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Articolo 18, di che stiamo parlando?

Il dibattito sull’abolizione dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori è già superato nei fatti. La discussione in corso è puramente ideologica, strumentale per entrambe le parti in causa cioè governo da un lato e sindacati tradizionali (specie la Cgil) dall’altro

Il governo accusa, ideologicamente, i sindacati di essere ideologici e di non occuparsi delle persone, di essersi sempre occupati solo degli occupati e non dei disoccupati, dei (supposti) garantiti e non dei precari (surreale: potremmo dargli torto?). La Cgil risponde, su un piano altrettanto ideologico, che depotenziare ulteriormente l’art. 18 significa attaccare direttamente i diritti dei lavoratori, così come fece la Thatcher in Inghilterra alla fine degli anni Settanta, oltre 40 anni fa (in un contesto di valorizzazione e organizzazione del lavoro completamente diversi, tocca ricordare).

Il giovane Renzi riveste così i panni dell’innovatore o, meglio, del “rottamatore sociale”, schiacciando la palla in rete, puntando sul fatto che la maggioranza dei precari non potrebbe certo disconfermarlo (“dove eravate, o sindacati?”). La Cgil e la Fiom, punte sul vivo, si offendono e si ergono a paladine dei lavoratori, riproponendo uno scontro sociale di stampo tradizionale (almeno sulla carta) che poco ha a che fare con l’attuale composizione del lavoro.

Per meglio comprendere la questione, è utile ricordare brevemente, in successione temporale, i fatti e le modifiche legislative sul tema. La memoria non ci fa difetto e i due contendenti, Renzi e Cgil, dovrebbero smetterla di alzare questa polvere, entrambi convinti che il pubblico di iloti che hanno generato non sia in grado di capire che tali schermaglie servono solo a sostenersi reciprocamente, come accade a volte agli ubriachi.

1. Con la riforma Fornero viene di fatto liberalizzato il licenziamento individuale senza obbligo di reintegro (sepoltura dell’art. 18, già in stato comatoso). Basta infatti la giustificazione economica (che diventa “giusta causa”, o meglio “giustificato motivo oggettivo”) perché partano le lettere di licenziamento compensate da un minimo di preavviso e da un indennizzo da 12 a 24 mensilità, a seconda dell’anzianità. Questo percorso era prima consentito solo per i licenziamenti collettivi, art. 223/1991, e doveva essere confermato dalla dichiarazione di uno “stato di crisi” dell’azienda. Oggi non solo si confà al singolo ma la prova dell’eventuale illegittimità del licenziamento per discriminazione diventa a carico del lavoratore. Solo nel caso in cui venga effettivamente comprovata, il giudice può disporre il reintegro o il pagamento dell’indennità. l’automaticità del reintegro è già, con ciò, parzialmente compromessa.

2. Con la legge 78 approvata in via definitiva lo scorso 16 maggio, nota come legge Poletti (o Job Act, atto I) si sancisce la totale liberalizzazione del contratto a termine rendendolo a-causale. (http://quaderni.sanprecario.info/2014/07/job-act-dal-diritto-del-lavoro-al-lavoro-senza-diritti-di-giovanni-giovannelli/). Viene con ciò fittiziamente posto un limite massimo ai rinnovi possibili (cinque), ma poiché i rinnovi non sono applicabili alla persona ma alla mansione, basta modificare quest’ultima per condannare una persona al lavoro intermittente a vita. La precarietà è stata così completamente istituzionalizzata.

3. Con il testo deliberato dalla Commissione Lavoro del Senato (Job Act, atto II) si istituisce il contratto da lavoro dipendente a tutele crescenti, in relazione all’anzianità di servizio. Si tratta di un particolare “contratto a tempo indeterminato”che dà la possibilità al datore di lavoro di interrompere il rapporto in qualunque momento e senza motivazione nei primi tre anni.In pratica, in questi primi tre anni, l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori non si applica. Insomma, un fiore e una prece speranzosa dopo la già avvenuta sepoltura della cara norma che fu. Occorre notare che questo aspetto dei tre anni di prova non è al centro del dibattito in corso. No, il corno della discordia è se applicare l’art. 18 (già modello Fornero) nel periodo successivo quando il dipendente viene eventualmente assunto a tempo indeterminato.

