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Def 2014, la sinistra che non cambia è destra

I tagli di spesa previsti dal Def arriveranno a 20 miliardi nel 2015 e circa 30 nel 2016, incidendo profondamente sulle condizioni materiali di vita delle persone più in difficoltà

Purtroppo, il Def 2014, nonostante le attese, è in continuità con la linea di politica economica mercantilista dominante nell’euro-zona e seguita anche in Italia: la via della salvezza continua a essere l’austerità e la svalutazione del lavoro (vedi, da ultimo, il DL Lavoro e il Disegno di Legge Delega sul lavoro).

Ha ragione Matteo Renzi: “la sinistra che non cambia è destra”. Ma al di là delle valutazioni etiche e politiche (la subalternità alla destra), la sinistra che non cambia è corresponsabile del naufragio dell’Italia e dell’euro-zona perché persevera a ignorare i dati di realtà. La linea seguita nell’euro-zona determina maggior debito pubblico, salito in media nell’euro-zona dal 65% del 2007 al 95% nel 2013. In Italia, nello stesso periodo, dal 104 al 129% (al netto delle risorse impegnate nei Fondi “Salva Stati”). È inevitabile perché la rotta della svalutazione del lavoro deprime la domanda interna fino alla recessione-stagnazione e deflazione (ora incubo della Bce convertitasi al quantitative easing, fino a poche settimane fa considerato uno strumento del demonio dalla Bundesbank).

Lo scenario di finanza pubblica definito nel Def è, al tempo stesso, insostenibile sul piano sociale e irrealistico, in quanto recessivo, sul piano economico. Insostenibile perché gli ulteriori profondi tagli prospettati alla spesa pubblica stravolgerebbero il nostro quadro sociale. Irrealistico perché si continua a ignorare la reale dimensione del moltiplicatore della spesa e delle tasse e si continuano a gonfiare, con sfacciata ideologia, gli effetti delle mitiche riforme strutturali, in particolare la precarizzazione del lavoro e l’ulteriore indebolimento della contrattazione collettiva (il Presidente del Consiglio continua a ricondurre alle regole del mercato del lavoro il minor il livello di disoccupazione del Regno Unito rispetto al nostro. Qualcuno gli spieghi che Londra dall’inizio della crisi ha stampato enormi quantità di moneta, ha svalutato la Sterlina del 40%, ha avuto un deficit di bilancio dell’8% in media degli ultimi quattro anni).

Vediamo il capitolo spesa pubblica. Le pubbliche amministrazioni italiane devono essere radicalmente riorganizzate. La revisione del Titolo V, in corso al Senato, è una occasione straordinaria per andare oltre la riallocazione delle funzioni tra livelli di governo. Va razionalizzata l’organizzazione della Repubblica, ridotto il numero delle Regioni e costruite macro-regioni in una transizione che porti al superamento delle “specialità”. L’unione dei Comuni di minori dimensioni è una necessità ineludibile. La drastica riduzione degli uffici territoriali del governo anche. È ampio lo spettro degli interventi sia sul versante delle amministrazioni centrali che territoriali, incluse su ciascun versante le società pubbliche partecipate.

Nonostante lo spazio di intervento ancora in essere, va ricordato che la spesa pubblica primaria italiana è, in termini pro-capite, tra le più basse dell’Unione europea. È stata significativamente ridotta negli ultimi anni, per la prima volta, in termini nominali (in particolare, dal 2010 al 2013, la spesa per il personale e la spesa per beni e servizi sono state ridotte di circa il 4%). Un ulteriore forte contenimento è già previsto a legislazione vigente (la spesa primaria scende dal 45,4 al 42.5% del Pil dal 2014 al 2018), ossia prima degli interventi considerati nel DEF 2014. In tale scenario, i tagli di spesa previsti per puntare agli obiettivi di finanza pubblica porterebbero a un drastico ridimensionamento del welfare e delle funzioni fondamentali del settore pubblico (su Huffingtonpost del 16 ottobre 2013 ho descritto l’impossibilità di interventi di tale portata senza mutilare il welfare). Viene, invece, ignorata la vera variabile patologica dell’Italia: l’evasione fiscale, pari al doppio della media europea. Portata gradualmente alla media Ue, quindi senza crociate contro l'”evasione di sopravvivenza”, vuol dire circa 50 miliardi all’anno di maggiori entrate.

