Una recensione del libro di Sergio Cesaratto, “Sei lezioni di economia”, appena uscito per le edizioni Imprimatur. Utile compendio per capire la crisi più lunga e qualche idea per provare a uscirne
Le ‘sei lezioni di economia’ di Sergio Cesaratto sono un’occasione importante di studio e riflessione per studenti, ricercatori e ‘policy makers’, in tutti tre i casi intesi in un ampio significato. Lezioni di economia e politica, ponendo il tema della distribuzione e formazione del reddito al centro del discorso teorico. Gli studenti possono cogliere l’occasione di studiare e approfondire temi che non fanno generalmente più parte dei corsi di studio di Economia, a parte alcune eccezioni sparse. I Ricercatori, almeno quelli che vogliono intendersi come scienziati sociali ed economisti aperti e costruttori di ponti con altre discipline, possono cogliere l’occasione di riflettere su vari aspetti teorici della macroeconomia e sulle implicazioni di politica che ne seguono.
Il libro riprende il filo di un discorso minato dal prevalere di conformismo culturale, ignoranza teorica e interessi di parte. Si connette in modo complementare, citando alcuni testi del recente passato da consigliare come ulteriori letture al lettore, alle analisi sviluppate da Paolo Sylos Labini (2004, Torniamo ai classici, Laterza)1, Laura Pennacchi (2004, L’eguaglianza e le tasse, Donzelli), Aglietta-Lunghini (2001, Sul Capitalismo Contemporaneo, Boringhieri)2. Narrazioni economiche che sarebbe riduttivo definire ‘di sinistra’. Semplicemente raccontano la teoria economica nella sua maggiore ricchezza, finalizzandola alla creazione di reddito, uguaglianza, occupazione, sostenibilità socio-economica.
Partendo dalle implicazioni di politica che la trattazione teorica definisce in modo chiaro, i policy makers possono riflettere laicamente, fuori dai conformismi ed errori dilaganti delle politiche (soprattutto europee) attuali, su come migliorare le politiche economiche. Non per mere questioni teoriche, ma per ridurre gli elevati e ‘criminali’ (usando un termine di Paul Krugman, che da anni pone enfasi sull’’ignoranza macroeconomica’ della maggior parte dei ‘consulenti’ e ‘tecnici’ di varia provenienza) tassi di disoccupazione, a sette anni dal picco della recessione. Una ignoranza fra tutte, il nesso tra Investimenti, che creano i risparmi, e non viceversa, come assumono molte attuali politiche economiche. Lo stesso Keynes, sottolinea Cesaratto, non abbandona totalmente l’ipotesi che gli investimenti siano in gran parte legati al tasso di interesse. La situazione macroeconomica europea dal 2009 ci mostra come il legame possa essere molto flebile (il ‘piccolo sporco segreto’).
Su questo punto, il libro sottolinea il noto ed intrinseco ‘problema di domanda’ del capitalismo: il sovrappiù non è tutto consumato, ma viene risparmiato. L’economia che ha in mente Ricardo risparmia, ma questo viene investito. Da qui parte la critica keynesiana sulla separazione tra decisioni di risparmio ed investimenti. Il tema è rilevante anche per le attuali politiche di sostenibilità socio-economica ambientale, che includono l’ambito di ‘sviluppo umano. La sostenibilità è in gran parte possibile se si pone l’enfasi sull’investimento nei vari fattori che guidano il progresso umano (investimento tecnologico, scolarizzazione, sanità, ambiente, etc.)3. L’investimento deve sempre più che compensare i dis-investimenti o erosioni delle forme di capitale. Sarebbe interessante integrare maggiormente (spunto per i ricercatori) le ricerche sulla sostenibilità con studi sulla distribuzione del reddito tra classi e paesi.
Si nota come non solo esiste oggi un problema distributivo nei paesi avanzati, divulgato da Picketty, ma anche il catching up tra paesi ‘avanzati’ e non pare non realizzarsi, almeno in termini di sviluppo economico4.
