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Le previsioni della Commissione e il voto

Ue al bivio/A 40anni dalla prima elezione del Parlamento europeo serve capire quali siano le aspettative di crescita dell’Unione. Affinità e divergenze tra i casi Italia e Germania.

L’Europa è un’area economica che ha rinunciato alla crescita, e predisposto una strumentazione tecnica di governo dei fenomeni economici che pregiudica il conseguimento di una qualsiasi armonizzazione dei tassi di crescita, con livelli di occupazione estremamente divergenti tra i suoi componenti.

Tra l’introduzione dell’euro (2001) e l’ultimo periodo economico di riferimento (2019), la crescita economica passa da una media del 2% all’1,2%, appena sufficiente per ridurre il tasso di disoccupazione dall’8,8% (media 2000-4) al 7,7% del 2019. Ma ciò che emerge dai dati del recente forecast della Commissione europea (maggio 2019) è soprattutto la disomogeneità tra i singoli Stati dell’area euro. Tale differenziazione suggerirebbe un coerente output gap, più alto per i Paesi con alti tassi di disoccupazione e più basso per i Paesi prossimi alla piena occupazione, ma ciò non si verifica, con pesanti ripercussioni sul cosiddetto deficit strutturale. Sebbene ciò stia nella logica, l’output gap – cioè la differenza tra PIL conseguito e quello potenziale – convergere verso la media europea, indipendentemente dai tassi di occupazione e di investimento, abbastanza disomogenei. In altri termini, l’Europa è un cantiere che ha perso per strada l’armonizzazione (condivisione) del ben-essere, accontentandosi di prescrivere ricette che consolidano le differenze di struttura tra i Paesi.

Il peso e ruolo dell’Italia nel consesso europeo è pieno di contraddizioni, esacerbate dai moniti europei e, non di meno, dalle politiche economiche nazionali che potevano avere ben altri effetti, indipendentemente dall’austerity imposta dalla Commissione.

Osservando la distanza che ci separa dalla media dei principali indicatori europei – lo stesso esercizio, lo realizziamo per la Germania- è significativo come la crescita economica del nostro Paese sia costantemente inferiore alla media europea. Anche la Germania manifesta una minore crescita del PIL rispetto all’area euro, ma almeno rimane prossima ai valori medi europei, mentre per l’Italia la minora crescita rispetto all’Europa si colloca tra il meno 1% e il meno 0,8%. 

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Confrontando gli investimenti in macchinari di Germania e Italia rispetto alla media europea, si osserva un andamento abbastanza anomalo: quando le imprese tedesche spendono maggiori risorse finanziarie per i macchinari, l’Italia li riduce in misura equivalente e viceversa. In qualche misura gli investimenti in macchinari tedeschi si prefigurano come anticiclici, mentre quelli nazionali come pro ciclici. In questo modo, forse, è possibile spiegare perché la Germania anticipa i cicli economici migliorando nel tempo il suo posizionamento nei confronti dei concorrenti europei, mentre l’Italia insegue i cicli economici, con l’effetto di conseguire un valore aggiunto per addetto sistematicamente più contenuto di quello tedesco.

La domanda aggregata conta, ma la domanda comandata dagli investimenti italiani, spesso maggiore rispetto alla media europea, non ha permesso di avere un PIL coerente e/o in linea con la media europea. Se gli investimenti sono la principale componente della domanda autonoma, realizzare gli stessi prima che riparta il ciclo economico o dopo che si è stabilizzato il ciclo, determina un output divergente: maggiore per gli investimenti anticiclici e inferiori per gli investimenti pro ciclici. Una parte della minore crescita dell’Italia rispetto alla media europea è legata proprio alle caratteristiche intrinseche degli investimenti nazionali.

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I livelli di disoccupazione sono in qualche modo coerenti con il profilo degli investimenti. In effetti la Germania registra un tasso di disoccupazione migliore dell’area euro pari a quasi 5 punti, mentre l’Italia ha un tasso di disoccupazione più alto della media europea di oltre 3 punti. Lo stesso fenomeno si osserva in altri Paesi, e ciò richiama le politiche di austerità europee degli ultimi anni. In effetti il tasso di disoccupazione medio europeo è prossimo all’8% senza significativi miglioramenti. 

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Livelli di disoccupazione così divergenti prefigurerebbero un output gap altrettanto divergente, almeno questa dovrebbe essere la regola. In realtà l’output gap non solo si riduce nell’area euro, pur con livelli di disoccupazione prossimi all’8%, ma diventa anche restrittivo quando il PIL potenziale (sostenibile) diventa più contenuto di quello reale.

L’esercizio è ancor più impressionante se prendiamo in esame la distanza dell’output gap di Germania e Italia rispetto alla media europea, e il tasso di disoccupazione. Sostanzialmente l’output gap di Germania e Italia converge, mentre il tasso di disoccupazione diverge in misura preoccupante. In altri termini il modello di PIL potenziale della Commissione non ha memoria, e considera gli attuali livelli di disoccupazione come “naturali”.

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Che qualcosa non funziona nei modelli previsionali della Commissione europea è facilmente dimostrabile. Tra le stime invernali e quelle primaverili della crescita del PIL partorite dalla Commissione per il 2019, ad esempio, si osserva una differenza ingiustificabile nel breve periodo, ovvero nel periodo considerato. La stima di crescita della Germania è inferiore di 1,3 punti percentuali, quella dell’Italia del meno 1,1, quella della media dell’area euro del meno 0,7. 

Le prossime elezioni europee non sono un appuntamento ricorrente, piuttosto un appuntamento con la Storia. Sebbene sia poco noto, le prossime elezioni europee coincidono con i quarant’anni dalla prima elezione del Parlamento europeo (10 giugno del 1979). La Storia europea è figlia delle aspettative politiche e delle prospettive in esse contenute. Le aspettative, le aspirazioni e i costumi dei cittadini e della classe dirigente hanno segnato le politiche economiche. 

Misurarsi con i modelli di società non è un esercizio a buon mercato per fare la lista della spesa, piuttosto è lo sforzo che dobbiamo fare per costruire e progettare una società e un’Europa all’altezza dei suoi padri fondatori. È una sfida tanto più complicata tanto più lo Stato, il capitale e il sindacato hanno perso per strada la reciprocità e la necessità di un soggetto terzo capace di combinare gli interessi plurali.