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La Grecia di Tsipras che resiste

Contro Tsipras convergono le critiche dei «sovranisti» di sinistra e dei dei neo-populisti di destra. Eppure nel 2017 il Pil greco è cresciuto di quasi l’1,5% e nei 5 anni di “cura della Trojka si era ridotto del 30%.

Dare a Tsipras quel che è di Tsipras. Una sinistra incapace di riconoscere i propri punti di riferimento e di dar conto del loro merito, pur senza rinunciare al dovere di critica, è destinata alla fine miserevole che ha fatto. Tre anni fa tutti a sgomitare dietro ad «Alexis». Oggi va di moda l’accusa di «tradimento» alla Mélenchon o la dichiarazione di fallimento alla Cesaratto (e non manca neppure chi, non solo a destra, di fronte all’immane tragedia degli incendi, anziché partecipare alla mobilitazione di solidarietà preferisce gettare la croce sul «governo di Syriza»), come se nella dinamica della crisi greca tra il 2010 e oggi non ci fosse stato un punto di svolta, il 2015, e dopo di quello, linee di resistenza.

CONTINUA A DOMINARE l’immagine di una Grecia ridotta a un paesaggio di rovine, incatenata per sempre al proprio destino di povertà dalla «solita» classe politica succube e incapace. E questo in nome di una doppia narrativa. Da una parte la versione bizzarramente convergente dei «sovranisti» di sinistra (diciamo così: quelli che avrebbero voluto l’uscita della Grecia da Euro e Ue) e dei neo-populisti di destra (la Nuova Democrazia di Kyriacos Mitsotakis che si prepara a condurre la prossima campagna elettorale su posizioni «populistico-sovraniste» all’italiana, per intenderci), uniti nell’accreditare l’idea che l’ultimo accordo incatenerebbe la Grecia ad una austerità perpetua annullando la sovranità del paese. Dall’altra il racconto dei falchi neo-liberisti, soprattutto tedeschi, per i quali il fallimento greco sarebbe dovuto a una insufficiente applicazione della terapia «ordo-liberista» da parte di un governo recalcitrante e di un popolo sostanzialmente inaffidabile e pelandrone.

Per la verità i numeri parlerebbero di tutt’altra realtà. Come ha ricordato Tsipras in un duro intervento in Parlamento contro Mitsotakis (di cui ha denunciato, fra l’altro, il recente viaggio a Berlino nel tentativo di convincere i tedeschi a pretendere un ulteriore taglio alle pensioni greche), «nel 2017, il Pil greco è cresciuto di quasi l’1,5% (più di quello italiano) e già nel primo trimestre del 2018 la crescita è stata del 2,3%, ossia quasi sei volte la media della zona euro»; la disoccupazione, nel triennio ’15-’17 si è ridotta di oltre 7 punti, scendendo al 20% e nel solo ultimo anno sono stati creati 350mila nuovi posti di lavoro; l’indice del fatturato industriale è cresciuto di 6,7 punti. Non sono precisamente le prove di un collasso totale.

Certo, questo non significa che i greci sono ritornati a uno stato di «salute sociale». I segni della ferocia con cui la macchina dell’Ue ha lavorato sul loro corpo restano evidenti e a perenne denuncia della disumanità e stupidità di quel dogma.

NON SI PUÒ DIMENTICARE che i primi 5 anni di «terapia d’urto» – dal 2010 al 2015 – avevano ridotto il Pil di quasi il 30%, fatto schizzare la disoccupazione dall’11,9% al 26,2% e fatto esplodere la percentuale del debito sul Pil dal 129 al 184%. Né si può ignorare la volontà di vendetta con cui l’Eurogruppo esattamente tre anni fa intese punire l’unico governo di sinistra in Europa insieme al suo popolo per aver «osato» discutere i loro diktat addirittura con un referendum imponendo loro una camicia di forza che, nelle intenzioni, avrebbe dovuto metterli di fronte all’alternativa tra arrendersi o perire.