La bassa crescita e il ruolo dello Stato
Narrazioni necessarie per contrastare teorie fallaci ma ancora prevalenti (le Zombie Theories di Krugman, che pure si afferma in un contesto neoclassico, come ricorda Cesaratto). Si veda a riguardo, come esempio, l’articolo di Michael Spence tradotto sul Sole24 di Domenica 16 Ottobre, che richiama la necessità di ridurre la ormai inefficace politica monetaria, per effettuare riforme (quali?) che potranno eventualmente ridurre reddito e occupazione nel breve ma porteranno benefici nel medio lungo5. Questo affermazioni vengono fatte in un momento di permanente bassa crescita europea e riduzione della crescita mondiale… Politicamente, in Europa, ci saranno vari passaggi cruciali, in primis le future elezioni francesi e tedesche. Forti responsabilità politiche saranno sulle spalle di Socialistes francesi e SPD. Speranze di cambiamento di paradigma concettuale non sono quindi elevate (anche se in Germania ci sono timide ‘prove’ di coalizioni alternative tra SPD, verdi e Die Linke). È vero che c’è una moderata presa di coscienza che ‘la politica monetaria ha oggi un disperato bisogno di un’espansione della spesa pubblica’ e che l’ossessione tedesca per l’austerità è ‘nefasta’6: ma la strada da percorrere è ancora lunga. Forte ma vera l’affermazione che la elevata disoccupazione è ‘strumento per addomesticare l’insubordinazione operaia (Kalecki) e sedare il ribellismo giovanile’. Si ricorda anche come nell’epoca d’oro del capitalismo una elevata occupazione si associava ad alti salari, mentre ora una elevata disoccupazione si associa a bassi salari. Questo mette già in luce alcune ‘crepe’ teoriche dell’impostazione marginalista relativamente alle politiche su occupazione e mercato del lavoro (abbassiamo il costo del lavoro e tutto il mondo sarà migliore e più competitivo!).
Si mette in luce un ruolo dello Stato che non è però semplicemente l’agente che con qualche forma generica di spesa pubblica innalza la domanda effettiva rispetto alla dinamica ‘senza intervento’ di consumi ed investimenti privati. È uno stato che, data la ‘conoscenza incerta’ degli individui e la conseguente fragilità degli equilibri del sistema socio-economico (Keynes), deve promuovere investimenti di lungo periodo per il vantaggio sociale generale in ambiti e progetti specifici (Aglietta e Lunghini, 2001). Si pensi al tema attuale della ‘green economy’: senza un’azione certa e decisa dell’investitore pubblico non si può porre la base per una vera transizione ecologico-economica dei mercati.
Teoria ed analisi empirica
Il libro è inoltre un riferimento molto importante per coniugare teoria ed analisi empirica, economia e politica. Interessante per lo studente, ma anche per il ricercatore, l’osservazione per cui l’econometria non può guardare alla teoria come alla ‘scatola degli attrezzi’. Servono analisi storica e buona analisi teorica per fondare robuste e ‘sensate’ analisi empiriche, che abbiano poi rilevanza nel dibattito economico e politico.
Altrettanto interessante, dentro la critica al marginalismo, il fatto che Cesaratto ricordi la distinzione tra economia del benessere e altri apparati teorici del marginalismo, riguardo a temi di distributivi. Ricordando il contributo di Federico Caffè su questi temi, si può notare che, anche se non mutano strutturalmente la teoria mainstream, alcune implicazioni della welfare economics sono rilevanti per le politiche pubbliche. In primis, l’analisi dei fallimenti del mercato, abbondanti nel campo della gestione delle risorse ambientali e dell’innovazione7. Rilevante in questo dibattito l’implicazione del secondo teorema dell’economia del benessere, che mostra come efficienza ed equità siano obiettivi separabili e non in intrinseco conflitto. La correzione delle dotazioni iniziali (via tasse di successione, patrimoniali, etc..) può essere anche finalizzata, oltre che a obiettivi di equità, ad una crescita maggiore e più sostenibile, se ad esempio venisse collegata ad investimenti in education che riportino gli individui di ogni generazione a possedere le stesse ‘capabilities’. Questo intervento di politica è rilevante anche nei confronti dello ‘sviluppo umano’, che infatti contiene il fattore scolarizzazione, anche pesato per il genere.
L’Euro e il futuro europeo
Uno dei passaggi più attuali ed interessanti per il lettore è quello contenuto nella quarta lezione: le sorti dell’euro e la possibilità economico-politica, i costi-benefici, di abbandonare la valuta comune, da parte di paesi del Sud Europa.
Certamente l’Euro era costruito su basi deboli, la forte eterogeneità tra paesi, ma su grandi aspettative (si ricordi lo spread nullo tra BTP e BUND ad inizio secolo, i bassi tassi di interesse greci pre-2008). Eterogeneità poi esacerbate dalla recessione / stagnazione e da politiche economiche errate per un’area comune. Il problema era ed è una solo parziale convergenza tra paesi che partivano da diversi livelli di reddito pro capite e fondamentali iniziali. Convergenza che in parte è avvenuta, ma non in modo sufficiente, anche dati i tempi storici limitati.
