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Europa, c’è una politica dopo la Grecia?

La vicenda greca dimostra che, al momento e in una prospettiva non breve, non esiste alcuno spazio per una politica alternativa all’austerità in grado di fronteggiare le difficoltà che essa stessa sta producendo

greece

Lo sviluppo e la conclusione della “vicenda greca” sollecitano un aggiornamento nella valutazione della politica economica europea; se, nelle sue linee essenziali, nulla di nuovo si è aggiunto a quanto già si sapeva sul suo orientamento e sul vincolo che l’euro impone, nondimeno si è registrata una netta cesura rispetto al passato per quanto riguarda la percezione di quanto tale politica possa registrare un riorientamento nel prossimo futuro.
Un giudizio che appare giustificato da quanto registrato nel corso del confronto Europa-Grecia, in merito al quale vorrei sottolineare, molto brevemente, alcuni aspetti con riferimento alle tre dimensioni – economica, istituzionale, culturale – che solidalmente determinano la struttura e la dinamica di ogni sistema economico e sociale.
Per quanto riguarda la dimensione economica,la vicenda greca dimostra che, al momento e in una prospettiva non breve, non esiste alcuno spazio tra Memorandum e (Gr)Exit per una politica alternativa all’austerità in grado di fronteggiare le difficoltà che essa stessa sta producendo a livello sociale.
Le proposte per introdurre elementi di flessibilità nella politica economica europea si sono scontrate con una visione programmatica (di stampo realisticamente conservatore) che ha come priorità la costruzione e il rafforzamento di un’Europa capace di difendersi attivamente nel processo di globalizzazione conflittuale. Un’economia di difesa aggressiva, export-led che richiede disciplina, coesione e adesione intima da parte dei diversi paesi e non ammette defezioni.
Ne consegue che, nella misura in cui ogni paese (area) dell’Unione deve contare su se stesso per recuperare la necessaria competitività, è la sfera del welfare (nazionale) a funzionare da cuscinetto nel processo di adattamento. Naturalmente l’aggiustamento sociale è tanto più pesante quanto più debole è il paese (area) dal punto di vista competitivo e dei conti pubblici.
La fermezza schaubliana, quasi militaresca, sul rispetto delle regole è l’altra faccia della messa tra parentesi – per un tempo non breve – della difesa di quel modello sociale europeo che è stato il tratto qualificante dell’adesione all’Unione.

Due considerazioni al margine. La prima è che questa politica economica non sembra ammettere altre “riforme” che non siano quelle che la rafforzano. La seconda è che interpretarla come il “modello germanico” non coglie l’intera verità e si corre il rischio di occultare che essa è l’espressione di una visione politica che coinvolge l’intera classe dirigente europea: si è ben oltre all’imperialismo tedesco.

