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La bolla che rotola giù per la piramide

Una storia di scommesse azzardate. Ma anche di allarmi ignorati, di monopoli finanziari, di vincite private e perdite collettive. Si può uscire dalla sala corse?

Una bolla speculativa, come quelle che hanno portato alla crisi attuale, sfrutta essenzialmente lo stesso meccanismo di uno schema piramidale. In ambedue i casi il capitale “fresco” di nuovi investitori va a finanziare i rendimenti degli investitori precedenti gonfiandone il valore nominale. Ed in ambedue i casi il meccanismo di sgonfiamento non può che essere traumatico, con il crollo immediato del valore e perdite colossali per la maggioranza degli investitori. La differenza (non piccola) è che in uno schema pianificato esiste un disegno criminoso, mentre le bolle speculative sono spontanee senza alcun responsabile identificabile. Mentre gli schemi piramidali si combattono facilmente attraverso la legislazione ed una normale supervisione investigativa, le bolle speculative pongono problemi enormi, sia di prevenzione (come si distingue una bolla da una crescita “autentica”?) che di policy (chi si prende la responsabilita’ di agire per far perdere valore a dei titoli?). La crisi attuale ha due motivazioni di fondo. La sfrenata crescita di strumenti finanziari non regolamentati ha permesso la moltiplicazione illimitata di titoli “virtuali”. Un dato titolo, come, ad esempio, un mutuo od una obbligazione, sono stati re-impachettati e rivenduti generando un titolo derivato. Il quale, a sua volta, veniva re-impacchettato e rivenduto, in una catena senza fondo. In apparenza ogni operatore poteva assumere un rischio e contemporaneamente una assicurazione sul rischio stesso, garantendosi il reddito derivante dal rischio, ma senza il rischio. Questi titoli non sono trattati su un mercato pubblico, non hanno un regolamentatore né una camera di compensazione globale, e quindi sono di difficile valutazione e con prezzi estremamente variabili. Istituti come la Lehman Brothers hanno a bilancio migliaia di miliardi di dollari di questi titoli sia come passività che come attività. Finché il prezzo dei titoli subisce piccole variazioni i grandi istituti possono sfruttare le proprie competenze per lucrare su queste oscillazioni. Ma quando il prezzo di uno di questi titoli crolla, la voragine che si apre nei conti è abissale, ed il fallimento diventa inevitabile. La seconda motivazione consiste nella struttura del settore finanziario. Decenni di deregolamentazione hanno permesso l’abbassamento della guardia delle autorità anti-trust e dei controlli sulla solidità delle istituizioni finanziarie. Le attività finanziarie (banche commerciali, di investimento, assicurazioni, brokers, etc.) sono un caso da manuale. Infatti, le banche godono di rendimenti di scala: istituti più grandi possono sfruttare sinergie ed eliminare duplicazioni garantendosi profitti maggiori rispetto a un insieme di concorrenti più piccoli. Senza interventi esterni questo porta alla concentrazione del mercato a livelli in cui la concorrenza non esiste più. Per ogni dato segmento delle attività finanziarie si osserva la presenza di uno o due giganti che controllano la quasi totalità del mercato. Solo le attività direttamente esposte al pubblico (dove conta l’immagine, la fidelizzazione, la differenziazione, etc.) hanno un’apparenza di concorrenzialità. In realtà, queste sono solo vetrine, perchè tutti i mutui generati, i risparmi raccolti etc. vengono poi immediatamente girati ai monopoli specialisti del segmento. Essendo pochi, ed enormi, essi sono obbligati a fare affari tra di loro, detenendo reciprocamente enormi quantità di titoli di debito e credito uno dell’altra. La concentrazione del mercato ha generato il “rischio di controparte”, il terzo fattore in gioco. Gli attori finanziari compiono abitualmente sofisticati calcoli sulle