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Europa, alla ricerca del sesto scenario

Il documento di Jean-Claude Juncker propone 5 scenari alternativi per l’Unione Europea. Ma ora più che mai è necessario mettere in campo un altro scenario, radicalmente diverso, in cui l’autoriforma delle istituzioni europee sia volta a sostenere lo sviluppo e la stabilità sociale all’interno e tra i paesi membri

Il primo marzo di quest’anno, il presidente della Commissione Europea Jean-Claude Juncker ha presentato il “Libro bianco sul futuro dell’Europa: le strade per l’unità nell’UE a 27”. Di fronte a un passaggio incerto dell’istituzione europea dopo la Brexit, ma soprattutto in presenza della crescente ostilità popolare nei confronti delle politiche europee, il documento veniva presentato come la base di discussione delle linee di sviluppo dell’Unione e fissava le possibili alternative cui sarebbero soggetti i paesi nello scegliere il loro percorso verso la futura Europa. È lo sfondo sul quale si regge anche il suo recente discorso sullo Stato dell’Unione 2017.

Il documento prospetta cinque scenari alternativi con i quali i paesi dell’Unione dovranno confrontarsi prossimamente, superate le ormai prossime elezioni tedesche. Appare quindi tempestivo e di grande interesse il contributo di Alessandro Somma – Europa a due velocità. Postpolitica dell’Unione Europea, Imprimatur 2017 – che offre una ampia e ragionata esposizione del significato e delle implicazioni dei cinque scenari che – secondo la Commissione – delineano «quello che potrebbe essere lo stato dell’Unione da qui al 2025 ». Merito di Somma è interpretare una tale proposta istituzionale in connessione con le altre deliberazioni della Commissione in merito alla difesa, alle finanze, all’inclusione sociale e qualificare così il senso delle diverse alternative in maniera più precisa di quanto non indicasse la rapida presentazione di marzo. Se in quella sede esse venivano sminuite come «possibilità [a] carattere illustrativo, [che] non si escludono a vicenda né hanno pretese di esaustività», per Somma sono invece importanti in quanto espediente dialettico per forzare «un assetto ben definito: quello per cui si distinguono un centro ricostruito attorno all’asse franco-tedesco custode dell’ortodossia neoliberale, una periferia intermedia composta dai Paesi dell’Eurozona nei quali l’allineamento all’ortodossia incontra resistenze, e una periferia estrema in cui confluiscono i Paesi non ancora in grado di aderire alla moneta unica».

Una riflessione al riguardo non può che partire dai cinque scenari e dalla loro eloquente titolazione. Il primo, Avanti così, propone di continuare sulla medesima linea del recente passato per attuare l’attuale (ritenuto positivo) programma di riforma. Il secondo, Solo il mercato unico, esprime ambizioni più riduttive finalizzate al solo rafforzamento del mercato unico come risposta a una presumibile accentuazione delle tensioni economiche internazionali in epoca-Trump. Il terzo scenario, Chi vuole di più fa di più, è la concessione a «una o più “coalizione dei volonterosi”» di accordarsi tra di loro per cooperare «in ambiti specifici quali la difesa, la sicurezza interna, la fiscalità o le questioni sociali». Il quarto scenario, Fare meno in modo più efficiente, restringe le ambizioni dell’Unione su alcune priorità nei confronti delle quali concentrare le «limitate risorse disponibili … per produrre risultati maggiori in tempi più rapidi». Il quinto e ultimo scenario, Fare molto di più insieme, è il più ardito poiché richiede l’impegno condiviso di tutti paesi membri per cooperare «in tutte le aree politiche».

