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Disuguaglianze, l’affondo dei liberali

Due proposte presentate di recente attribuiscono al sistema della contrattazione nazionale, e ai meccanismi redistributivi che implica, un ostacolo al miglioramento dell’economia

Durante le ultime settimane, il dibattito pubblico sul lavoro è stato investito da due proposte provenienti dagli ambienti industriali e dal campo degli economisti liberal. Al Festival dell’economia di Trento, Andrea Ichino ha presentato uno studio – condotto con Tito Boeri e Enrico Moretti – sulle ricadute del sistema di contrattazione nazionale sull’aumento delle disuguaglianze. Solo pochi giorni dopo è toccato invece al presidente dei Giovani Industriali, Marco Gay, puntare il dito contro le disfunzioni del sistema redistributivo e previdenziale italiano, colpevoli a suo dire di frenare la crescita economica e i livelli occupazionali.

Le due proposte riflettono una visione comune nell’attribuire al sistema della contrattazione nazionale e ai meccanismi redistributivi e solidaristici che essa implica, un ostacolo al miglioramento dell’economia generale e la conseguente ricaduta (negativa) sui livelli di reddito dei lavoratori. Nello studio presentato da Ichino, l’indice viene puntato sull’inefficienza di un regime non abbastanza differenziato di salari nominali, che unendo il paese da Nord a Sud,  svantaggerebbe proprio i lavoratori del Nord costretti a far fronte ad un costo della vita più alto, principalmente dovuto al più elevato costo delle abitazioni.

A giustificazione della necessità di introdurre una volta per tutte la cosiddette “gabbie salariali”, intese dagli autori della ricerca come strumento di riequilibrio delle disuguaglianze tra lavoratori (sic!), viene utilizzato – come da tradizione liberista- il mantra della produttività, funzione esclusivamente del lavoro e non anche del sistema produttivo nella sua interezza.

L’analisi suggerisce, inoltre,  che il connubio tra la bassa produttività dell’economia meridionale e salari nominali troppo elevati siano causa dell’elevato tasso di disoccupazione nel Mezzogiorno.

Tuttavia, i risultati empirici della ricerca citata si basano, oltre all’approccio teorico di riferimento, su un indicatore, diverso da quello comunemente usato dall’Istat e, creato dallo stesso Moretti, per correggere le variabili monetarie legate alle abitazioni rispetto al valore dei prezzi a livello locale. Una scelta si direbbe, e infatti gli autori omettono di presentare i risultati utilizzando il deflatore standard dell’Istat, negando quindi la possibilità di valutare se e in che misura la scelta del deflatore sia neutrale oppure determini i risultati ottenuti e la loro magnitudine. Gli, autori inoltre, assumono che nelle diverse regioni, gli abitanti spendono in media quote di reddito identiche per il consumo di beni e servizi pubblici. L’unica differenza è la qualità dei servizi e il costo degli stessi, caratteristiche entrambe inferiori al Sud. Una valutazione che confligge con la realtà, dal momento che al Sud i servizi non soltanto sono mediamente inferiori in termini di qualità, ma soprattutto quantitativamente. Basti pensare alla differenza nella copertura di asili nido tra la Calabria e l’Emilia Romagna, oppure nella copertura del trasporto pubblico tra la Sicilia e il Piemonte. Gli autori sembrano ignorare innanzitutto i fattori di lungo periodo che spiegano i divari regionali e le debolezze del tessuto economico e produttivo del Sud Italia. Si esclude ogni riferimento alla storia industriale del Meridione, perseverando nell’idea che alle divergenze territoriali bisogna far fronte comprimendo il costo del lavoro e non invece stimolando, in modo antistorico lo sviluppo industriale e la domanda aggregata, cioè la crescita e di conseguenza la produttività. Convinzioni di senso comune tra gli industriali italiani. Un esempio tra tutti, il Presidente di Federmeccanica, Massimo Franchi, che intervenendo a un convegno sul mercato del lavoro tenutosi a Pisa in aprile, alla parola produttività più volte ripetuta non ha mai affiancato il concetto di investimenti, né tanto meno una loro declinazione concreta relativa ai settori e ambiti di potenziale intervento.

