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I ritardi Ue su chip e agroalimentare

L’Ue ha recentemente varato il progetto European Chip Act, 43 miliardi di euro per portare la produzione di chip dal 9 al 20% della produzione mondiale entro il 2030. Ma i ritardi in un mercato ormai integrato e dominato da Cina e Usa, è troppo forte. Si dovrebbe puntare sulle eccellenze. Analogamente all’agroalimentare.

E’ ormai da molto tempo che appare largamente diffusa, non a torto, la sensazione che il sistema economico dell’Ue e dei paesi che ne fanno parte riesca con sempre maggiore difficoltà a reggere l’urto concorrenziale dei due grandi blocchi che tendono a spartirsi una fetta sempre più importante della torta globale, la Cina e l’Asia da una parte, gli Stati Uniti nell’altra. Le ragioni di questa situazione sono molto complesse e toccano non solo il piano economico, ma anche quello politico e questo a vari livelli. Con questo scritto non pretendiamo, certo, analizzare esaurientemente la questione, ma almeno indicarne alcuni aspetti importanti.   

Di seguito ricordiamo, a questo proposito, due casi “estremi”, da una parte quello dei semiconduttori, il settore di punta dell’industria mondiale, dall’altra quello dell’agricoltura, sorprendentemente collocanti per quanto riguarda il nostro continente sempre più marginalmente nello scacchiere mondiale.    

Il progetto UE sui chip e la demondializzazione difficile

C’è stato un periodo, durato molto a lungo, nel quale anche solo al pronunciare nei dintorni di Bruxelles l’espressione “politica industriale” i responsabili dell’istituzione comunitaria avrebbero messo mano alla pistola. Poi, qualche anno fa, i fanatici del libero mercato si sono dovuti arrendere all’evidenza: gli Stati Uniti e la Cina avevano conquistato quasi tutte le posizioni nelle tecnologie avanzate. All’assenza da lunga data nella UE di iniziative per contribuire a sviluppare business nuovi si sono aggiunte le difficoltà suscitate dal Covid e dalle relative rotture nelle catene di fornitura, che hanno spinto ancora di più a ripensare in chiave positiva persino la questione degli aiuti di Stato, sino a ieri anatema. 

Ecco che, sotto la spinta di Berlino e di Parigi – con l’Italia come sempre distratta da cose certamente più serie -, seppellendo finalmente alcuni dei principi fondanti della stessa UE, si sono varate alcune iniziative in varie direzioni. Ora è la volta del settore dei chip. Nei giorni scorsi a Bruxelles, dopo analoghi piani posti in essere da Cina e Stati Uniti, è stato annunciato il progetto di un “European Chip Act”, con il quale rilanciare la ricerca e la produzione di semiconduttori, con l’obiettivo di più che raddoppiare entro il 2030 la quota comunitaria nella produzione mondiale, passando dal 9% attuale al 20%. A tal fine si pensa di mobilitare 43 miliardi di euro, di cui circa 15 miliardi di fondi freschi e per il resto utilizzando risorse dei singoli paesi e delle imprese, anche con l’ausilio del Recovery plan.  

L’aria trionfale con cui Ursula von der Leyen ha annunciato il varo del progetto lascia dubbiosi per diverse ragioni. Nessun paese controlla oggi l’intera catena di produzione di un semiconduttore, che appare mondializzata. Seguendo uno schema di Le Monde del 9 febbraio, da noi un poco arricchito, possiamo dire che è facile che un nuovo chip venga progettato negli Usa, su un’architettura della britannica ARM, che le materie prime vengano dalla Cina, che la produzione relativa sia effettuata a Taiwan o in Corea del Sud, su macchine dell’olandese ASML, che la stessa produzione venga poi assemblata in Malaysia, con i gas speciali necessari inviati dal Giappone; essa sarà poi collocata soprattutto in Cina o in Asia, continente che controlla il 70% del mercato mondiale, con la Cina da sola intorno al 60%. Un miracolo della globalizzazione. Ricordiamo ancora che le macchine della ASML sono composte da 50.000 pezzi, con circa 5.000 fornitori di molti paesi. Ora, il tentativo di demondializzazione del settore, dell’unicuique suum, varato da Cina, Usa e UE sarebbe un grande passo indietro e non appare una decisione razionale, né veramente alla fine fattibile in particolare con le deboli forze del nostro continente.

Ricordiamo incidentalmente che l’iniziativa per la rottura dei processi di mondializzazione del settore viene in particolare dagli Stati Uniti, con i crescenti divieti ad esportare verso la Cina i chip avanzati e le tecnologie produttive relative e in particolare con il tentativo di blocco dello sviluppo tecnologico di Huawei, oltre che con il piano di sviluppo nella produzione di semiconduttori in patria. Si sta così cercando di bloccare una, tutto sommato, mondializzazione “felice”, che aveva portato, con il tempo, alla crescita rilevante del peso dei paesi asiatici, prima molto arretrati nella struttura della filiera complessiva del settore.     