SI DEVE ALLA CAPACITÀ POLITICA del governo greco se, pur chiuso nell’involucro di ferro di quella vergine di Norimberga con cui si intendeva dargli il colpo di grazia, riuscì a evitare una macelleria sociale di proporzioni storiche, smussando gli aculei più crudeli, per ridurre di quanto possibile il danno. Utilizzando brandelli di risorse scovati tra le pieghe dei protocolli per stendere una qualche, sottile, rete di protezione sui settori più fragili, in totale solitudine, abbandonati dai governi di pseudo-sinistra europei, dal Pd di Renzi come dai socialisti di Hollande e da quelli, orrendi, dell’Spd tedesca di Gabriel e Schultz…

E’ così che nonostante tutto, pur con risorse ridotte al lumicino, gli ospedali sono stati riaperti ad Atene e anche nelle isole. Due milioni di greci sono stati riportati sotto la copertura del sistema sanitario nazionale. Migliaia di infermieri sono stati riassunti nella sanità pubblica. Le utenze elettriche tagliate dai precedenti governi ai più poveri sono state riallacciate. La garanzia della prima casa contro la minaccia di pignoramento, esclusi i casi di speculazione, è stata assicurata… Non sarà senza significato se Alba dorata, che nel 2015 stava intorno al 10%, non solo non è cresciuta ma si è molto ridotta, pur essendo stata la Grecia in questi anni attraversata dal più massiccio flusso migratorio in Europa (quasi un milione di migranti nel 2016 in un paese di 11 milioni di abitanti).

DA DOVE, dunque, questa immagine di disastro sociale e di fallimento politico? Direi da due linee (errate) di calcolo. In primo luogo la scelta del terminus a quo: si confrontano i numeri attuali con quelli precedenti all’inizio della crisi (il 2009), e allora è evidente che pesa, per intero, la criminale politica delle destre interne e dell’oligarchia europea con le loro, quelle sì fallimentari, politiche e la catastrofe sociale che hanno generato. Se invece si confronta il livello attuale con quello del 2015, quando Syriza prese in mano il governo, il trend appare (sia pur frazionalmente all’inizio) in crescita su tutti gli indicatori (Pil, reddito pro capite, occupazione…).
La seconda questione, più seria, riguarda il debito pubblico, dichiarato da (quasi) tutti insostenibile. E rispetto al quale secondo molti, la chiusura dell’accordo attuale con l’Europa non apporterebbe speranze nuove, anzi. Ora, su questo punto è vero che l’accordo non prevede «tagli» del debito, ma solo una sua (parziale) ristrutturazione.

E TUTTAVIA I TERMINI di questa non sono affatto irrilevanti: l’estensione della scadenza di altri 10 anni al valore nominale, e la concessione di un «periodo di grazia» (quello in cui il mancato pagamento non comporta infrazione) di altri 10 per gli interessi e l’ammortamento del debito, rende per molti versi «sostenibile» il debito greco per lo meno a medio termine, e permette di attenuarne l’impatto sui conti pubblici di numerosi punti percentuali, liberando risorse per politiche sociali. Con un tasso d’inflazione intorno al 2% ciò equivale (o assomiglia molto) a un taglio.

Tutto questo vuol dire, allora, che le prescrizioni europee erano giuste? Che la «cura» alla fine ha funzionato? E che la Grecia e l’Europa sono definitivamente fuori dal tunnel della crisi? No di certo. Al contrario. La terapia criminale cui la Trojka ha sottoposto i greci aveva ridotto il paziente in coma sociale, in nome di un dogma dimostratosi clamorosamente falso (che era giunto a imporre persino tagli alla protezione civile, in nome della maledetta austerità).

SE QUELLE RICETTE AL VELENO non hanno dispiegato tutto il proprio potenziale letale lo si deve all’azione di un governo dalle forze limitate ma dall’indubbia volontà di traghettare il proprio popolo fuori dall’inferno. E così per il debito. Sia pur ristrutturato, l’immenso debito greco (accumulato, bisogna pur dirlo, per grande parte a cominciare dal primo programma di cosiddetto aggiustamento) non è, in nessun modo, «rimborsabile» (lo sa e lo ripete sempre il Fmi). Come non sono rimborsabili quelli dell’intera Europa del sud, a cominciare da quello italiano, al momento ben più drammatico di quello ellenico. Esso è servito, e in qualche misura serve ancora, per mantenere l’asimmetria politica ed economica dei creditori sui debitori, e per trasferire risorse dai deboli ai forti (il 90% dei prestiti alla Grecia sono ritornati ai paesi creditori, soprattutto Germania e Francia e ne hanno salvato le banche). Ma questo non è più un problema della Grecia. È un problema dell’Europa. Non è più il paese di Tsipras a non essere in «sicurezza»: è l’Europa di Merkel e di Macron, di Junker e di Tusk a essere a rischio.

E intanto, mentre di Schauble che avrebbe voluto ammazzare la Grecia buttandola fuori dell’Euro non si ha più traccia, Tsipras è ancora lì, ad Atene e a Bruxelles. Non è cosa da poco.

Tratto da Il manifesto del 31 luglio 2018