Per superare la crisi economica non basta solo abbandonare le politiche di austerità, bisogna ripensare il ruolo dello Stato. Presentati a Roma i risultati del progetto europeo ISIGrowth
“Non serve uno Stato che si limiti solo a correggere i problemi, ma uno Stato che abbia anche una visione del mondo e che investa. In poche parole, uno Stato Innovatore”. Parola di Marianna Mazzucato, autrice del libro Lo Stato Innovatore e docente di Economia dell’Innovazione presso l’Università del Sussex.
Mazzucato è anche ricercatrice del progetto europeo ISIGrowth, presentato mercoledì 24 maggio nel corso di una conferenza organizzata alla Camera dei Deputati insieme a Giovanni Dosi, direttore dell’Istituto di Economia della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa e coordinatore del progetto. A discutere i dati, dopo la loro presentazione, è stata una nutrita platea di deputati e senatori.
L’obiettivo di ISIGrowth è duplice: in primo luogo, fornire una nuova e completa diagnostica dei rapporti tra innovazione, dinamiche dell’occupazione e crescita in un’economia mondiale sempre più globalizzata e finanziarizzata. In secondo luogo, ISIGrowth mira a elaborare scenari politici e strumenti di analisi per raggiungere gli obiettivi di Europa 2020 di una crescita intelligente (smart), sostenibile (sustainable) e inclusiva (inclusive).
Sul banco degli imputati le politiche di austerità e quelle di flessibilizzazione del mercato del lavoro. Misure che, secondo Dosi, “aggravano la crisi, deprimono la crescita e aumentano la fragilità economica insieme a diseguaglianze e povertà”. Due veleni che per l’economista vengono erroneamente e colpevolmente considerati come antidoti: da Bruxelles e, ancor di più, da Berlino.
In particolare, per Dosi le politiche di austerity contribuiscono ad aumentare il rapporto debito/Pil, non a diminuirlo: “in presenza di disoccupazione, il moltiplicatore prevede che un’unità di spesa produca 2 punti in più sul Pil”. Ma supponendo che “ci siano 100 euro di debito e 100 di Pil, se seguiamo Schauble e tagliamo le spese di 1, avremo sì 99 di debito, ma anche una corrispettiva caduta del Pil di 2 punti: il rapporto debito/Pil quindi aumenta. Se avessimo incrementato la spesa”, conclude il docente, “avremmo invece diminuito quel rapporto”. L’austerità è quindi dannosa per la crescita, e non è altro che un mantra religioso. E religiosa è la connotazione della parola debito in tedesco – schulde – che può assumere tra i suoi significati quello di “colpa”.
Anche la flessibilizzazione del mercato del lavoro è deleteria. O al massimo ininfluente. Come lo è stato il Jobs Act, costato alle finanze dello Stato circa 17 miliardi di euro, ovvero “la stima del costo annuale del reddito di cittadinanza”.
E allora cosa fare? Innanzitutto “rottamare” il Jobs Act. Poi, non rinnovare il Fiscal Compact, che impone l’obbligo del pareggio di bilancio agli Stati europei – e che in Italia è stato addirittura inserito all’interno della Costituzione. Una misura che risale, ricorda Dosi, agli Stati Uniti del dopo rivoluzione e in particolare ad Alexander Hamilton, allora segretario del Tesoro dell’Amministrazione Washington. Un provvedimento che prevedeva sicuramente un freno all’indebitamento degli Stati, ma che prefigurava anche il pagamento dei debiti pregressi di tutti gli Stati da parte del Governo federale. Da noi, invece, solamente la prima parte è stata applicata.
Serve inoltre un nuovo Istituto di Ricostruzione Industriale (Iri), meccanismo pensato negli anni ’30 per salvare il Paese dal crollo del sistema creditizio. L’Iri si espanse negli anni successivi alla seconda guerra mondiale e arrivò attraverso il sistema delle partecipazioni statali a inglobare molti settori industriali. Buona parte delle aziende pubbliche furono poi privatizzate all’inizio degli anni ’90, mentre le restanti furono smembrate e l’Iri cessò la propria esistenza. “L’Italia non si sarebbe industrializzata nel dopoguerra senza l’Iri, né avrebbe sviluppato i comparti legati alla siderurgia e agli idrocarburi”, afferma il docente. Infine, servono “tasse che colpiscano il top 1% della ricchezza nel nostro Paese” oltre a un’imposta sulle transizioni finanziarie per ridisegnare il welfare e creare misure di sostegno al reddito più strutturali, anziché “misure spot come gli 80 euro di Renzi” conclude Dosi.
