Nell’emergenza Covid-19 un aspetto cruciale è sottaciuto: la condizione di tante donne impegnate in tempi di quarantena nelle attività di produzione e riproduzione sociale. Serve una saldatura tra femminismo e anticapitalismo che coniughi benessere collettivo, giustizia sociale e parità di genere.
Lo scoppio dell’emergenza del coronavirus sta rivelando, una ad una, le debolezze strutturali del nostro Paese: l’incapacità del servizio sanitario nazionale, colpito da tagli decennali e bipartisan, nell’affrontare un’emergenza di tale portata; l’assenza di tutele nei confronti dei lavoratori, siano essi precari o dipendenti in fabbriche che hanno continuato a produrre beni non essenziali senza garantire l’adeguata sicurezza fino alla decisione di Conte di chiuderle; le profonde disuguaglianze regionali e la necessità di una gestione centralizzata della crisi; il livello di interdipendenza produttiva e sociale che smantella la chimera individualista del soddisfacimento autoreferenziale dei propri bisogni; i limiti dell’Unione Europea e così via.
Eppure c’è un aspetto che rimane silente, chiuso nelle mura domestiche in cui siamo (quasi tutti) confinati: la condizione di tante donne impegnate in queste settimane di quarantena in ininterrotte attività di produzione e riproduzione sociale.
Se già in condizioni di “normalità” le donne italiane dedicano in media ogni giorno 7 ore di lavoro non retribuito alle attività domestiche, supplendo alla mancanza di politiche sociali capaci di offrire forme di welfare universale, garantire un’effettiva conciliazione dei tempi di lavoro e di vita ed eque condizioni lavorative, risulta difficile credere che la situazione possa migliorare in tempi di pandemia e distanziamento sociale.
In questi giorni in cui molti lavoratori si trovano a sperimentare pratiche più o meno improvvisate di “smart working”, spesso in assenza di regole chiare e strumenti adeguati, le lavoratrici vedono ulteriormente comprimere gli spazi personali, data la chiusura delle scuole, e allungare in maniera inesorabile il tempo dedicato al lavoro, sia esso “smart” o di cura. Eppure, la casa non è assolutamente un ambiente neutro, ma piuttosto lo spazio privato in cui emergono inevitabilmente asimmetrie in termini di potere ed autonomia tra l’uomo e la donna, asimmetrie che difficilmente si annulleranno in una situazione di crisi e incertezza come quella che stiamo vivendo.
Tutt’altro, è prevedibile che anche laddove vi sia una più equa ripartizione delle attività domestiche, l’attuale struttura occupazionale e divisione sociale del lavoro che vede le donne italiane in buona parte inattive o perlopiù occupate in lavori part-time e sottopagati, giustificherà una maggiore assunzione di responsabilità da parte di quest’ultime, se non “per intrinseca predisposizione alla cura degli altri”, almeno per convenienza economica.
In tale quadro, ancora più allarmante è la condizione di quelle famiglie in cui vivono persone diversamente abili e bisognose di assistenza, oggi completamente isolate. Basti pensare ai ragazzi con handicap impegnati fino ad un mese fa in percorsi di sostegno a scuola, per i quali difficilmente la didattica online (laddove implementata) potrà sopperire all’importanza del rapporto diretto con l’insegnante di sostegno e i compagni di classe, oppure alle persone con disabilità o anziane che richiedono assistenza continua. Le badanti, gli operatori sanitari, gli assistenti sociali, a loro volta spesso precari (in Italia come all’estero) e perlopiù donne, hanno infatti smesso di fare le visite a domicilio poiché privi di dispositivi di sicurezza e tutele adeguate. Di nuovo, l’assenza di un servizio essenziale verrà colmato dal sacrificio delle famiglie e in particolare delle donne, al punto che si stanno moltiplicando le richieste di aiuto, come quella di Sara, madre di un ragazzo disabile, che di fronte alla prospettiva di un abbandono prolungato, chiede disperata “la sedazione profonda” per lei e suo figlio.
A ciò si aggiunge la drammatica situazione di tutte quelle donne che vivono in casa con mariti, padri o figli violenti. Diverse associazioni in Europa hanno lanciato un grido di allarme, denunciando il rischio di un forte aumento di episodi di abusi e violenza nei confronti delle donne, oggi costrette a casa e ancora più sole, data la chiusura dei centri anti-violenza. Si rischia il pericoloso effetto weekend, ovvero l’aumento degli episodi di abusi a causa di una prolungata convivenza forzata con uomini violenti, i quali potrebbero adottare comportamenti ancora più coercitivi ed aggressivi in una situazione di incertezza ed instabilità finanziaria. Purtroppo, le ultime notizie di cronaca sembrano confermare queste preoccupazioni, come dimostra d’altronde il raddoppio degli episodi di violenza domestica nella provincia dell’Hubei durante il periodo di blocco.
