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Armi e guerre, Banca Etica dice no

Dal 2012, un organismo interno alla banca monitora gli andamenti relativi al ruolo delle banche nelle esportazioni delle armi e incalza le banche con cui ha rapporti a smarcarsi da operazioni di finanziamento di armi

armi

Solo qualche giorno dopo l’implacabile strage di Parigi lo storico Franco Cardini, ospite del talkshow televisivo Porta a Porta, ipotizzava l’esistenza di un collegamento tra il suo conto corrente bancario e la soverchiante disponibilità di armi in mano ai terroristi del sedicente Stato Islamico, e dichiarava la negligenza ottusa di non essersi mai posto il problema prima, di non aver mai cercato di capire dove andassero a finire i suoi soldi. Aveva preso la piega giusta Il dibattito della trasmissione più nazionalpopolare della Rai; con sapienza di storico, Cardini era riuscito a mettere in relazione l’insopportabile complessità della violenza ormai così prossima alle nostre case e la possibilità di un’azione individuale concreta, oltre la mera presa di coscienza. Fiutato subito il pericolo di quel discorso, Bruno Vespa non ci ha pensato un attimo a troncarlo sul nascere.
Di certe cose non si deve parlare.
Banca Etica, invece, quel discorso non ha mai smesso di attizzarlo. Il radicale rifiuto della logica delle armi e della violenza sta nel patrimonio genetico della banca.
Sono passati venticinque anni esatti dall’approvazione della legge 185/90 sul commercio delle armi, modello normativo che ha fatto scuola anche oltre i confini italiani, nato da una tenace campagna della società civile per regolamentare severamente le esportazioni armiere e introdurre un essenziale bagliore di trasparenza nell’opacità che avvolge questo settore. Il Gruppo Banca Popolare Etica, dobbiamo farne memoria, è uno degli esiti più strutturati e complessi di quella esperienza civile e politica, e come tale è totalmente escluso da finanziamenti a sistemi d’arma.  Ma c’è dell’altro: dal 2012, un organismo interno alla banca – l’Osservatorio Banche e Assicurazioni – monitora gli andamenti relativi  al ruolo delle banche nelle esportazioni delle armi e alimenta il dibattito in seno al CdA, per presidiare al meglio il rischio reputazionale della banca. E’ noto che da anni Banca Popolare Etica, incalza le banche con cui ha rapporti societari e/o di collaborazione a smarcarsi da operazioni di finanziamento inerenti l’esportazione, l’importazione e il transito di armi e sistemi di arma.

Un percorso in salita, lastricato di buone intenzioni ma anche di impegni disattesi, dobbiamo dirlo, come si evince dallo scenario complessivo delle relazioni tra banche ed armi, che viene delineato nell’ultimo elenco di banche coinvolte nelle operazioni disciplinate dall’art. 27 della legge 185/90 per l’anno 2014 e nel più recente rapporto Don’t Bank on the Bombs, dell’organizzazione internazionale indipendente ICAN-Pax, che indica gli istituti coinvolti nel settore degli armamenti nucleari.

Non si può sparare nel mucchio, anzi occorre essere molto accurati quando si parla di armi, a maggior ragione di quelle nucleari. Ma neppure è più tempo di transigere in questo snodo orribile di bad banks e guerre fatte in proprio dagli Stati di ogni coalizione per portarsi a casa un pezzo di Medio Oriente, come scrive Alberto Negri su Il Sole 24 Ore. Il ricorso senza remore alla guerra rimane purtroppo, anche dopo Parigi, la strategia d’elezione di un occidente che ha riposto troppa fiducia nelle virtù delle sue bombe intelligenti per considerare politiche intelligenti contro il terrorismo.  L’imbroglio di Daesh del resto nutre il casinò della finanza e segna la fortuna delle azioni belliche quotate in borsa, dicono i dati, mentre tutti i paesi coinvolti nella tempesta di bombe sulla Siria si attivano a rifocillare i loro arsenali.  La Russia ha incrementato le spese militari del 53% dal 2014 (72 miliardi di dollari), seguita dalla Gran Bretagna (62,7 miliardi) e dalla Francia (62,5 miliardi). Il premier britannico David Cameron, sforbiciatore di spesa pubblica su salute ed educazione, ha appena annunciato un incremento di spesa in armi di 16,8 miliardi di sterline. Dal canto suo, il presidente della Commissione Europea ha aperto i cordoni della borsa per derogare al patto d’acciaio del fiscal compact e tramutarlo senza fronzoli, in nome di sicurezza e difesa, in fiscal combat (felice titolo de Il Manifesto).

