungo periodo forse tale ipotesi potrebbe concretamente materializzarsi.

In ogni caso, nei confronti di Arcelor Mittal è stato compiuto un errore colossale, come molti hanno sottolineato. Non ci si può rimangiare delle clausole contrattuali, a proposito dello scudo penale, dopo averle firmate, siano esse più o meno giuste. Temiamo che un’azione di questo genere, insieme alla confusione che regna nel mondo politico, possa scoraggiare qualsiasi impresa volenterosa che potrebbe magari subentrare almeno in parte alla Arcelor Mittal. 

Il mondo dell’acciaio

A livello mondiale la produzione di acciaio è in crescita. Nel 2018 essa è stata di 1.808 milioni di tonnellate, con un aumento del 4,6% rispetto all’anno precedente, mentre anche i primi dati per il 2019 indicano un ulteriore, rilevante incremento. Questo andamento positivo si concentra nei paesi emergenti, mentre in quelli occidentali la tendenza è al ridimensionamento. Leader incontrastato del settore è la Cina, con 928 milioni di tonnellate, sempre nel 2018, una quota pari al 51,3% del totale. Seguono a grande distanza India e Giappone. A livello di imprese, il primato va all’Arcelor Mittal: la società indiana possiede acciaierie in diverse decine di paesi e occupa almeno 200.000 dipendenti. 

L’acciaio europeo è da tempo in crisi con lo stallo della domanda – anche per il 2019 e il 2020 è prevista una sua riduzione, in particolare in relazione alle difficoltà dell’auto e più in generale alla stagnazione dell’economia, nonché alle guerre commerciali di Trump –, l’arrivo di acciaio a buon mercato dall’Est (Cina, Russia, Turchia), grandi livelli di concorrenza e prezzi bassi, con chiusure di impianti e fallimenti di imprese, imprese in parte acquisite poi dagli stessi produttori dell’Est. Va tra l’altro ricordato che la parte dei produttori europei sul totale mondiale si è ridotta negli ultimi dieci anni dal 15% al 9%, ma che comunque il settore impiega ancora nel nostro continente 330.000 dipendenti (2,5 milioni contando gli impieghi indiretti, cifra ovviamente considerevole). Bisogna anche sottolineare che la sopracapacità produttiva nel settore è stimata in 500 milioni circa di tonnellate su base annua (i due terzi in Cina; tra 30 e 50 milioni di tonnellate in Europa). 

È proprio di queste settimane la notizia che i cinesi hanno acquisito gli impianti della British Steel, mentre l’indiana Tata Steel sta avviando la ristrutturazione dei suoi in Gran Bretagna e Olanda, con la previsione di una rilevante riduzione degli occupati.

La strategia di Arcelor Mittal

In questo quadro, l’Arcelor Mittal ha seguito nel tempo una politica di espansione nei paesi occidentali soprattutto con l’acquisizione di imprese in difficoltà. Per quanto riguarda l’ingresso nell’Ilva, in diversi già allora avevano avuto il dubbio che esso fosse stato spinto soprattutto dalla volontà di evitare che la società finisse nelle mani di qualche concorrente. In ogni caso oggi, con la riduzione tendenziale della domanda di acciaio nei paesi europei, l’azienda sta perseguendo una strategia di chiusura e ristrutturazione di impianti in vari paesi, mentre invece in queste stesse settimane essa mette le mani sugli impianti di un altro grande produttore indiano in crisi. Ma il mercato di quel paese ha ancora rilevanti prospettive di espansione.

Appare però singolare e inaudito che la Mittal cerchi di arrivare al più presto e con tutti i mezzi alla chiusura dell’impianto di Taranto, mentre si sospettano manovre non chiare su diversi fronti (movimenti di merci, spostamento verso altri lidi di clienti dell’azienda italiana, cessazione dei pagamenti ai fornitori, manovre sui prezzi degli scambi infragruppo con obiettivi anche di elusione fiscale). Non si capisce che obiettivo esso abbia in mente, anche se appare opportuno ricordare che il gruppo ha chiuso diversi altri impianti in Europa. Negli ultimi giorni, comunque, forse per l’intervento della magistratura, la società indiana sembra assumere un atteggiamento più morbido.

Cosa si può fare

È difficile configurare con esattezza la migliore soluzione per l’Ilva. Ma ci sembra che comunque alcuni punti siano imprescindibili. In termini generali, bisogna portare avanti con decisione un piano di sostenibilità ambientale, economica e sociale dell’impianto, come ha sottolineato anche il presidente di Confindustria, con cui ci troviamo una volta tanto d’accordo. Più nello specifico, il governo non può permettere la chiusura dell’impianto, che vale secondo alcune stime l’1,4% del Pil nazionale, che è il maggior insediamento produttivo del Sud e che rappresenta una produzione essenziale a tante industrie a valle.

Peraltro, sembrerebbe difficile, dopo i suoi recenti pessimi comportamenti, mantenere la gestione dell’Ilva in capo ad Arcelor Mittal, anche se per alcuni versi si tratta paradossalmente della soluzione meno complicata da portare avanti. Va peraltro ricordata la necessità di reintrodurre lo scudo penale, senza il quale sarebbe molto difficile trovare investitori disponibili a entrare nel gioco.

Bisogna ovviamente intervenire subito per evitare lo spegnimento dell’impianto. Dopo di che, se con l’azienda indiana non si trovasse un’intesa, è necessario mettere insieme una nuova cordata della quale dovrebbe far parte, insieme a un grande gruppo internazionale (ammesso che si trovi qualcuno disponibile a subentrare), anche l’operatore pubblico: questa è una condizione ormai imprescindibile (sino a ipotizzare, in casi estremi, la nazionalizzazione) a tutela degli interessi nazionali. 

Tutto ciò con due obiettivi di fondo: portare avanti il disinquinamento dell’impianto, accelerando e approfondendo i piani originali, e rilanciare l’azienda dal punto di vista commerciale. Bisogna ricordare che Taranto diventa economica solo a partire dai 7 milioni di tonnellate di produzione circa, mentre la Mittal parla di attestarsi sui 4,5 milioni. In ogni caso appare necessario investire molto per mettere in stato adeguato l’impianto. Bisogna anche cominciare a programmare, come progetto di lungo termine, una progressiva decarbonizzazione dello stesso. Si tratta ovviamente di obiettivi difficili da perseguire, ma non ci sembra che si possa fare diversamente.