probabilita’ che un titolo, diciamo un mutuo, non venga onorato. Sulla base di queste probabilita’ si generano complessi combinazioni di titoli in modo da produrre titoli con ogni desiderato livello di rischio. Le operazioni necessarie sono estremamente complesse, ma non per niente il settore finanziario e’ un enorme acquirente di computer (la SUN ha esplicitamente affermato che la crisi le ha provocato un crollo di vendite) ed intere generazioni di fisici teorici lavorano a Wall Street. Il problema e’ che le probabilita’ di rischio considerano solo quello implicito nel titolo stesso (che il mutuo non venga pagato), non che il titolo derivato diventi nullo perche’ l’istituzione che lo ha emesso fallisce. E’ come se si fosse scommesso su tutti i cavalli in gara, ma la sala corse fallisce. La vincita che sembrava sicura diventa una perdita sicura, anche senza aspettare di conoscere il vincente. Per questa ragione il governo americano, dopo aver fatto fallire Lehman Brothers (ed esserne subito pentito), ha salvato AIG che ha una quantita’ enorme di contratti con praticamente tutti gli attori finanziari del mondo. Il quarto fattore e’ stato la diffussissima abitudine fra ogni tipo di azienda di ricorrere ai mercati finanziari per ogni necessita’, che sta esportando la crisi all’economia reale. Fino a pochi mesi fa qualsiasi azienda veniva praticamente obbligata dagli azionisti a non detenere nessuna liquidita’. Per pagare i fornitori, gli stipendi ed ogni altra spesa le aziende ricorrevano ai mercati finanziari “spot” facendosi prestare soldi e ripagando successivamente con gli incassi. Ogni quantita’ di denaro che eventualmente restava venica utilizzato per pagare dividendi o per ricomprare azioni proprie, facendone salire il valore. Quando i mercati si sono letteralmente prosciugati le imprese non hanno letteralmente niente in cassa, e si arrangiano come possono, se possono. Si sono allungati a dismisura i tempi di pagamento, ridotte al massimo le spese non necessarie, licenziato, cancellati investimenti: in una parola, si e’ entrati in recessione. Come intervenire per risolvere la crisi? Le soluzioni vanno ovviamente distinte per il breve periodo (evitare lo sfaldamento del sistema attuale) e per il lungo (evitare il ripetersi). Per quanto riguarda le azioni di emergenza lo strumento classico delle iniezioni di liquidità è un’arma spuntata. Se il cavallo non vuole bere, è inutile portare un barile più grande. Le enormi operazioni delle banche centrali dei mesi scorsi sono state infatti completamente inutili. Infatti, come hanno sempre fatto, le banche centrali hanno abbassato il tasso di interesse ed offerto contante alle banche in cambio di titoli affidabili (ed, in seguito, anche meno affidabili). Ma le banche commerciali hanno tenuto questi soldi in cassaforte, senza mitigare la crisi di liquidità del sistema, per paura che la controparte fallisca e per aumentare il proprio capitale. Il governo americano ha poi cercato di risolvere il problema alla radice: usare i 700 miliardi di dollari stanziati dal congresso per comprare titoli “marci” delle grandi banche e farle uscire dalla crisi. Ma il piano non poteva che fallire. L’ammontare dei titoli in questione è di diverse decine di migliaia di miliardi, impossibile da acquistare tutti, anche a prezzi scontatissimi. Inoltre, sono titoli non standardizzati, composti ognuno da fette di altri titoli, e senza un registro centralizzato. Quali comprare, ed a quale prezzo? E poi, in fondo, perchè il contribuente dovrebbe pagare per gli errori di istituti ricchissimi (in passato)? Il primo ministro inglese Gordon Brown, che ne capisce, ha delicatamente ignorato il collega americano Paulson (ex amministratore delegato di Goldman Sachs), ed ha preso un’altra strada. In effetti, ha imitato il più stimato investitore di Wall Street, Warren Buffet, il quale ha recentemente comprato grandi quantità di azioni di