Così le bombe continuano a cadere sul Medioriente, e a partire dall’Europa. Partono a tonnellate dalla Sardegna, componenti di bombe MK82 e MK84 prodotte dalla fabbrica RWM Italia S.p.A, azienda del gruppo tedesco Rheinmetall, con sede a Domusnovas. Con operazioni notturne di carico, partono alla volta dell’Arabia Saudita, e la Royal Saudi Air Force le userà per bombardare lo Yemen,come già appurato da mesi. Un’ ultima spedizione da Cagliari, la terza del 2015, è stata fotografata proprio nei giorni scorsi, in grottesco contrappunto con il dolore per i giovani morti della generazione Bataclan.

Tutto regolare, rassicura la ministra della difesa Roberta Pinotti, che minimizza: si tratta di una mera “questione geografica”, le bombe non sono italiane ma di una ditta americana che utilizza un subcontratto con una ditta tedesca. Certo. Peccato che anche queste tipologie di produzioni destinate a paesi come l’Arabia Saudita siano vietate dalla legge 185/90. L’ Arabia Saudita non è solo sospettata di aver pesantemente foraggiato Daesh sin dalla sua costituzione, ma è  arcinota per la violazione dei diritti umani (a partire da quelli delle donne), e per la assidua pratica delle esecuzioni (almeno 50, mentre scriviamo, contro attivisti). Come se non bastasse, il governo saudita ha deciso di aprire un altro crinale di conflitto in Yemen contro l’avanzata del movimento sciita Houthi, e continua unilateralmente a colpire malgrado la condanna delle Nazioni Unite. Gli attacchi dei sauditi contro le infrastrutture civili hanno finora prodotto – nel silenzio compiacente della stampa – più di 6000 morti e circa 20.000 feriti, oltre un milione di sfollati e 21 milioni di persone ridotte allo stremo.  Una “catastrofe umanitaria”, secondo la Croce Rossa Internazionale.

Che problema c’è? Le parole di maledizione di Papa Francesco hanno un portato di denuncia che pesa come un macigno, non c’è dubbio,  ma son portate via dal vento della contraffazione mediatica a favore della guerra. E’ in nome di questa scellerata orchestrazione, che muove soldi e potere e terrore nel mondo, che le nazioni si permettono di violare impunemente le norme internazionali sulla guerra, e l’Italia la legge sul commercio delle armi, che impedirebbe qualunque transazione con i paesi del Medio Oriente. Il dibattito della stampa italiana in questi giorni non ha dubbi: la politica estera deve declinarsi in termini di protagonismo bellico, per assicurare un minimo di riconoscibilità al nostro paese. Altro che articolo 11 della Costituzione.

Visto che siamo una banca totalmente disarmata, è opportuno tornare a esplicitare con forza la nostra scelta, perché tutti comprendano. Massimo Marinacci, coordinatore dei soci del Lazio Nord, ha ragione quando sostiene che il minuto di silenzio, in Banca Etica, dovrebbe essere istituzionalizzato, ogni settimana, a ricordare tutte le vittime. Poi, sulle vetrine delle nostre filiali, dovremmo scrivere a caratteri cubitali “questa banca ripudia la guerra e la violenza”. Facciamolo! Servono anche azioni simboliche, per segnare la distanza dal sistema bancario guerrafondaio!