L’ultima considerazione ci riporta alla seconda dimensione, quella istituzionale. È ovvio che per far funzionare un sistema politico occorrono istituzioni in grado di garantire che tutti svolgano il proprio ruolo con efficacia; a questo riguardo, l’attuale modello export-led ha a sua disposizione un complesso istituzionale coerente ed efficiente.
La Troika ne è l’esempio, non solo per l’intreccio tra soggetti interni e esterni (FMI) all’Europa, ma per l’esteso e complesso apparato tecnocratico (di Bruxelles e Francoforte) che ne sostiene il ruolo disciplinatore che, secondo il documento dei cinque Presidenti del 22 giugno (“Completare l’Unione economica e monetaria dell’Europa” ), è in via di rafforzamento.
È un complesso istituzionale pesante al quale è affidato il compito di articolare la strategia, di fornire l’organizzazione e di gestire l’intervento nei momenti appropriati. Non solo costituisce un potente strumento di controllo e di costrizione delle scelte nazionali dall’esterno, ma sfrutta il supporto di strutture e personale di analoga formazione interna ai singoli paesi, come ha dimostrato l’esperienza di Syriza al governo.
Più specificamente, il ruolo strutturale della tecnocrazia è apparso evidente quando i politici, chiusi a qualsiasi confronto sulle proposte greche, hanno completamente delegato ad essa la definizione delle condizioni del Memorandum. Ma ancor più significativo dal punto di vista istituzionale è il formarsi di un blocco decisivo di paesi “intransigenti”, sedicentesi maggioranza pro-austerità (maggioranza di governi, non necessariamente maggioranza del popolo europeo), con l’esplicito obiettivo di filtrare qualsiasi tentativo di trasformazione delle possibili politiche future in senso sociale e democratico. In presenza di un orientamento conservatore nella costruzione della società europea, desta meraviglia la debolezza, se non l’assenza, di una pressione per far valere nella trattativa una prospettiva socialdemocratica, quasi che la socialdemocrazia (ingabbiata nelle Große Koalition conservatrici) abbia del tutto esaurito ogni spinta propulsiva.
Infine, la dimensione culturale della politica europea: al potere di coercizione delle istituzioni si associa un consenso non minoritario nei confronti della sua “visione” sociale.
Il fatto che, pur nelle condizioni drammatiche, il referendum della Grecia abbia espresso una minoranza (non marginale) della popolazione che ritiene “accettabili” le condizioni europee, costringe a dover tener conto che qualsiasi alternativa alle politiche attuali deve confrontarsi con un fronte sociale “interno” (di interessi e di valori) che gode del sostegno dei poteri forti “esterni” (attraverso quelli mediatici, in particolare).
A questo riguardo, ha pesato la presenza nella popolazione di un diffuso “senso comune” che, nonostante la crisi, la difesa del proprio benessere dipende dall’Europa, dalle regole dell’Euro. Un consenso fondato sulla paura di perdere ciò che si riteneva acquisito (a ovest) o ciò che si pensa di ottenere (a est) sembra essere alla base dell’accettazione dell’austerità come unica prospettiva in grado di mettere ordine nella realtà esistente e di fornire certezze di un futuro meno insicuro.
Si è in presenza di una cultura egemone che, sollecitando un senso di potenza in alcuni popoli e un senso di colpa in altri, rinchiude le prospettive degli strati sociali subalterni nello stretto ambito nazionale. Mentre, nella lunga trattativa con la Grecia, le classi dirigenti si sono mosse sulla base di un progetto che non ha confini nazionali, la mobilitazione popolare internazionale a favore della Grecia è stata debole e dispersa. Un aspetto che non dovrebbe essere trascurato da chi si batte per accelerare rotture istituzionali dell’esistente.
Certamente gli squilibri che le politiche attuali generano nella distribuzione del reddito e del potere (con le correlate disuguaglianze e povertà) possono, alla lunga, compromettere la capacità degli strumenti di governo di assorbire le tensioni sociali e indurre una crisi di questo modello egemonico. Non si deve tuttavia sottovalutare, e dev’essere motivo di attenzione, la duttilità di questo capitalismo nell’adeguare le forme di coercizione-consenso a un a mutamento radicale della domanda sociale.
Nella misura in cui valgono le precedenti considerazioni, l’attuale politica (economica) europea si presenta come una realtà strutturata nonfacilmente riformabile in senso alternativo. Ipotesi di interventi settoriali per parziali trasformazioni economiche e istituzionali, per quanto idealmente apprezzabili e teoricamente realizzabili, si scontrano nell’immediato con l’incomprensione del corpo sociale e con i dinieghi del soggetto politico che dovrebbe realizzarle.
Lungi dal concludere che sia sterile un impegno culturale intellettuale e pragmatico per la costruzione di un’auspicabile prospettiva democratica e progressiva, il quadro tratteggiato segnala che qualsiasi volontà che intenda contrapporsi al deperimento dei valori collettivi e al peggioramento delle condizioni di vita di ampi strati sociali deve svilupparsi ad ampio raggio, deve aggredire simultaneamente tutte e tre le dimensioni.
Il più esteso campo di azione impone di specificare in maniera più essenziale e più cruciale gli obiettivi prioritari che vanno centrati sui bisogni fondamentali (quali lavoro, sicurezza del futuro, partecipazione democratica) e che devono coinvolgere in maniera trasversale ampie fasce sociali in una loro ricomposizione politica (anche e soprattutto sovranazionale) al fine di riprendere in maniera radicale la realizzazione di quelle prospettive di civiltà che il modello conservatore di società (e il campo socialdemocratico) ha messo forzatamente in archivio.