Inoltre, poiché nel testo non si dice se tale tipo di contratto andrà a sostituire i contratti in essere, esso si aggiunge alla normativa già esistente, come dichiarato con soddisfazione da Sacconi e Ichino. Si pone allora l’ovvia domanda: se già si può assumere (nel caso si voglia assumere) un lavoratore o una lavoratrice con un contratto a termine senza alcuna giustificazione, perché mai un datore di lavoratore sarebbe incentivato a utilizzare questo nuovo contratto “a tutele crescenti”? Ebbene, potrebbe essere disposto a farlo nel caso in cui avesse estrema necessità delle competenze e della professionalità del lavoratore/trice. Ma grazie alla “tutela crescente”, invece, potrà sottoporre a un lungo periodo di prova, lungo la bellezza di tre anni, anche coloro che hanno questi requisiti. Si tratterebbe quindi di un contratto di lavorio di serie B, come evidenziano anche Boeri e Garibaldo (http://www.lavoce.info/quali-tutele-quanto-crescenti/). Il capolavoro è compiuto, il futuro incerto.

Se guardiamo l’insieme dei provvedimenti che compongono il Job Act (atto I e atto II), crediamo che l’obiettivo sia di ridurre il mercato del lavoro italiano in tre segmenti principali, in grado di procedere ad una razionalizzazione della rapporto di lavoro precario, che ne consenta la strutturalità e la generalizzazione, in una condizione di ricatto (e sfruttamento) continuo:

a. si punta a fare del CTD il contratto standard per tutti/e, dai 30 anni all’età della pensione. Tale contratto, basato su un rapporto individuale, ricattabile e subordinato (che prevede una tutela sindacale funzionale alle esigenze delle imprese, quando c’è) deve diventare il contratto di riferimento, in grado di sostituire per obsolescenza il contratto a tempo indeterminato. A tale contratto si aggiungerebbe il contratto a tutele crescenti (presentato a mo’ di pannicello caldo), che verrebbe applicato soprattutto a coloro che presentano livelli di professionalità medio-alti.

b. per i giovani con minor qualifica, l’ingresso nel mercato del lavoro diventa il contratto di apprendistato, ora trasformato, in seguito alle “innovazioni” introdotte dal Jobs Act (atto I), in semplice contratto di inserimento a bassi salari (- 30%) e minor oneri per l’impresa. Il target di riferimento sono essenzialmente i giovani al di sotto dei 29 anni che non hanno titoli universitari (trimestrale e magistrale).

c. per i giovani under 29 anni che invece hanno qualifica medio-alta (laurea o master di I e II livello) entra in azione invece il piano “garanzia giovani”, che, utilizzando i fondi europei del progetto 2020 (1,5 miliardi di euro stanziati per l’Italia, in vigore dal 1 maggio di quest’anno, su base regionale), intende definire una piattaforma di incontro tra domanda e offerta di lavoro, con intermediazione di società pubblico-private garantite a livello regionale, in cui si delineano tre percorsi di inserimento al lavoro in attesa di poter essere poi assunti con CTD o, ora, con il contratto a tutele crescenti: servizio civile (semi gratuito), stage (semi gratuito), lavoro volontario (gratuito). Il modello è quello delineato dal contratto del 23 luglio 2013 per l’Expo di Milano, che ora viene esteso a livello nazionale. L’obiettivo è aumentare – come si dice nel linguaggio europeo – l’occupabilità (employability), ovvero definire occupati a costo zero circa 600.000 giovani (se tutto funziona!), così da toglierli dalle statistiche sulla disoccupazione giovanile e consentire al governo Renzi di mostrare che nel 2015 il tasso di disoccupazione è miracolosamente diminuito di 10-15 punti!

