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Il caos è qui. Intervista a Prem Shankar Jha

“Gli interventi di salvataggio erano necessari, ma i soldi non possono sostituire la politica”. Parla l’economista indiano autore de “Il caos prossimo venturo”

Studente di filosofia, politica ed economia ad Oxford, Prem Shankar Jha ha lavorato dal 1961 al 1966 a New York per le Nazioni Unite, per poi tornare in India, dove ha collaborato e diretto alcuni dei più importanti quotidiani indiani, fra cui l’Hindustan Times, il Times of India, l’Economic Times. Per quattro anni, dal 1986 al 1990, è stato il corrispondente dell’Economist dall’India, per poi diventare consulente del primo ministro V.P. Singh nel 1990. Già docente all’Università della Virginia, oggi è uno dei più autorevoli analisti e commentatori del subcontinente indiano. In italiano è stato tradotto Il caos prossimo venturo. Il capitalismo contemporaneo e la crisi delle nazioni (Neri Pozza, 2007).

Riportiamo qui una parte dell’intervista a Prem Shankar Jha pubblicata sul numero di febbraio della rivista Lo Straniero.

Prima ancora che come il prodotto degli eccessi o del “malfunzionamento” del sistema finanziario, sembra che per lei la crisi che ha investito le nostre economie vada interpretata, secondo una prospettiva più ampia e più allarmante, come uno dei sintomi del “caos sistemico”. E’ così?

Secondo la definizione di Giovanni Arrighi, c’è caos sistemico quando un sistema economico perde improvvisamente la capacità di rispondere con risposte equilibratrici agli shock esterni, che non possono più essere assorbiti e producono un caos sempre maggiore. La crisi è senz’altro una manifestazione del caos sistemico. Il caos è questo: non tanto la crisi finanziaria di per sé, quanto l’affermarsi di una condizione in base alla quale viene meno qualsiasi regola e, soprattutto, la stessa capacità del sistema nel suo complesso di rispondere autonomamente agli shock. Prima della crisi attuale, è bene ricordarlo, ci sono stati almeno quindici anni di deregolamentazione dei mercati finanziari, e trent’anni di deregolamentazione economica e industriale. Una deregulation talmente veloce da rendere l’intero funzionamento economico vulnerabile nei confronti dei suoi stessi eccessi. La crisi ne è il risultato. Si tratta, dunque, di un chiaro esempio di quali siano gli effetti della rimozione delle regole del vecchio capitalismo nazionale. Sin dal suo primo ciclo di espansione, il capitalismo infatti è stato sempre circondato e “trattenuto” da una rete di regole, politiche ed economiche, quella cornice che Braudel ha definito come “contenitore”. Nell’attuale fase di espansione, che corrisponde all’esplosione del “contenitore” dello stato-nazione, quelle regole vengono meno e non c’è ancora niente che le sostituisca. Il caos nasce dal fatto che ci troviamo in una fase di mezzo, in-between, ed è talmente grave da aver sollecitato la risposta combinata e senza precedenti delle banche europee e dei governi. Senza il pacchetto di salvataggio di trilioni di dollari sborsati dai governi europei e statunitense (senza contare il trilione e mezzo di dollari che la Cina ha deciso di iniettare nel proprio sistema economico), ci saremmo ritrovati in una situazione drammatica, la peggiore da decenni. Ecco, il caos economico è tutto questo. Ma investe anche la dimensione politica: anche il sistema politico mondiale infatti è nel caos.

Ne Il caos prossimo venturo lei sostiene che, come nei precedenti cicli di espansione del capitalismo, per regolare questa transizione sociale, economica e politica, avremmo bisogno di costruire un nuovo “contenitore” politico, questa volta di carattere globale, un’autorità sovranazionale sul modello del Commonwealth. Ci spiega meglio quali meccanismi dovrebbe seguire e quali regole promuovere, questo nuova autorità?

Gli interventi di governi e banche centrali erano necessari, ma i soldi non possono sostituire le funzioni che dovrebbero svolgere le strutture politiche. Per questo sostengo che ci sia bisogno, urgentemente, di un nuovo consenso globale, che si consolidi rapidamente attorno a due questioni fondamentali. La consapevolezza, da una parte, che non esistano soluzioni nazionali a problemi di natura globale; e dall’altra che le soluzioni globali debbano sempre più passare per una volontaria accettazione della limitazione della sovranità nazionale. In questo senso, la gravità della crisi attuale segnala anche un’inedita opportunità. Nel 2008 abbiamo toccato il fondo, o, per dirla altrimenti, l’apice del processo di intensificazione del caos sistemico, a livello politico ed economico. Ora alcuni indizi sembrano alludere a un nuovo orientamento, per quanto ancora incerto e revocabile, che punta verso la nascita di un consenso e di una governance globale. L’era delle singole sovranità è ormai terminata. La sovranità nazionale continuerà a esistere ancora a lungo, ma dovrà essere sempre più subordinata ai bisogni e alle esigenze del consenso globale. Il nuovo “contenitore” politico dovrebbe prendere la forma di un sistema globale di governi in grado di assumere decisioni rilevanti relative all’ambiente, al cambiamento climatico, alla nuova architettura economica, agli strumenti più idonei per garantire supporto ai più poveri al mondo, ai paesi più poveri del mondo e ai più poveri all’interno di ciascun paese. E dovrebbe fondarsi sull’assunto, consensuale, delle nostre reciproche e inalienabili responsabilità. L’idea del Commonwealth è proprio questa: un’associazione di stati sovrani, che riconoscano la necessità di cedere parte della propria sovranità – in misura uguale per ciascuno stato – a un’entità sovranazionale che non si oppone al processo di integrazione globale, ma piuttosto lo regola attraverso il consenso tra gli stati, che dovranno decidere proprio con quale ordine e quando cedere le proprie prerogative. Il processo di costituzione dell’Unione Europea, pur con tutte le sue debolezze, potrebbe funzionare da modello per costruire una simile istituzione globale. In alcuni settori stiamo procedendo in questa direzione: l’idea che i paesi meno sviluppati debbano godere di un trattamento speciale è già ampiamente diffusa, così come la convinzione che i diritti politici individuali contino più della sovranità statale. Per mettere in pratica queste idee, non c’è bisogno di creare una nuova istituzione. L’unica che possa operare in questo senso esiste già, le Nazioni Unite. Ma c’è bisogno che la base delle istituzioni di legittimazione diventi la più ampia e inclusiva possibile, che sia diversa da quella dell’attuale Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, con quattro membri rappresentativi di un’unica area del mondo, e del G8, che continua a mantenere un profilo così marcatamente europeo, sebbene l’Europa abbia smesso da tempo di essere il più rilevante attore politico mondiale. Sia il Consiglio di sicurezza che il G8 vanno ripensati sulla base di nuovi e diversi criteri di rappresentanza. Allo stesso tempo, sono convinto dell’importanza di istituzioni che si occupino di problemi regionali, una sorta di consigli regionali che siano rigidamente subordinati e direttamente collegati a un Consiglio di sicurezza rivisitato nella sua composizione, più inclusivo e rappresentativo, e che esprimano pareri sulle questioni regionali.

* da “Lo Straniero” (www.lostraniero.net), numero 116, febbraio 2010