Dall’amore alla religione, dal lavoro allo sport, un libro ricostruisce la mappa dei nostri investimenti e delle nostre aspettative di felicità. E smonta stereotipi e luoghi comuni
Si potrebbe pensare che questo sia l’ennesimo libro sulla felicità. Fornito magari, come tanti altri che abbondano con aria ammiccante sugli scaffali delle librerie, di istruzioni per l’uso e di improvvisate perle di saggezza, per attrarre lettori frettolosi e distratti elargendo consigli, più o meno low cost, per vivere meglio. Ma non è così.
Questo libro è il risultato di un lungo lavoro collettivo che si è svolto per più di tre anni, coinvolgendo un nutrito gruppo di filosofi, decisi a misurarsi con un tema cruciale e allo stesso tempo immenso e sfuggente come la felicità. Un gruppo di persone appartenenti a generazioni diverse e dunque inevitabilmente portatrici di prospettive differenti che si sono intrecciate, e a volte scontrate, in uno spazio di discussione ospitale e il più possibile libero da pregiudizi, ma non ecumenicamente orientato all’intesa. Il punto di vista dei più giovani, in particolare, ha avuto spesso il merito di creare salutari effetti di spaesamento, snidando stereotipi e costringendo tutti gli altri a rivedere convinzioni sedimentate. Si è trattato, insomma, di una rara esperienza di cooperazione che ha sfidato anche le gerarchie accademiche presenti nel gruppo e accolto spontaneamente la necessità dei tempi lenti del pensiero.
Non è stato facile delimitare l’oggetto. Ma è apparsa fin dall’inizio piuttosto chiara la domanda alla quale volevamo provare a dare una risposta: sottraendoci da un lato, come già premesso, alla futilità di formule del tipo “come si fa ad essere felici?”, dall’altro alla pesantezza di interrogativi ben più impegnativi, dal sapore pericolosamente metafisico, del tipo “che cos’è la felicità?”. Inafferrabile per definizione, la felicità mette, infatti, alla prova chiunque voglia chiuderla all’interno di presunti parametri oggettivi, facendo soprattutto traballare la tendenza dei filosofi a costruire griglie sistematiche e rassicuranti; e si impone, a chiunque si illuda di afferrarne l’essenza, con la forza provocatoria di ciò che è squisitamente soggettivo, molteplice, contingente. Se provassimo a cercare un’immagine, capace di rappresentarla più e meglio di ogni teoria, potremmo forse evocare quella di un prisma, le cui facce, pur formando insieme la figura intera, assumono una diversa sfumatura di colore a seconda della luce che si riflette su ciascuna di esse.
Un tema scomodo, dunque, se lo prendiamo sul serio; per affrontare il quale è bene rifuggire da definizioni universali, per porre piuttosto l’unica domanda che appare sensata: “dove la cerchiamo, la felicità”? Una domanda, tuttavia, che in sé non è affatto esente da un ulteriore senso di disorientamento, a meno di non inserirla all’interno di un contesto, precisando di volta in volta chi ne è lo specifico soggetto. Per questo abbiamo scelto di concentrarci sugli italiani. Ci è sembrato, infatti, che, a parte qualche articolo giornalistico e le chiacchiere dei talk shows, o, nel migliore dei casi, i freddi resoconti statistici dei rapporti Censis, non fosse oggi disponibile una qualche riflessione, degna di questo nome, sulla felicità degli italiani: sui loro desideri e i loro obiettivi di vita buona, le loro preferenze e le loro delusioni, i loro miti e le loro illusioni.
La domanda che ha guidato il nostro percorso è quindi diventata: “dove la cercano, gli italiani, la felicità?”; in quali sfere della vita e a partire da quali aspettative? E, soprattutto, in quali esperienze? Può forse apparire riduttivo legare l’idea di felicità alla dimensione, puntuale e concreta, dell’esperienza. Siamo infatti abituati a investirla di un’aura ben più alta e sublime. Come eredi dell’Illuminismo aspiriamo ad essa come ad una condizione duratura, ad uno stato permanente nel quale trovare la realizzazione di una vita; come eredi del Romanticismo, ma la identifichiamo con istanti fugaci e compiuti di transitorio e intenso appagamento. Eppure, ciò che si consuma, mentre ci dibattiamo tra queste due immagini archetipiche nelle quali si riassume, in modo evidentemente opposto e ambivalente, la nostra visione ideale della felicità, è la dimensione dell’esperienza: imprevedibile, a tratti sorprendente, e infinitamente più ricca di qualsiasi immagine ideale.
In quali esperienze, allora, gli italiani ripongono oggi le loro speranze di felicità? A partire da un prolungato confronto con la realtà – che ha coinciso largamente, è bene precisarlo, con gli anni della crisi -, abbiamo provato a selezionare alcuni squarci significativi per confezionare una sorta di campionario, non certo esaustivo ma auspicabilmente rappresentativo. Dall’amore alla religione, dalla moda alla politica, dal cibo allo smartphone, dalla casa agli psicofarmaci, dal lavoro allo sport, e non solo, il libro offre un ventaglio dei nostri investimenti e delle nostre aspettative di felicità: uno scenario che si rivela a volte non privo di sorprese e dissonante rispetto ad immagini stereotipate e luoghi comuni.
L’amore, la casa, il lavoro si confermano, per certi aspetti, come ambiti di appagamento e di indiscutibile realizzazione, ma si colorano anche di tonalità ambivalenti e si trasformano a causa di quella perdita di futuro che caratterizza il nostro tempo. Emergono inoltre esperienze meno consuete: felicità che consideriamo futili, come i luccichii della moda o il mito di un successo facile e immediato; felicità che inquietano, come il crescente consumo di psicofarmaci, la dipendenza dal telefonino o l’ebbrezza violenta degli ultras. Possiamo senza dubbio manifestare disagio o ferma disapprovazione verso questi fenomeni, ma non possiamo esimerci dallo sforzo di capire quale tipo di soggettività si cela dietro queste aspettative di appagamento senza liquidarle frettolosamente come forme di felicità negative o viziose. Si riconfermano, d’altra parte, forme di felicità che consideriamo virtuose, come quelle che ancor oggi cerchiamo nel cibo o in gesti che ravvivano l’immagine, per altri versi scolorita e usurata, degli italiani “brava gente”: il piacere che scaturisce dalla generosità, la serenità di una scelta di vita in armonia con la natura, la soddisfazione dell’impegno civile.
È legittimo, insomma, stupirsi o indignarsi, sentirsi in sintonia o in assoluta dissonanza, approvare o disapprovare le diverse esperienze di felicità. È legittimo detestare i nostri connazionali o empatizzare con loro rinnovando il sentimento dell’appartenenza. Certo è che la felicità non è un concetto morale (e tantomeno moralistico), ma un luogo simbolico capace di rivelare, forse più di molti altri, la condizione di una data società, il suo stato di salute o di crisi, le complesse trasformazioni della soggettività, non necessariamente positive, che avvengono sotto i nostri occhi.
Il testo pubblicato costituisce l’introduzione del volume “Felicità italiane. Un campionario filosofico”, a cura di Dimitri D’Andrea, Enrico Donaggio, Elena Pulcini, Gabriella Turnaturi,edizioni Il Mulino, 218 pp.