Secondo Marianna Mazzucato, fermare le politiche di austerità “è necessario, ma non è sufficiente”. Quello che serve è anche orientare nella giusta maniera gli investimenti.
Negli anni ’90 i Paesi europei e occidenatali hanno sperimentato un periodo di crescita sostenuta. Era una crescita però “sbagliata” e drogata. Negli Usa, ad esempio, era trainata dal debito privato: i cittadini si indebitavano per mantenere alto il proprio stile di vita, mentre i salari erano fermi dagli anni ’70.
Ma chi porta avanti queste politiche? Mazzucato non ha dubbi: è soprattutto lo Stato che deve avere un ruolo attivo nel promuovere questa visione di crescita. Quello Stato che spesso è visto come “un impedimento burocratico” alle dinamiche di mercato, un organismo estraneo di cui deve essere limitata la portata. Che può al massimo intervenire per frenare una grave crisi di disoccupazione o una recessione. Mazzucato poi cita Keynes: lo Stato deve fare quello che non sta avvenendo nella società, imprimere una propria visione al mondo. In poche parole, l’ispiratore del New Deal stava anticipando proprio l’idea dello Stato imprenditore, mission oriented: quella di un soggetto attivo che riesca a immaginare un futuro diverso e a indirizzare la propria azione in maniera che questo divenga realtà.
Secondo Mazzucato, esempio di Stato innovatore non sono le democrazie del Nord Europa, bensì gli Stati Uniti: nonostante la potenza americana sia sempre stata considerata come patria del liberismo economico, in realtà se si analizza a fondo la questione possiamo vedere come lì lo Stato abbia avuto un ruolo di primo piano in diversi settori come le biotecnologie, in cui gli Usa investono oltre 32 miliardi di dollari l’anno. E lo stesso discorso vale per la Silicon Valley: Internet o ARPAnet non sarebbero nate senza la mano del Governo statunitense. E nemmeno l’atteraggio sulla Luna, visto che l’indotto produttivo che ruotava attorno al programma Apollo coinvolse molti settori produttivi – anche lo stesso tessile, per via delle tute spaziali utilizzate – contribuendo al loro sviluppo e alla loro innovazione.
Il tessuto produttivo italiano, invece, è composto perlopiù da piccole e medie imprese che difficilmente investono in ricerca e sviluppo. E Mazzucato ricorda che anche per quelle poche Pmi che vorrebbero innovare – il 5% o 6% – è molto difficile capire dove andare a sbattere la testa. Per venirne a capo, secondo la docente dell’Università del Sussex servono programmi di coinvestimento, meccansimi che siano in grado di far inteagire le imprese private con il settore pubblico.
In tal senso, il peccato originario del nostro Paese risale agli anni ’80, quando furono esternalizzati molti dei servizi che offriva lo Stato a enti o agenzie private; la scusa era quella che “il privato è efficiente, il pubblico no”. Ma l’evidenza non lo ha dimostrato, e ora questa idea è entrata in crisi anche presso coloro i quali sono stati per anni gli sponsor dei processi di outsourcing e deregulation, come il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale.
Negli ultimi anni c’è stata una profonda contraddizione anche in Europa: mentre imponevano tagli e politiche di contenimento dei bilanci ai Paesi del Sud Europa, quelli del Nord e soprattutto la Germania investivano – attraverso le loro banche completamente pubbliche – nella ricerca di base e applicata, creando network e partnership tra Stato e imprese. Così, poco dopo lo scoppio della crisi del 2008 la banca pubblica tedesca ha fortemente aumentato i propri prestiti alle imprese che volevano investire, mentre le banche private si tiravano indietro.
Sono i Pigs semmai ad aver investito poco. O male. Questo è avvenuto in particolare per quanto riguarda gli investimenti di lungo periodo, i quali aumentano una produttività che in Italia non cresce da vent’anni, ben prima dell’adozione dell’euro.
C’è poi il discorso legato alle energie rinnovabili: l’Italia, per la sua posizione e il clima, è in una posizione assolutamente privilegiata per la valorizzazione di queste risorse, ma si limita a elargire qualche sussidio a pioggia. In Danimarca avviene il contrario: oggi non solo è il Paese che investe di più in green economy, ma anche quello che più vende alla Cina, enorme mercato per i servizi verdi. Politiche industriali intelligenti e lungimiranti, che richiedono però investimenti che ai Paesi “spendaccioni” e poco “virtuosi” del Sud Europa non sono consentiti. Citofonare Bruxelles e Francoforte.