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Anche l’Onu chiede un New Deal globale

Pubblicato il Rapporto Unctad 2017 su commercio e sviluppo. Una dura requisitoria contro le politiche di austerity e le risposte nazionaliste. E la proposta di un ambizioso New Deal globale per un’economia inclusiva e sostenibile

L’ansia provocata dalla “iperglobalizzazione” si sta esprimendo nelle forme regressive del nazionalismo. Al contrasto di questa pericolosa tendenza il dipartimento dell’Onu che si occupa di commercio e sviluppo (Unctad) ha dedicato il proprio annuale Rapporto, dal significativo titolo Beyond Austerity: Towards a Global New Deal.

L’introduzione è firmata dal Segretario Generale Mukhisa Kituyi, ex Ministro dell’Industria del Kenya, che non fa sconti: “l’economia mondiale rimane sbilanciata, non solo in quanto escludente, ma anche perché sta destabilizzando e mettendo in pericolo la salute politica, sociale e ambientale del pianeta”. Anche dove c’è stata la tanto desiderata crescita economica, i guadagni sono andati ad arricchire chi era già ricco.

Inoltre, insistere con la tesi dell’assenza di alternative all’esistente ha creato un terreno fertile per la retorica xenofoba, per politiche isolazionistiche e per scelte che danneggiano gli altri paesi. Perciò, dopo tre decenni di iperglobalizzazione serve un “New Deal globale” per ristabilizzare economie e società profondamente squilibrate. “Ma in un mondo dove la finanza può muoversi liberamente e dove vigono politiche economiche liberiste, nessun paese può fare questo da solo senza rischiare di avere fughe di capitali, collassi delle valute e la minaccia di una spirale deflazionistica”.
Citando un discorso che Martin Luther King tenne alla New York’s Riverside Church cinquant’anni fa, il Rapporto Unctad si apre sostenendo che la triade “di razzismo, estremo materialismo e militarismo sta riemergendo accompagnata da un ripiegamento nel risentito nazionalismo e nella xenofobia”.

Il fatto che l’ansia nel rapporto sia definita il “nuovo zeitgeist del XX secolo” è legato al fatto che “robot, rendite e diritti di proprietà intellettuale stanno prevalendo sui livelli di vita delle persone e sulle loro aspirazioni”. Inoltre, “l’impulso al conseguimento del pieno impiego attraverso un forte sistema di welfare ha visto un cambio di rotta alcuni decenni fa, dato che i governi da fornitori sono diventati abilitatori”.

Nel Rapporto, l’analisi riguarda anche la penetrazione della logica economica nella vita sociale: “l’idolatria del profitto è divenuta dominante non solo in tutti gli aspetti della vita economica ma anche nella società, nella politica e nella cultura”.
L’austerity è divenuta la risposta automatica a livelli “eccessivi” di debito pubblico, nonostante che la gente “desideri ovunque più o meno la stessa cosa: un lavoro decente, una casa sicura, un ambiente sano, un futuro migliore per i propri figli e un governo che ascolti e risponda alle loro preoccupazioni; sostanzialmente, la gente vuole un affare diverso da quello offerto dall’iperglobalizzazione”.

Contro il richiamo esercitato dalle piccole patrie si spiega che “l’iperglobalizzazione non è una forza economica indipendente e immutabile sulla quale il governo non ha controllo. È piuttosto l’esito di un insieme di regole stabilite politicamente, di norme, pratiche e scelte che hanno formato il modo in cui i paesi, le aziende e i cittadini hanno interagito con la loro controparte nell’economia globale”.

Il Rapporto prova a fornire le indicazioni per uscire dalla crisi politica e economica che attanaglia il pianeta e rafforza le forze autoritarie e nazionaliste. Si evita così il reiterato e inutile richiamo a contrastare i populismi, che spesso si risolve in una mera operazione verbale, dal momento che le politiche che hanno suscitato questi fenomeni politico-sociali, quando non si radicalizzano, rimangono le stesse. “La crisi era legata alle crescenti disuguaglianze economiche, dato che queste ne erano sia la causa che l’effetto, ma le politiche adottate dopo la crisi le hanno accentuate”.
Tra le cause delle disuguaglianze, il rapporto indica la presenza di diffusi poteri monopolistici, che derivano perlopiù dall’uso dei brevetti e dei diritti di proprietà intellettuale, strumenti di rendita ai quali va contrapposta la qualificazione della conoscenza e della concorrenza come “beni pubblici globali”.
Ma se è vero che è stata fatta qualche riforma, nel Rapporto si riconosce come pochi tra coloro che hanno causato la crisi abbiano pagato per le loro azioni e che, allo stesso modo, poco sia stato fatto per contrastarne le cause profonde. Non solo la politica di consolidamento finanziario è stata fallimentare, ma anche quella monetaria – nonostante che abbia aiutato banche e istituzioni finanziarie a stabilizzarsi e tornare a fare profitti – non è riuscita a sostenere i consumi e gli investimenti.

Pertanto “non è affatto sorprendente che ci sia un contraccolpo popolare contro un sistema che è percepito come ingiustificatamente squilibrato a favore di poche grandi aziende, istituzioni finanziarie e ricchi”. Qui dunque l’origine dei cosiddetti populismi, nell’ordine pre- e post-crisi.