Ne consegue che questa ristrutturazione del mercato del lavoro sancisce la completa irreversibilità della condizione precaria, confermandone la natura esistenziale, strutturale e generalizzata.

Alla luce di queste considerazioni, discutere adesso del mantenimento dell’art. 18 dopo la stabilizzazione del contratto di lavoro, passati i “primi tre anni di prova”, appare quantomeno paradossale.

Renzi e il governo, con il supporto di Napolitano (e ora di Marchionne), si fanno garanti della continuità delle politiche di austerity, rispondono agli interessi del grande capitale finanziario e della grande industria. I sindacati alzano a parole le barricate, dichiarando, nel desiderio di essere credibili (e qualcuno ancora ci casca!), che adesso chiuderanno le porte della stalla, ben consapevoli, però, che tutti gli animali son scappati da molto tempo.

Ricordiamo infine che questi provvedimenti dovranno essere accompagnati – secondo le promesse fatte – anche da una riforma del sussidio di disoccupazione in forma più allargata dell’attuale, in grado di assorbire l’Aspi e il mini-Aspi della riforma Fornero e la cassa integrazione in deroga. La cassa integrazione ordinaria e straordinaria non viene toccata, perché fa troppo comodo alle imprese (che scaricano così sulla socialità i costi privati delle ristrutturazioni) e ai sindacati confederali (che grazie alla gestione della Cassa Integrazione giustificano la loro ragion d’essere).Tale sussidio di disoccupazione è, sul modello del workfare anglosassone, fortemente condizionato. Non stupirebbe se nella sua proposizione si proponesse di rendere obbligo un certo numero di ore settimanali volontarie per poterne avere diritto (come è stato discusso recentemente in Inghilterra).

Last but not least, crediamo che la tempistica tradizionale dei due tempi (prima la deregulation del mercato del lavoro, poi, in un secondo tempo dal futuro incerto, la promessa di maggior sicurezza sociale rispetto a quella oggi operante in modo del tutto iniquo e distorto) dovrebbe essere rovesciata, se è vero (come viene millantato) che tali riforme hanno come obiettivo un minimo di crescita economica e una riduzione dell’elevata disoccupazione

È infatti di gran lunga prioritaria la necessità di intervenire non su un mercato del lavoro già ampiamente precario (dove già oggi solo il 16% dei nuovi contratti può godere dell’art. 18 e meno di un giovane su 10 viene assunto con contratto stabile) ma sull’adeguamento del sistema di welfare a quelli che sono oggi i processi di valorizzazione e accumulazione. Un sistema di welfare che dovrebbe tendere verso forme di Welfare del Comune (Commonfare), le cui linee guida sono:

• Un salario minimo europeo;

• Un reddito minimo, a partire da chi è al di sotto della soglia povertà relativa, in grado poi di estendersi a una platea crescente di possibili beneficiari, all’aumentare della soglia minima di riferimento: un reddito individuale, dato ai residenti e non solo ai “cittadini”, il più possibile incondizionato e finanziato dalla fiscalità generale (e non dai contributi sociali);

• L’accesso libero gratuito ai beni comuni materiali (acqua, ambiente, casa, trasporti) gestiti in maniera pubblica e collettiva e al “comune” (istruzione, sanità, socialità, mezzi monetari), in forme regolate in modo autonomo o con la mediazione pubblica.

Un Welfare del Comune che, tramite diversi strumenti e dispositivi, sia in grado di favorire:

a. dal lato dell’offerta, una flessibilità positiva del lavoro con un maggior sfruttamento di quelle economie di apprendimento e di rete che sono alla base della crescita della produttività e le cui carenze sono la principale causa dell’attuale stagnazione;

b. dal lato della domanda, un processo di riappropriazione di quel valore che la nostra vita produce e che oggi viene espropriato da poche oligarchie, con l’effetto di deprimere i redditi e la domanda, in grado anche di aprire non solo spazi di libertà e autodeterminazione ma anche possibili scenari produttivi alternativi, finalizzati alla produzione dell’uomo per l’uomo.