Per il 2014, il reperimento dei 4,5 miliardi per finanziare la riduzione dell’Irpef incide, ancora una volta, su sanità e servizi essenziali (senza contare che sono necessari tagli aggiuntivi per finanziare cassa integrazione in deroga e missioni internazionali). Ma il cambio di natura si verrebbe a completare a partire dal prossimo anno. Secondo gli obiettivi del DEF, i tagli sul 2015 dovrebbero essere circa 17 miliardi di euro. Diventerebbero 25 a partire dal 2016. Infatti, ai 10 miliardi annui per “coprire” l’Irpef, si aggiungono, rispettivamente per il 2015 e 2016: i 4 e gli 8 miliardi già inclusi nella Legge di Stabilità per il 2014 (per evitare il taglio delle detrazioni e agevolazioni fiscali); i 3 e 7 miliardi per puntare agli obiettivi di riduzione del deficit.La dimensione dei tagli di spesa previsti esplicitamente dal DEF è sottostimata. Ulteriori tagli dovrebbero essere realizzati per finanziare misure assenti dal quadro a “legislazione vigente” ma inderogabili. Le principali sono: la cassa integrazione in deroga (o un ammortizzatore sociale introdotto dal DDL Lavoro di costo analogo), le missioni internazionali, le agevolazioni per l’autotrasporto privato, il 5 per mille, gli interventi per la non autosufficienza e minimali politiche sociali anti-povertà, scuole non statali, lavori socialmente utili, fondo di garanzia per acquisto prima casa. L’insieme vale almeno 4 miliardi di euro all’anno.

Complessivamente, i tagli totali di spesa arriverebbero, quindi, a oltre 20 miliardi per il 2015 e circa 30 per il 2016. In sintesi, si inciderebbe profondamente sulle condizioni materiali di vita delle persone più in difficoltà e sulle classi medie.

Si noti che le previsioni del DEF escludono qualunque intervento migliorativo delle politiche sociali (da un adeguato finanziamento delle misure per il contrasto alla povertà assoluta, raddoppiata negli ultimi due anni, a una qualche forma di sostegno alla non autosufficienza, a ammortizzatori sociali adeguati per chi perde lavoro); escludono la rianimazione della scuola pubblica; la soluzione del drammatico problema degli “esodati” e la flessibilizzazione del regime pensionistico che, con un’età di pensionamento rigida a 67 anni, è impossibile per chi è impegnato in attività usuranti. Nella previsione viene anche escluso ogni rinnovo contrattuale nel pubblico impiego mentre viene confermato il blocco del turn-over.

Proprio a causa dei tagli si verrebbero a determinare effetti recessivi sul Pil, sistematicamente sottostimati dai moltiplicatori dei famosi modelli econometrici, come la storia degli ultimi 5 anni dimostra senza ombra di dubbio. Di conseguenza, si avrebbero minori entrate. Effetto numeratore (minori entrate da minor Pil) e effetto denominatore (minore Pil) interagirebbero e terrebbero lontani sia l’obiettivo di contenimento del deficit che l’obiettivo di riduzione del debito. Purtroppo, i previsori ufficiali (Commissione, dell’Oecd e del Mef) continuano, senza il minimo imbarazzo, il rito di previsioni di primavera annunciatrici, per l’anno successivo, di una ripresa economica significativa, aumento dell’occupazione, discesa del debito. Poi, nelle previsioni dell’autunno, l’annunciata ripresa viene spostata all’anno dopo ancora (da notare la continua revisione al ribasso della nostra capacità produttiva potenziale). La colpa grave è l’indisponibilitá a riconoscere la dimensione reale del moltiplicatore della spesa, che in una fase di prolungata recessione – stagnazione e credit crunch è 3 o 4 volte maggiore del moltiplicatore delle tasse: in altri termini, coprire la riduzione dell’Irpef con tagli di spesa ha effetti recessivi.