Uno dei punti di partenza del ragionamento è chiaramente il saldo nei conti con l’estero. Se esso è negativo strutturalmente causa un incremento del debito estero, che è un problema maggiore di quello interno. Se è positivo, non è da intendersi come segnale di ‘buona performance’ assoluta del paese in oggetto. In un sistema a cambi fissi, il cambio non funziona endogenamente come meccanismo di riequilibrio dei saldi. Il problema politico ed economico si incentra su questi semplici fatti. Su questo tema l’autore mette in luce ed analizza in modo esaustivo i vari costi e i benefici della valuta comune in modo laico, come raramente accade. La possibilità di uscire dal vincolo di cambi fissi esiste, ma la svalutazione ha effetti positivi sulla competitività che dipendono strettamente dalla struttura economica (la composizione settoriale, spesso dimenticata dalla teoria mainstream) del paese. La svalutazione può erodere fortemente i salari reali, acuendo i problemi distributivi.
Riguardo al caso italiano, la debolezza nasce anche da errori interni di lungo periodo: in primis lo smantellamento dell’industria pubblica (il declino dell’Italia industriale), politiche economiche già negli anni sessanta non pienamente di piena occupazione, l’‘austerità’8 anni settanta, il conseguente declino tecnologico. Tutti fattori alla base della bassa produttività del lavoro9, che varie aree di eccellenza (distretti, cluster di medi e piccole imprese) non bastano oggi a sostenere. L’investimento in R&S aggregata è da anni poco superiore all’1% del PIL (pubblica e privata), con una media europea di quasi 2%, ed un obiettivo del 3%. Politiche che non sostengono l’innovazione, unitamente al mancato sostegno della domanda (l’innovazione dipende dall’ampiezza del mercato). Il declino o irrilevanza europea nel medio periodo è quindi un rischio concreto nel mondo globale10.
Il tema della valuta comune si lega quindi agli altri ‘macro’-temi: il ruolo della politica fiscale, il livello di inflazione ‘desiderabile’, la stima del moltiplicatore fiscale, l’ossessione tedesca sul debito pubblico interno (mai guardato nella sua media europea, infatti non elevata!). ‘Basterebbe’ riequilibrare i saldi con politiche fiscali espansive ed elevata inflazione nei paesi con saldi commerciali positivi. Questo però presuppone una unità politica europea che non c’è, o si sta formando lentamente (chi decide le politiche ad alto livello è parte della ‘generazione Erasmus’?). Si cita nel libro un interessante documento di autocritica di Luglio 2016 del FMI rispetto al coinvolgimento nella crisi europea. Lo stesso FMI si è interrogato sulla desiderabilità di tassi di inflazione al 2%. Si affronta di petto la violazione dei patti impliciti da parte della Germania (dumping salariale, bassa inflazione), che li viola e pure sfora obiettivi correttivi europei (il tetto al saldo di partite correnti) inseriti recentemente.
Sulla questione l’autore propone soluzioni di emergenza – ‘svalutazione e controllo delle importazioni e dei capitali’, acquisto di beni nazionali in luogo di quelli stranieri – di cui sottolinea comunque le criticità economiche e politiche11. Seppure chi scrive ritenga che una uscita dalla area euro sia più nociva che positiva per i paesi del Sud Europea, e pensi che si possa/debba portare i paesi del nord a parlare di concertazione keynesiana, euro bond, solidarietà intra europea, il libro è un importante arena di dibattito e discussione sul tema, che andrebbe come gli altri affrontata vis à vis senza ideologie ed interessi, ma sulla base della (buona e laica) teoria e della verifica empirica ad essa integrata. Questo è un fil rouge di insegnamento che attraversa felicemente tutto il libro12.
Rimane una domanda di fondo aperta, che si poneva Sylos Labini nel testo qui citato del 2004: ‘come mai, nonostante tutte le critiche, la teoria neoclassica non è stata abbandonata’, in quanto paradigma che almeno sul piano macroeconomico e dell’analisi del mercato del lavoro e dell’innovazione presenta limiti strutturali? Sylos Labini afferma che i motivi pertengono alla ‘lotta’ politica tra paradigmi’ più che alla logica. Probabilmente occorre proseguire su entrambi i versanti.
Sergio Cesaratto, Sei lezioni di economia. Conoscenze necessarie per capire la crisi più lunga (e come uscirne), Imprimatur Edizioni
1 Il testo presenta importanti analisi storiche, teoriche ed empiriche sull’andamento della produttività del lavoro, trattando il ruolo della tecnologia. In linea con le analisi delle ‘sei lezioni’, nel secondo capitolo Sylos Labini discute ‘i fenomeni che gli economisti neoclassici non sono riusciti a spiegare e che viceversa possono essere agevolmente spiegati se si adotta l’approccio classico’.
2 Libro che mette in luce come diversi modelli di capitalismo abbiano diversi impatti sulla distribuzione del reddito tra salari e profitti, e la loro evoluzione degli ultimi decenni abbia schiacciato la massa salariale, prodromo, tra altri fattori, della crisi del 2008-2009.