Per fare fronte a questo rischio, la Spagna ha deciso di garantire quantomeno l’apertura dei tribunali che si occupano di violenza di genere. Difficile credere che questo possa bastare o che abbia effetto l’appello del primo ministro Sanchez alla responsabilità collettiva di fronte a un recente caso di femminicidio.
Anche in Italia manca una strategia precisa, al momento la maggior parte dei centri di antiviolenza è chiusa e l’unica possibilità è chiamare il numero verde 1522, a cui però le donne sembrano ricorrere sempre di meno dall’inizio dell’emergenza oppure con grande difficoltà. Dato preoccupante, se consideriamo che nel nostro Paese in media 88 donne ogni giorno subiscono episodi di violenza e l’81% dei femminicidi è compiuto da un familiare della vittima.
Nonostante l’impegno della Ministra alle Pari Opportunità a finanziare i centri antiviolenza, non stupisce l’assenza e il ritardo nell’attuazione di un programma volto a fronteggiare oggi la violenza di genere, problema sistemico e politico che tocca ogni ambito della vita delle donne, come illustra bene il piano femminista del collettivo Non Una Di Meno, e che richiederebbe sicuramente anche il potenziamento dei centri di ascolto e assistenza su tutto il territorio nazionale, piuttosto che lo sgombero di quelli esistenti in nome di una presunta legalità, come invece è accaduto in passato.
Non stupisce neppure il collasso di un sistema assistenziale fragile, sotto-finanziato e deregolamentato, come mostra l’inevitabile contraddizione insita nel decreto Cura Italia, che da una parte riconosce congedi parentali e bonus babysitter (la cui efficacia è però discutibile) a lavoratori dipendenti e non, dall’altro esclude colf, badanti e babysitter (circa 2 milioni secondo Istat) dalla cassa integrazione in deroga, prevedendo per queste figure professionali solo il ricorso al (limitato) Fondo di reddito di ultima istanza.
Proprio qualche giorno fa, l’Onu ha pubblicato un documento in cui sottolinea come la pandemia potrebbe avere molteplici impatti negativi sulle donne, sia in termini di condizioni di lavoro e prospettive occupazionali (considerata l’alta segregazione femminile nei lavori di assistenza sanitaria e cura), sia in termini di violenza domestica, incremento del lavoro in casa e ridotto accesso a servizi sanitari fondamentali (come nel caso dell’interruzione volontaria della gravidanza). Eppure al momento non vi è alcun riferimento nel dibattito agli effetti distorsivi che la pandemia potrebbe generare sulle disuguaglianze di genere, nonostante l’esperienza di Ebola e Zika (seppur avvenuta in contesti economici differenti) abbia provato l’importanza e la necessità di assumere questa prospettiva.
La rapida diffusione del Covid-19 ha vietato, tra le altre cose, lo sciopero femminista indetto in occasione dell’8 marzo dal movimento Non Una Di Meno.
Cosa succederebbe allora se le donne smettessero improvvisamente di svolgere, proprio in questi giorni di emergenza sanitaria, il loro ruolo di lavoratrici, madri e compagne su cui si regge la riproduzione sociale necessaria al funzionamento di un’economia capitalista e patriarcale? Se le donne vittime di violenza domestica infrangessero i divieti e iniziassero a camminare per strada senza sosta pur di non rientrare a casa?
Crisi e austerità hanno già duramente colpito le fasce più deboli della popolazione e in particolare le donne, che hanno visto peggiorare le prospettive occupazionali, aumentare le disparità salariali e scomparire forme già limitate di protezione sociale. In questi giorni, numerosi studiosi sottolineano le conseguenze drammatiche dell’attuale crisi e potenzialmente peggiori della recessione del 2008, al punto che persino l’ILO prevede 25 milioni di nuovi disoccupati. Se è vero che l’attualità ci impone di ripensare tutto, ma che allo stesso tempo, dati i rapporti di forza attuali, permane il rischio che lo “shock” venga sfruttato in chiave neoliberista al fine di ridurre ulteriormente i diritti e impoverire la classe lavoratrice, uno dei punti imprescindibili rimane proprio la questione femminile, consapevoli dell’urgenza di unire la lotta femminista a quella anticapitalista e coniugare benessere collettivo, giustizia sociale e parità di genere.