In Europa si potrebbe pensare ad una strategia alternativa rispetto a quella messa in cantiere, che, senza voler coprire l’intera gamma delle attività nel settore, si concentrasse sul rafforzamento delle imprese esistenti e dei loro punti di eccellenza. Va ricordato, a questo proposito, il ridotto peso attuale della produzione europea, con le aziende di qualche importanza che si possono contare sulle dita di una mano e con nessuna di esse, tranne la ASML, con una posizione di grande rilievo sul mercato mondiale. Esse non provano neanche a competere con i grandi attori asiatici e con gli Usa, ma si limitano a rifornire alcuni comparti che richiedono prodotti meno sofisticati. Al contrario entrare in settori nuovi, saldamente presidiati da altri, sembra impresa complicata. L’UE ha uno svantaggio di costi rispetto ai produttori asiatici, mentre i lunghi tempi decisionali di Bruxelles non sono molto compatibili in un settore che ha bisogno di grande rapidità di decisioni.     

D’altro canto, il mercato mondiale dei chip era nel 2021, secondo una fonte (altre danno valori un poco differenti), pari a 440 miliardi di euro e dovrebbe arrivare a più di 900 nel 2030. Dato che ogni miliardo di fatturato in più necessita oggi all’incirca di un miliardo di nuovi investimenti, per ottenere una quota del 20% delle vendite mondiali bisognerebbe investire più o meno 150 miliardi nelle nuove attività, oltre alle somme necessarie per la manutenzione dell’esistente. Sarebbero da costruire diverse decine di nuove fabbriche. Un compito fuori portata, mentre già sullo stanziamento di 43 miliardi ci sono grandi discussioni (qualcuno vorrebbe persino spendere di meno) e non è detto che si riuscirà a mobilitare una tale somma. Ma per chi paga poco, la messa è breve.

Non essendo poi le imprese del continente capaci di raccogliere del tutto tale sfida, siamo obbligati a chiedere agli americani e agli asiatici, da Intel a TSMC, coprendoli di denaro, perché investano da noi, aprendo loro ulteriormente il mercato UE.

Le iniziative descritte, pur essendo positive, sono a nostro parere mal concepite e largamente insufficienti, arrivando in netto ritardo. L’Asia e gli Stati Uniti appaiono sempre lontani all’orizzonte.

L’Europa come colonia agricola? 

I problemi dell’UE non si limitano ai settori avanzati. Riguardano anche aree più tradizionali e nelle quali si pensava che i paesi della UE presentassero posizioni di grande rilievo sui mercati mondiali. 

Un gruppo di ricercatori francesi di recente ha analizzato l’apparente paradosso di un’Europa diventata una vera e propria colonia agricola (Allaire ed altri, 2022). La commissione di Bruxelles, affermano i ricercatori autori dello scritto, attraverso la politica agricola comune sovvenziona in maniera massiccia una produzione di grandi culture di cereali e di oleaginose destinate in gran parte all’alimentazione animale. Per la produzione relativa si utilizzano dei prodotti chimici e meccanici, dal petrolio alle sementi, al software, provenienti dai paesi extraeuropei i più vari; la gran parte delle aziende agricole è meccanizzata e occupa pochi addetti, mentre le produzioni sono in gran parte a debole valore aggiunto e le lavorazioni lasciano qua e là una falda freatica inquinata e suoli super sfruttati. Una parte crescente delle produzioni ottenute viene esportata verso paesi come la Cina, mentre la stessa Europa acquista dal paese asiatico in misura crescente produzioni industriali a rilevante valore aggiunto. Si tratta chiaramente di uno scambio ineguale: per la prima volta, e forse era l’ora, l’Europa mantiene in piedi uno scambio ineguale a lei sfavorevole. Il mondo gira… Il nostro continente appare così sempre più integrato nell’ordine economico est-asiatico, affermano ancora gli autori della ricerca. 

Ora, lo scritto appare esagerato su qualche conclusione, ma nella sostanza ci sembra che fotografi in maniera abbastanza adeguata una situazione non certo brillante.

Conclusioni

Il quadro dei settori descritti nel testo non appare particolarmente favorevole e non sembra neanche suscettibile di grandi miglioramenti a breve termine. Bisogna ricordare che esistono diversi settori dell’economia della UE che presentano una situazione più confortante rispetto a quella dei chip e delle produzioni agricole, comunque l’analisi contribuisce a suggerire la loro fragilità potenziale. Pensiamo soltanto a quella dell’automotive, campo nel quale il continente europeo presenta ancora punti di eccellenza importanti, ma che minacciano di essere anch’essi fortemente erosi dalla concorrenza extraeuropea, in particolare di Cina e Stati Uniti (in quest’ultimo caso con Tesla in particolare), appoggiandosi in particolare sui mutamenti tecnologici in atto e sulla nostra lentezza, e per altri versi sulla scarsa capacità di reazione. Potremmo ancora citare il caso delle società di telecomunicazioni, una volta attori fondamentali del quadro economico continentale e ora ridotte per la gran parte a fantasmi di loro stesse, vittime dell’evoluzione tecnologica, ma anche delle loro stesse azioni e inazioni.   

Testo citato nell’articolo

-Allaire G. ed altri, Pourquoi l’Europe est une colonie agricole, Le Monde, 9-10 gennaio 2022