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Jobs Act: più ombre che luci

Il lieve aumento dell’occupazione che si è registrato con il Jobs Act non risolve i dualismi – anagrafici, geografici e di genere – del mercato del lavoro italiano

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Quali sono stati gli effetti della flessibilizzazione del mercato del lavoro in Italia ed in Europa? È a partire da questa domanda che ha preso il via il workshop organizzato dall’Istituto di Economia della Scuola Superiore Sant’Anna nell’ambito del progetto europeo ISIGrowth (Innovation-fuelled, Sustainable, Inclusive Growth), “Un anno dopo il Jobs Act: gli effetti della flessibilizzazione del mercato del lavoro”.

Uno degli obiettivi chiave del progetto europeo ISIgrowth, ha spiegato Andrea Roventini introducendo i lavori, è di fornire una risposta alle tante facce della crisi che abbiamo di fronte: dalla costante crescita delle disuguaglianze, alla voracità del settore finanziario fino alla crisi ambientale.

Tra le tante facce della crisi, le dinamiche del mercato del lavoro occupano un posto di primo piano. Ed è proprio dopo la crisi, come ha spiegato Clemente Pignatti (ILO) nella sua relazione, che si registra, a livello globale, un aumentato interesse per le riforme del mercato del lavoro tanto nelle economie avanzate che in quelle in via di sviluppo. Lo studio presentato da Pignatti ha l’obiettivo di catturare i trend globali nella relazione tra le riforme del mercato del lavoro, le loro determinanti e i loro effetti occupazionali. Il risultato, in estrema sintesi, somiglia a un paradosso: le fasi di crisi si presentano come i momenti più favorevoli per attuare di riforme configurandosi però anche nello stesso tempo come i momenti più rischiosi. Sono momenti favorevoli poiché la condizione di crisi facilita la creazione del consenso attorno alle riforme da implementare. Ma sono fasi rischiose poiché, come il ricercatore dell’ILO mette in luce, in quelle fasi maggiore flessibilità coincide con aumentata disoccupazione.

Un esempio concreto di questo paradosso può considerarsi il caso italiano come emerge dal lavoro presentato da Paolo Sestito (Banca d’Italia). La ricerca di Sestito si concentra su una regione italiana – il Veneto – e va ad identificare gli effetti delle politiche di incentivazione sulle assunzioni e dell’introduzione del contratto a tutele crescenti, il “cuore” del Jobs Act. Emerge che il 40 per cento dei nuovi contratti attivati con la riforma sono attribuibili alla politica di incentivazione fiscale e appena il 5 per cento è attribuibile al contratto a tutele crescenti. Emergerebbe, dunque, che più del 55% della nuova occupazione registrata nel 2015 è attribuibile al ciclo economico, il 40% alla già menzionata decontribuzione e solo un 5% al nuovo contratto esente dalla tutela ex art. 18.

I lavori presentati nella seconda sessione mattutina convergono su una valutazione poco confortante circa gli effetti e l’efficacia di Jobs Act e decontribuzione. I due interventi non sembrano essere riusciti nei loro intenti: aumentare un’occupazione stabile e di qualità, ridurre il dualismo del mercato del lavoro italiano e ridurre la precarietà. Una valutazione confermata dal paper prodotto proprio all’interno del progetto ISIGrowth da Dario Guarascio , Marta Fana e Valeria Cirillo (“Labour market reforms in Italy: evaluating the effects of the Jobs Act”). I dati sull’occupazione dei primi mesi del 2016 sembrano confermare che l’attivazione di nuovi contratti da parte delle imprese è stata la politica di sgravi fiscali. Più in generale: il lieve aumento dell’occupazione che si è registrato con il Jobs Act non risolve i dualismi – anagrafici, geografici e di genere – del mercato del lavoro italiano, mentre c’è il rischio concreto di facilitare l’involuzione della struttura produttiva continuando a incoraggiare la competitività di prezzo.

La domanda che si pone Michele Raitano (Università La Sapienza) è, invece, la seguente: “I dati ci dicono che il mercato del lavoro italiano era già flessibile prima dell’introduzione del Jobs Act, perché dunque introdurre ulteriore flessibilità?” Una domanda che non sembra trovare una convincente risposta. “L’incertezza che prima gravava sulle imprese, con il Jobs Act viene scaricata sul lavoratore”, sintetizza Lia Pacelli (Università di Torino). Pacelli sottolinea, inoltre, come un’eccessiva flessibilità possa avere effetti perversi su capitale umano e salute dei lavoratori: i dati mostrano, infatti, una significativa correlazione tra gli investimenti in capitale umano e la stabilità dei contratti. Questi studi evidenziano poi il legame positivo tra il grado di protezione garantito dai contratti e la salute sui luoghi di lavoro.

Gli effetti sociali della flessibilizzazione e della precarietà sono stati enfatizzati dai sociologi Devi Sacchetto ed Enrico Pugliese: entrambi hanno sottolineato la deludente performance del provvedimento legislativo, l’emergere di una preoccupante diseguaglianza sociale, dequalificazione delle mansioni e della struttura produttiva.

La mattinata di discussione organizzata dall’Istituto di Economia ha fornito, dunque, una insieme di preziosi elementi alla successiva discussione sulle possibili ricette di politica economica utili per stimolare l’occupazione e far ripartire la crescita. La discussione è si è sviluppata nell’ambito di una tavola rotonda moderata da Giovanni Dosi (direttore dell’Istituto di Economia) con gli interventi di Stefano Franchi (direttore generale di Federmeccanica) e Maurizio Landini (segretario generale della Fiom).

Il bilancio che del Jobs Act fa Stefano Franchi è un bilancio positivo: “La maggior parte delle nostre azienda ha assunto nuovi dipendenti proprio grazie ai benefici fiscali varati dal governo e alla loro combinazione con la leva normativa”. Il problema secondo Franchi risiede piuttosto nella cronica mancanza di politiche attive per il lavoro: “Solo quando ci saranno politiche attive a regime si potrà misurare l’efficacia del Jobs Act”.

Di opposto parere invece Maurizio Landini, secondo cui il Jobs Act “è una legge completamente sbagliata che non serve a tutelare maggiormente le persone né a fare ripartire l’economia”.

Una posizione intermedia è quella espressa dal giuslavorista Michele Tiraboschi, secondo il quale “il Jobs Act non è stato incisivo proprio nel suo obiettivo principale, quello di creare maggiore occupazione”. Secondo Tiraboschi però uno dei problemi è anche quello delle relazioni industriali: “Senza una riforma in questo senso non si faranno grandi passi avanti”.