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Il bilancio in rosso del governo Monti

A sette mesi dall’insediamento, il bilancio – anche economico – del governo Monti è negativo. E le prospettive future sono perfino peggiori. Occorre quanto prima adottare una visione sociale ed economica del tutto differente in grado di rilanciare le attività e l’occupazione e risanare i conti

Secondo le stime preliminari dell’Istat, il Pil del primo trimestre dell’anno è diminuito dell’0,8% rispetto ai tre mesi precedenti e dell’1,3% rispetto al corrispondente periodo dell’anno scorso. La caduta del prodotto è il risultato di fenomeni macroeconomici contrastanti: da un lato l’attività economica è stata alimentata dalla domanda estera, che ha portato a un aumento delle esportazioni del 4,5% rispetto all’anno precedente, e dalla domanda di sostituzione di prodotti importati con beni nazionali (il calo delle importazioni è stato pari a quasi l’11%, un dato superiore alla contrazione della domanda interna); dall’altro lato l’attività produttiva ha patito il crollo dei consumi e degli investimenti, diminuiti di oltre il 5% rispetto al 2011. Di conseguenza, malgrado la moderazione salariale, la disoccupazione ha continuato a crescere e la situazione di finanza pubblica, a dispetto dell’aumento delle imposte, non è migliorata. Unico elemento positivo è il saldo della bilancia commerciale con l’estero, tornato positivo; a partire da quest’anno l’interscambio di beni e servizi non contribuisce più al deflusso di risorse dal nostro Paese.

Secondo i dati pubblicati dal Dipartimento delle finanze del Ministero dell’Economia, nel primo trimestre le entrate fiscali sono aumentate di solo lo 0,7% rispetto all’anno precedente e sono diminuite del 6,2% nel mese di marzo; gli incassi relativi all’IVA sono addirittura diminuiti dello 0,1% nei tre mesi e dell’1,8% a marzo. Questi ultimi dati sono particolarmente sconfortanti perché costituiscono un indizio di una progressiva caduta della domanda, persino d’intensità superiore a quella stimata dall’Istat, tenuto conto che ci si sarebbe potuto attendere una crescita del gettito per effetto dell’inflazione (i prezzi sono saliti di oltre il 3%) e dell’aumento del carico fiscale con l’innalzamento dal 20 al 21% dell’aliquota base.

La situazione economica delle famiglie italiane va dunque peggiorando e si va diffondendo un sentimento di paura per il futuro, anche per effetto dei pesanti provvedimenti del governo; l’insicurezza sulle prospettive di reddito ha diminuito la propensione al consumo oltre la stessa riduzione della capacità di spesa.

Seguendo il modello greco, anche nel nostro paese si va creando un circolo vizioso in cui l’aumento della pressione fiscale fa cadere la domanda (e l’attività produttiva) che a sua volta contrae il gettito fiscale e contributivo. Questa spirale avversa sta allontanando la prospettiva di risanamento della finanza pubblica e accresce il pericolo che l’obiettivo di riduzione del rapporto tra debito pubblico e Pil non sia raggiunto neppure nel 2013.

Il peggioramento della situazione si è riflesso sui mercati finanziari, dove il rischio sui titoli pubblici italiani ha di nuovo ampiamento superato la soglia dei 400 punti base. Da ultimo, l’aumento della probabilità di ritorno alle monete nazionali nei paesi periferici dell’Eurozona si sta traducendo nell’aumento della preferenza dei cittadini a detenere risparmio sotto forma di contante in euro, con la prospettiva di forti prelievi dai conti bancari. In Italia, le politiche adottate volte a colpire il reddito e il potere dei lavoratori e del ceto medio in favore degli imprenditori e dei manager, sia dell’economia reale sia della finanza, oltre ad essere socialmente inique sono state economicamente irrealistiche: il risanamento dei conti pubblici non può essere raggiunto contando unicamente sul sostegno della domanda estera di beni prodotti avvalendosi di un bassissimo costo del lavoro.

Con la riforma delle pensioni è stata drasticamente ridotta la quota di reddito dei lavoratori procrastinata nel tempo; con l’aumento delle imposte tagliati i redditi disponibili; con la riforma del mercato del lavoro favoriti i licenziamenti. Al contempo sono state ridotte le imposte sul reddito delle imprese e concesse garanzie alle banche per ottenere credito dall’Eurosistema. Inoltre, non è stato preso alcun provvedimento per limitare gli eccessi nella corresponsione di stipendi e bonus dei manager sia delle banche che hanno beneficiato degli aiuti pubblici sia delle imprese non finanziarie a partecipazione pubblica. Non è stata nemmeno reintrodotta un’imposta “liberale” come quella di successione; il bollo sui capitali scudati è di ammontare risibile. Sono stati confermati gli inutili progetti infrastrutturali precedenti e non sono stati presentati programmi di sviluppo. I tagli alla spesa della politica non si sono materializzati.

A sette mesi dal suo insediamento, il bilancio, anche sotto il profilo economico, del governo del professor Monti, nato con i migliori auspici, la massima fiducia dei cittadini e in concomitanza all’ingente immissione di liquidità da parte della Banca Centrale Europea, è per ora negativo. Le prospettive sono persino peggiori: il drammatico calo della domanda interna è la conseguenza dell’azione distributiva operata in senso sfavorevole ai lavoratori e alle classi meno abbienti.

Occorre quanto prima adottare una visione sociale ed economica del tutto differente in grado di rilanciare le attività e l’occupazione e risanare i conti. La vittoria di Hollande in Francia dischiude una prospettiva di trasformazione economica e sociale che probabilmente rappresenta l’ultima possibilità per l’Europa di evitare lo spettro della disgregazione e dei fallimenti a catena. La crisi richiede risposte di alto profilo sul processo di produzione e distribuzione delle ore lavorate e del reddito, sul ruolo della finanza nel riallocare le risorse nel tempo e tra settori, aree, persone.

Più in generale è necessaria una riflessione sulla funzione del mercato e dello stato in un mondo in cui lo sviluppo delle forze produttive rende potenzialmente sovrabbondante la disponibilità di ogni bene rispetto ai bisogni individuali. Occorre interrogarsi su come si può conciliare il valore, negli ultimi decenni intoccabile, della proprietà individuale con il più alto valore del benessere di una collettività di persone.

Questo articolo è uscito anche su “il manifesto” del 24 maggio