Gli effetti recessivi indotti dalle politiche domestiche colpiscono una previsione del Pil comunque largamente sovrastimata. Per due ragioni. Innanzitutto, per l’ipotesi di fantasiosi effetti espansivi delle riforme strutturali (alla Legge Fornero sul mercato del lavoro viene attribuito un effetto espansivo di 0,2 punti percentuali di Pil nel 2014!): per gli investimenti privati +16,2% tra il 2014 e il 2018 a fronte di un aumento del 7,2% nel periodo 2003 – 2007 (una fase decisamente migliore per condizioni del credito, dinamica del commercio internazionale, potere d’acquisto delle famiglie, ecc) e a fronte della larga capacità produttiva inutilizzata da parte delle imprese. Poi, per la rimozione degli effetti recessivi moltiplicati dall’interdipendenza tra economie nazionali impegnate nell’euro-zona nelle stesse politiche di austerità e svalutazione del lavoro attuate in Italia.In sintesi, anche il Def 2014 porta agli stessi risultati degli ultimi 5 anni: meno Pil, meno occupati e più debito pubblico. Nel medio periodo, l’insostenibilità del debito pubblico e la radicale involuzione del nostro modello sociale e economico che ricollocherebbe l’Italia e la periferia dell’Unione europea nel segmento basso della divisione internazionale del lavoro. Che sarebbe (stato) utile e realistico fare?Ripetiamo quando abbiamo scritto e inviato al Presidente Renzi come contributo alla preparazione del Programma di Governo: si dovrebbe (sarebbe dovuto) sostenere la domanda aggregata, in alternativa alla irrealistica rotta mercantilista della crescita export-led. Una risposta emergenziale, unilaterale, nel quadro di un’offensiva condivisa per correggere la rotta comune. In sintesi, sarebbe (stato) utile, per un triennio, ricorrere allo spazio finanziario disponibile al di sotto del 3% nel rapporto di deficit e Pil. Circa 6 miliardi per quest’anno per evitare di coprire l’Irpef. Nel prossimo biennio, si dovrebbe (sarebbe dovuto), oltre a evitare i tagli per coprire l’intervento sull’Irpef, attuare la spending review come strategia di valutazione e riqualificazione delle strutture pubbliche e di riallocazione delle risorse tra programmi di spesa, in particolare verso la scuola pubblica, le misure di contrasto alla povertà e la riforma delle politiche attive per l’occupazione.

A integrazione delle risorse liberate dagli irrealistici obiettivi di deficit, andrebbero utilizzate anche le entrate da alienazione di aziende e immobili pubblici per finanziare un piano straordinario per l’occupazione giovanile (“servizio civile per il lavoro”) nell’ambito della “Youth Guarantee” e investimenti per il riassetto idrogeologico e la ristrutturazione delle scuole (da notare che nelle previsioni del DEF gli investimenti pubblici si riducono del 12% e arrivano a meno della metà del 2008). Il programma di privatizzazioni comunque va verificato attentamente per evitare danni finanziari e danni industriali. Va ricordato, infatti, che le aziende più appetibili per il mercato sono anche quelle che versano al bilancio dello Stato dividendi. In genere, i dividendi prodotti da tali aziende sono superiori al risparmio di spesa per interessi dovuto alla riduzione del debito pubblico conseguente all’alienazione dell’asset. Inoltre, le nostre più appetibili aziende pubbliche sono anche tra i pochi pezzi pregiati del nostro sistema manifatturiero che, va ricordato, ha perso un quarto della sua forza negli ultimi 5 anni. Sono pezzi intorno ai quali costruire strategie di politica industriale anche a beneficio delle lunghe filiere di piccole e medie imprese ad esse connesse o connettibili.

L’effetto di una politica macro-economica e di bilancio espansiva porterebbe, anche in virtù dell’impatto distributivo, a maggior crescita rispetto a quella che effettivamente si realizzerà e di conseguenza minor deficit e minor debito effettivo. Di quali dati abbiamo ancora bisogno per comprendere che “la sinistra che non cambia è destra” e contribuisce far naufragare l’euro e l’Unione europea contro l’iceberg dei populismi regressivi?

(Articolo uscito su www.huffingtonpost.it)