banche. In ambedue i casi, sia il governo inglese che Buffet hanno fatto uno scambio: io ti do credibilità, tu mi dai soldi, e tanti. Brown, come Buffet, è entrato nel capitale degli istituti in crisi con azioni privilegiate, che ogni anno ricevono ricchissimi interessi a prescindere dai risultati aziendali. Le banche così ricevono una vitale boccata di ossigeno, da spendere come meglio credono, ed hanno tutto l’interesse a ricomprarsi le azioni privilegiate il prima possibile. Ora anche Paulson ha seguito l’esempio inglese ed ha iniziato a usare i soldi disponibili per acquistare azioni degli istituti finanziari. L’Economist stima che i governi dei paesi sviluppati sono diventati i principali azionisti dei loro sistemi bancari, con circa un quarto del capitale controllato dallo stato. Per ora, questa iniziativa, che rovescia decenni di esaltazione ideologica del privato contrapposto al pubblico, sembra aver stabilizzato il sistema finanziario. Ma ormai il danno e’ stato fatto, e l’economia reale, tutte le imprese, sono entrate nella spirale recessiva: aspettandosi un crollo delle vendite diminuiscono le spese e, collettivamente, provocano la diminuzione dell’attivita’ economica. Ora il dibattito si concentra su come tenere impedire che la recessione gia’ iniziata si avviti in una depressione senza fondo. Negli USA il problema piu’ immediato e’ costituito dai tre produttori automobilistici: GM, Ford e Chrysler. E’ evidente che queste imprese hanno ancora pochi mesi di vita, se il governo dovesse intervenire. Puo’ il governo americano permettere che non esista nessun produttore di auto americano? E se aiuta il settore automobilistico, qual’e’ il limite dell’intervento pubblico? Questo dilemma sara’ solo il primo di molti simili nei prossimi mesi (ed anni) durante i quali sara’ necessario non solo rispondere alle emergenze ma anche ripensare un modello di sviluppo. L’ideologia del mercato come supremo motore e auto-regolatore dell’economia si e’ sgonfiata di botto. L’aspetto piu’ sorprendente e’ che fino a pochissimi mesi fa tutti i segnali di crisi, che ora appaiono evidenti, erano completamente ignorati. Anche i piu’ accaniti oppositori all’intervento pubblico si trovano ora dover ammettere che l’iniziativa privata ha dei limiti, ed un’economia moderna non si puo’ basare solo sulla ricerca del profitto individuale. C’e’ bisogno di armonizzare la capacita’ dei mercati di usare efficacemente le risorse nel breve e medio periodo con la necessita’ di dirigere lo sviluppo verso direzioni sostenibili nel lungo periodo. Il problema di fondo e’ che il sistema finanziario dovrebbe, nella teoria economia, assicurare la corretta allocazione delle risorse. Quali investimenti effettuare, quali settori sviluppare, quali scommesse tecnologiche accettare, sono scelte rischiose con effetti irreversibili e di lungo periodo. Negli ultimi decenni il sistema finanziario ha smesso di ragionare sul lungo periodo, e si e’ concentrato su tecniche mirate al guadagno immediato. Per decenni ci si e’ abituati al pagamento di interessi su investimenti finanziari dell’ordine di diversi multipli rispetto alla crescita dell’economia reale. Come e’ possibile ricevere interessi su investimenti finanziari del 15-20% se l’economia cresce al 3-4%? Si puo’ fare solo truccando (legalmente) le carte spostando risorse verso le rendite finanziare. Il risultato e’ che invece di allocare risorse al sistema, il settore si e’ in gran parte appropriato delle risorse stesse. In parte sono state trasformate in rendite di pochi ricchissimi individui. Per il resto sono state utilizzate per mantenere in vita lo schema piramidale. Nel frattempo l’economia reale, che produce beni e servizi, ha sfruttato ogni possibile incremento di efficienza, ma alla fine la mancanza di una prospettiva coerente di lungo periodo non puo’ che bloccare il sistema. Se le bolle non si riempono, prima o poi scoppiano.