Ignorare un fatto macroscopico come la presenza strutturale del lavoro nero, funzionale alla stabilizzazione degli assetti economici e politici del Meridione, rischia di ribaltare il rapporto tra causa ed effetti, perdendo di vista il ruolo che l’economia sommersa continua a svolgere nel Sud Italia in termini di concorrenza sul costo del lavoro e sull’andamento della produttività. Storicamente, il lavoro nero è stato creato e mantenuto da un lato per conservare un preciso assetto di potere e come fattore per comprimere i salari dell’economia formale e, dall’altro, per ridurre lo stimolo, anche per questa via, ad investire, aumentando la produttività. Quindi è il lavoro nero a fermare la produttività e i salari (ad esempio attraverso la non applicazione dei minimi contrattuali e all’assenza di una contrattazione territoriale).

Il quadro analitico proposto nasconde evidentemente un obiettivo preciso che riguarda l’attacco all’impianto della contrattazione nazionale, a favore di un regime flessibile che assegna al rapporto diretto tra aziende e lavoratori le decisioni principali sull’organizzazione del lavoro, sugli standard salariali e normativi. Si tratta di un tentativo di suggerire al governo un’ulteriore accelerazione sul piano delle riforme strutturali, svuotando l’istituto della rappresentanza democratica del lavoro, attraverso la cancellazione dell’ultimo presidio a tutela degli interessi della parte debole. Davanti all’aumento della caduta dei redditi di lavoro della fascia più debole, in buona parte dovute ai processi di flessibilizzazione del mercato del lavoro (e l’uso distorto del part-time), la risposta dei nuovi pasdaran liberisti è la rottura del contratto sociale e l’approdo ad una società au delà du contrat, parafrasando Robert Castel. Una frattura che investe quindi l’insieme dell’ordinamento democratico, ridefinendo la cornice costituzionale del lavoro in un terreno del tutto nuovo, in cui si considera il rapporto di forza tra impresa e lavoratori non più sbilanciato, ma sostanzialmente paritario.

Una prospettiva che trova nelle parole del presidente dei Giovani Industriali un’ulteriore conferma, quando allude ad una riforma del sistema fiscale. “Via il fisco che tassa i dipendenti anche quando non si fanno profitti”, il monito del giovane presidente degli Industriali – prefigura un impianto del fisco teso a garantire prioritariamente alle imprese il perseguimento di margini di profitto, non riconoscendogli nessuna funzione sociale. Ne è un esempio l’utilizzo sfrenato degli incentivi all’assunzione a “tempo indeterminato” a cui non è corrisposto un valido impegno nella creazione di nuovi posti di lavoro da parte delle imprese. L’idea di una spesa pubblica funzionale alle imprese piuttosto che alla questione sociale, drammaticamente peggiorata nell’ultimo decennio, pare essere un tema condiviso tra Confindustria e il governo. Basti pensare alla proposta sulla flessibilità in uscita per le pensioni tratteggiata dal governo che non mette in discussione la riforma Fornero e  in cui, da un lato, viene escluso l’intervento delle finanze pubbliche e, dall’altro, il diritto a una pensione anticipata viene subordinato all’istituzione di un mutuo che prevedere il pagamento di interessi agli istituti di credito (privati). Non a caso, per gli sgravi sul costo del lavoro si invocava la necessità di puntare sulla flessibilità rispetto ai vincoli europei, mentre nel caso delle pensioni, il Sottosegretario Nannicini richiama l’esigenza di rispettare i vincoli di bilancio.

Viene svuotato di fatto il principio della solidarietà fiscale, che aveva costruito la base dello stato sociale, rovesciando la funzione del fisco da garante dell’esercizio dei diritti costituzionali (salute, istruzione, accesso ai beni pubblici) a guardiano degli interessi dell’impresa. La richiesta di rovesciare i meccanismi redistributivi a vantaggio degli interessi forti è un suggerimento al governo a continuare quella politica di riforme, a quanto pare solo abbozzata con il Jobs Act e la proposta di riforma della Costituzione. La prospettiva assume quindi i tratti di un tentativo di ridefinire un nuovo impianto costituzionale, che prevede la “messa a valore” del pubblico e lo spostamento dell’esercizio della sfera di giurisdizione dallo stato al mercato, il solo che competerà nella definizione dei diritti stessi dei cittadini.