3 Vi è una qualche analogia con la visione negativa che Keynes ha del risparmio aggregato. Le politiche si sostenibilità si coniugano anche per certi versi con i modelli teorici keynesiani di crescita. La domanda aggregata determina nel breve crescita (o nuove crescite, es. Green public packages per sostenere la domanda di prodotti verdi e generare una transizione eco-logica), ma anche nel lungo periodo, aumentando le capacità produttive in coerenza con le aspettative di domanda (https://www.pik-potsdam.de/members/edenh/publications-1/global-green-recovery_pik_lse).
4 Jones, Charles I. and Peter J. Klenow. 2016. “Beyond GDP? Welfare across Countries and Time.” American Economic Review, 106(9): 2426-57.
5 Spence (preso ad esempio) è ondivago: affrontando il 4 Settembre 2016 sullo stesso giornale il tema della stagnazione secolare in modo leggermente diverso, ponendo enfasi su temi di disuguaglianza, progresso tecnologico e rigidità fiscale europea. Ci si rende conto degli errori, ma non si ha la volontà di dire sempre tutta la verità. Poi a volte prevale ‘l’anatema della politica fiscale, innominabile’.
6 Krugman P. 4 settembre 2016, Il Sole 24 ore, p.23, sulle radici tedesche (condivise con l’Olanda, che vede oggi surplus commerciali intorno al 10% del PIL!) della ossessione anti-deficit e pro surplus della bilancia commerciale. Il ‘precetto assurdo’ che ricorda Cesaratto: il legame tra surplus commerciale e prosperità nazionale. Basterebbe un aumento dei salari per assorbire il surplus ed aumentare il benessere nazionale. A questo riguardo, lo stesso The Economist ha varie volte notato l’esigenza di portare l’inflazione tedesca al 3-4% (via aumento di consumi ed investimenti) per riequilibrare le condizioni macroeconomiche europee attraverso un espansione dell’import dei paesi in avanzo. Nel post recessione vi fu un interessante dibattito, che includeva il FMI, sul livello desiderabile di inflazione. Come tutti i target europei, anche il 2% di inflazione non ha nulla di ‘ottimale’. Tuttavia la resilienza è elevata. Cesaratto commenta ampiamente sulle implicazioni redistributive del mercantilismo europeo, spesso sottaciute.
7 Tema che anche Aglietta e Lunghini (2001, p.11-12) affrontano: più sono rilevanti interdipendenze non incorporate nei prezzi (esternalità) e il bene ‘informazione’, più ‘non esiste niente che assomigli a un equilibrio generale di concorrenza perfetta’, ‘si rimette in discussione la dicotomia tra beni pubblici e privati, si riabilita il ruolo dell’azione collettiva nell’efficienza economica’. Si include la produttività sociale dell’innovazione tecnologica, superiore a quella privata.
8 Nota Cesaratto: ‘Non che stili di vita più sobri ed eco sostenibili non siano auspicabili, ma non per sostenere politiche deflattive’.
9 Interessante concettualmente e per le politiche del lavoro e dell’innovazione richiamare una nota di Sylos Labini (2004, op.cit., p.9). Sylos Labini nota l’inconsistenza teorica della nozione di produttività marginale del lavoro, dato il legame stretto di complementarietà tra lavoro e altri fattori: capitale, materie prime. La produttività del lavoro dipende poi strettamente da contenuti tecnologici. A questo riguardo, le analisi empiriche sulla domanda di lavoro (anche di natura mainstream, vedasi Van Reenen di LSE, e certamente i lavori di stampo evolutivo di Mario Pianta) mostrano la rilevanza di fattori legati alla domanda di mercato e di innovazione più che di natura salariale. Elemento innovativo che l’apparato mainstream fatica a ‘modellizzare’, dando quindi più peso alla relazione negativa domanda-salari.
10 Il rapporto FMI di Aprile 2016 ‘Too slow for too long’ mette l’Europea tra ‘The Others’ in un grafico sulla crescita futura. Non è tra le aree rilevanti.
11 Il tema si inserisce nella caratteristica del capitalismo contemporaneo, l’estrema mobilità del capitale, che ha messo in concorrenza sistemi sociali, istituzionali, che regolavano diritti e rapporti salariali. La ripartizione del valore aggiunto dell’impresa e l’accumulazione di medio lungo periodo era l’obiettivo del vecchio management ‘continentale’ (Aglietta e Lunghini, 2001).
12 Si nota come un paradigma dinamico riesca a coniugare in modo più efficace e coerente l’analisi economica e la statistica economica (Sylos Labini, 2004, p.49).