Se si considerano i contenuti delle alternative proposte, non si sfugge all’impressione che, di fatto, la scelta politica si collochi in qualche variante all’interno delle due alternative estreme: continuare lungo la strada esistente (la prima) o lanciarsi tutti assieme nella costruzione di una nuova Unione (la quinta). La seconda, quella di ridursi al mercato unico, non pare accettabile – soprattutto dopo la Brexit – per i paesi che hanno investito politicamente sull’Unione Europea e, se qualche paese-membro tra i nuovi lo dovesse pensare, può sempre trovare soddisfazione in una delle alternative intermedie. D’altra parte, queste (la terza e la quarta), non sono altro che fasi di sviluppo della prima, il consolidamento dell’esistente, nella direzione di poter fare molto di più insieme (quinto scenario). È questa la stella polare del documento della Commissione. Se ci si ricollega al documento dei “Cinque Presidenti” del giugno 2015, presto dimenticato da tutti, meno che da Bruxelles e dalle capitali europee che contano, non è incauto sostenere che l’obiettivo è la cooperazione sistematica sulla gestione delle frontiere, sulla politica estera e su un comando unico EU della difesa (punti anche del quarto scenario) e, per quanto riguarda i rapporti commerciali e l’Unione Economica e Monetaria, al rafforzamento e all’esclusiva competenza EU sul commercio (inclusi presumibilmente i trattati internazionali, ‘similCETA’ o TTIP) e alla piena realizzazione dell’Unione economica, finanziaria e di bilancio. Un progetto che centralizza i poteri di indirizzo e di controllo sull’intero spazio economico per una governance complessiva dell’Unione con l’ossessione per la competitività e con l’esclusione di trasferimenti fiscali perequativi tra paesi. In sostanza, un irrigidimento del quadro esistente.

Coglie quindi nel segno Somma quando sostiene che questa prospettiva di un’Europa a più velocità esprime pienamente «l’ispirazione neoliberale dei processi di integrazione» e, nella sua proposizione contingente, «costituisce un espediente per forzare i Paesi più lenti … alimenta[ndone] l’ambizione … a tenere il ritmo dei Paesi veloci, sul presupposto che occorre prendere parte alla corsa essendo disposti a fare qualsiasi cosa, in particolare non mettere in discussione il traguardo, pur di rimanere nel gruppo di testa». Non quindi una diversità di percorsi per sperimentare una diversa integrazione più rispondente alla varietà di esigenze dei singoli paesi sostenuti nei loro percorsi autonomi, ma una partecipazione limitata dalla disciplina dell’ordine economico nella quale i Paesi più lenti accettano di non influire «sulla direzione di marcia [ma solo di] discutere la tabella di marcia [e] aderire quando saranno pronti». Un modo di “spoliticizzare” il processo di integrazione secondo un percorso che è espressione piena del «fondamento della postpolitica dell’Unione europea … [volta] alla sterilizzazione del confitto sociale, ovvero del principale ostacolo alla subordinazione delle periferie al volere del centro».

Una questione troppo decisiva per lasciarla al chiuso del triangolo Berlino-Bruxelles-Parigi, perché in tal caso la conclusione sarebbe nota; come del resto ha rivelato l’incontro di Versailles del marzo scorso. L’indicazione della Merkel e di Hollande, ora di Macron, è esplicita: va rafforzata la dimensione politica dell’Europa avendo “il coraggio di accettare che alcuni Paesi possano andare avanti più rapidamente di altri” e che questi paesi volenterosi adottino “nuove forme di cooperazione differenziata” avendo come priorità dei cittadini europei “un’Europa sicura [che] presuppone un’Europa della difesa”. L’indicazione di Gentiloni sulla necessità “di un’Europa sociale, che guardi alla crescita e agli investimenti. Un’Europa in cui chi rimane indietro non consideri l’Ue come una fonte di difficoltà ma come una risposta alle proprie difficoltà” appare di fatto molto flebile quando sia accompagnata dall’altra condizione che egli stesso sottolinea, che le scelte vanno fatte “dentro la cornice del Libro Bianco della Commissione Ue”. Esigenze contraddittorie che descrivono con immediatezza il terreno politico sul quale si sta attestando il confronto sul futuro del progetto europeo.

