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Contro i venti di guerra, una politica di pace

Non sappiamo se il cessate il fuoco in Libia terrà, ma è essenziale che le diplomazie europee escano dall’impasse. Serve un rilancio del ruolo delle Nazioni Unite, oltre a superare le divisioni europee, per dare una chance alla pace.

In Medioriente e nel Mediterraneo sono tornati i venti di guerra. Con l’uccisione di Soleimani del 3 gennaio – un vero atto di terrorismo di Stato – e il rilancio dell’aggressività americana nell’area, si mette a repentaglio la relativa stabilità dell’Iraq, si rafforza l’estremismo delle frange più radicali e si alimentano i rischi di una spirale di violenza incontrollabile.

Trump rischia una guerra per avere qualche consenso elettorale in più: magari spera proprio che ci sia la spirale di violenza, così da avvantaggiarsene nella campagna elettorale nei prossimi mesi.

Si tratta di un comportamento folle, irresponsabile e criminale. Invece di rafforzare gli spazi di dialogo e di cooperazione, si coltiva il terreno dello scontro e della contrapposizione. Nessun guadagno sembra ricavarne Trump nella riconquista di una centralità americana nell’area: anzi, di questa instabilità se ne avvantaggiano Putin ed Erdogan. Come detto, l’interesse principale del presidente americano riguarda la politica interna.

A poca distanza si incancrenisce la situazione in Libia che mette in risalto il fallimento della diplomazia europea e italiana. Il “cessate il fuoco” appena siglato non è il primo e vediamo se terrà. Il problema non è semplicemente se Serraj e Haftar si mettano d’accordo. Il problema è se si mettono d’accordo le potenze regionali che hanno corposi interessi nella regione – Egitto, Turchia, EAU, Qatar – e quelle europee, come Italia e Francia e spettatori interessati Stati Uniti e Russia.

Nelle ultime ore l’Italia – dopo il fallimento della conferenza di Palermo – ha ripreso a muoversi, contribuendo a costruire le condizioni per il “cessate il fuoco” in corso. E bene ha fatto il ministro degli Esteri Di Maio a evocare una missione di pace e di interposizione in Libia sul modello della missione Unifil in Libano. Pur di difficile realizzazione, questa prospettiva deve essere avanzata, richiamando le Nazioni Unite a riprendere un’iniziativa dopo il sostegno agli accordi di Skhirat del 2015, accordi (sulla base dei quali qualcuno pensava si potessero tenere elezioni in questi mesi) che ormai sono superati dagli eventi. Tra l’altro che qualcuno continui a pensare che la Libia possa essere un posto dove si rimandano indietro i migranti fermati in mare è da folli.

Dalle vicende mediorientali e di quelle mediterranee emerge comunque che l’interventismo militare non è la bacchetta magica, non porta da nessuna parte, anzi aggrava i conflitti e l’instabilità. Contro il protagonismo degli interessi nazionali delle potenze regionali e di quelle globali, le alternative sono quelle note: il rilancio del ruolo le Nazioni Unite e di un protagonismo dell’Europa, capace di superare le divisioni e l’illusione di armarsi sempre di più. Solo così si può dare una chance ad una pace possibile e duratura.