In un momento storico di profonda incertezza per la prospettiva europea in cui euro e austerità generano un rifiuto delle istituzioni europee – se non della stessa idea di Europa – la Commissione consegna un’idea delle loro possibili linee evolutive in cui non vi è alcun cenno (positivo) di impegno per i diritti economici e sociali che non passino attraverso un rafforzamento della competitività nelle relazioni di mercato, ovvero, come sottolinea Somma, di una «riduzione dell’inclusione sociale a inclusione nel mercato». Non sono certo le indicazioni scarsamente vincolanti dei documenti sulla dimensione sociale dell’Europa a costituire una risposta alle reali preoccupazioni dei cittadini europei: un lavoro di qualità, un efficace sistema di sicurezza sociale, una redistribuzione perequativa del reddito e della ricchezza. La risposta risiede nel ripristinare il «patto fondativo del costituzionalismo antifascista: quello per cui il lavoro, in quanto concorso al benessere collettivo, deve assicurare mezzi sufficienti a condurre un’esistenza libera e dignitosa»; è «il lavoro ad avere bisogno di rappresentanza politica».

Proprio guardando alla scadenza del 2025 vi è quindi l’urgenza di rifiutare la prospettiva regressiva di Juncker, di rifiutare il proseguimento per un’altra generazione di una politica istituzionale che deprime lo sviluppo sociale e la democrazia. È necessario mettere in campo un altro scenario, radicalmente diverso, in cui l’autoriforma delle istituzioni europee sia volta a sostenere lo sviluppo e la stabilità sociale all’interno e tra i paesi membri. In questa direzione, Somma incrocia “i teorici del terzo spazio” – il riferimento è, tra gli altri, a Varoufakis e Piketty – dei quali condivide l’affermazione che «le possibilità di un cambiamento sono direttamente proporzionali al livello di confitto sociale prodotto attorno all’idea di Europa democratica e solidale, in quanto tale radicalmente ostile al progetto neoliberale»; mentre lo convince meno che sia sufficiente far affidamento a un confitto sociale che coinvolga, oltre «quello prodotto nelle città per il riconoscimento dei diritti sociali, … anche quello istituzionale: anche le istituzioni, dalle amministrazioni comunali ai governi nazionali, possono disobbedire all’Europa dell’austerità, promuovendo così un circuito di “élites insubordinate” capace di realizzare il sesto scenario senza mettere in discussione la costruzione europea in quanto tale, e soprattutto determinando la sua lenta ma inesorabile trasformazione». Il dubbio di Somma è che, per quanto auspicabile, ciò risulti irrealistico poiché «non si vede un ceto politico disponibile a impugnare le armi della disobbedienza istituzionale … e neppure si vede la tensione sociale che dovrebbe attivare il conflitto nelle città».

Si tratta di una considerazione che non è una conclusione, ma l’apertura di un dibattito (e di una prassi) che, per quanto di grande complessità per i problemi che coinvolge (euro e austerità), non appare eludibile. Esso va posto con forza all’interno del paese, e tra paesi, poiché il “sesto” scenario, decisamente controcorrente, risulta decisivo per lo sviluppo democratico del nostro continente. E in merito al dibattito auspicato, Somma offre due spunti di discussione tutt’altro che marginali: la determinazione di quale spazio autonomo ha la politica e quale ruolo vi devono ricoprire gli “intellettuali”. Sul primo punto, la sua ampia analisi storica e istituzionale lo porta a sostenere con forza «la dimensione nazionale [come] la più adatta allo sviluppo del conflitto sociale e dunque alla ripoliticizzazione del mercato [considerata il] passaggio obbligato per rilanciare la costruzione europea come motore di democrazia e giustizia sociale». Per quanto riguarda l’impegno intellettuale, egli si rivolge ai giuristi – accreditati come “tecnocrati per antonomasia” (ma il suo discorso può estendersi anche a tutti gli altri “tecnocrati”) – perché riprendano l’impegno di «ripoliticizzare il mercato, o meglio [di] risocializzarlo per il tramite del circuito democratico. Riattualizzando così l’idea per cui la democrazia politica deve essere accompagnata dalla democrazia economica se vuole preservare il suo equilibrio con il capitalismo, e dunque rappresentare un argine naturale contro la pervasività del progetto neoliberale, oltre che uno stimolo a rivitalizzare la sfera pubblica».

Alessandro Somma, ‘Europa a due velocità. Postpolitica dell’Unione Europea, Imprimatur 2017