L’innovazione tecnologica, in questa distribuzione di forze, può acuire le disuguaglianze. La minaccia ai posti di lavoro è reale ma, al contempo, il Rapporto Unctad sostiene che l’enfasi posta sulle tecnologie che sottraggono il lavoro sarebbe un modo per distrarre l’attenzione dalle dinamiche di potere intrinseche all’attuale redistribuzione di ricchezza avvenuta dal basso verso l’alto. Anche perché “ciò che è tecnicamente possibile non sempre è economicamente vantaggioso”.
Le tecnologie, inoltre, non riducono le discriminazioni di genere, ma le accentuano. Ciò è quanto emerge dalle ricerche fatte dagli estensori del Rapporto: “quando la produzione industriale diventa a maggior intensità di capitale, le donne perdono lavoro in quel settore”. Chi crede sia un problema di competenze più che di discriminazione è così confutato.
Non essendo sufficiente aumentare semplicemente la crescita e sperare nell’effetto trickle down sull’eguaglianza di genere, il Rapporto sostiene che una minor liberalizzazione del commercio e politiche fiscali tese ad aumentare gli investimenti, e quindi l’occupazione, favoriscano l’eguaglianza di genere.

L’Unctad critica anche l’approccio microeconomico tenuto da molti economisti, Ong e istituzioni nell’affrontare le disuguaglianze globali. In tal senso, viene contestato anche il premio Nobel Muhamed Yunus, con la sua idea di microcredito come soluzione per sviluppare le potenzialità imprenditoriali sottese ad ogni individuo. Focalizzare l’attenzione sui soli vincoli burocratici e istituzionali da rimuovere non affronta i problemi strutturali dell’economia globale con la sua diseguale distribuzione di risorse e potere.

Nella parole del Rapporto, con la prospettiva del “capitalismo inclusivo” si è allargato il dibattito, ma l’aver considerato i poveri dei paesi in via di sviluppo come imprenditori alle prime armi, oltre che resuscitare “un filone del progetto neoliberale radicato nella tradizione economica austriaca […], fallisce nell’individuare le cause sistemiche di esclusione che derivano dalla natura instabile e polarizzata dei mercati deregolamentati”.

L’uscita dall’iperglobalizzazione verso un’economia inclusiva non riguarda semplicemente la creazione di mercati che lavorino meglio, accentuando il capitale umano, colmando l’incompletezza informativa, semplificando gli incentivi, estendendo il credito ai poveri o fornendo una protezione maggiore ai consumatori”. Serve un New Deal globale che riprenda lo “spirito” del progetto di Roosvelt e del successivo Piano Marshall.
Gli Stati Uniti è difficile che partecipino come fecero nel secondo dopoguerra, e così gli unici piani di investimento all’orizzonte sono quello della Cina, con il suo progetto “One Belt, One Road”, con cui mobilita 900 miliardi di investimenti e quello della Germania che ha recentemente parlato di un piano Marshall per l’Africa decisamente meno ambizioso.

L’Unctad auspica così un New Deal globale il cui presupposto sia la fine dell’austerità, con il relativo ripristino di una strategia di politica pubblica che persegua il pieno impiego. Lo strumento con cui raggiungere un simile obiettivo sono politiche fiscali e monetarie volte a sostenere investimenti inclusivi e sostenibili.

Lo Stato deve tornare ad essere il “datore di lavoro di ultima istanza”. Gli investimenti pubblici, che devono attrarre cooperative e piccole e medie imprese, devono riguardare programmi “di adattamento e mitigazione del cambiamento climatico e promozione delle opportunità tecnologiche offerte dall’Accordo di Parigi sul Clima, nonché le questioni legate all’inquinamento e alla degradazione dell’ambiente”.

Accanto a ciò, bisogna assicurare sistemi pubblici di assistenza sanitaria a bambini e anziani. “I salari devono crescere in linea con la produttività. Questo risultato può esser raggiunto dando forza alle organizzazioni dei lavoratori. Al contempo la precarietà lavorativa deve esser corretta attraverso appropriate misure legislative (che riguardino anche i contratti di lavoro informali) e con politiche attive del lavoro”.

Inoltre, dato che le misure ritagliate sui poveri sono meno efficaci e inclusive di quelle universalistiche, vanno pensati strumenti di sostegno al reddito che non si basino su means test e altre forme di selettività. Il reddito di base, una somma di denaro fornita incondizionatamente e regolarmente ad ogni cittadino, rientra tra queste.

La giustificazione di una simile misura nelle economie più mature va ricercata anche nella debole prospettiva dell’occupazione, sempre più minacciata dall’autonomizzazione del lavoro. Tuttavia, a differenza dell’impostazione liberista al reddito di base, per gli autori del Rapporto Unctad la misura non può pensarsi come sostitutiva – ma solo come aggiuntiva – rispetto a una fornitura universale di beni e servizi pubblici.

Per finanziare questi investimenti volti a realizzare l’auspicato New Deal globale serve incrementare la tassazione sui redditi più elevati, sulla proprietà e sulle rendite. Oltre a ciò, bisognerebbe aumentare le tasse sui redditi d’impresa e contrastare i paradisi fiscali, ad esempio con un registro globale finanziario che rilevi le attività finanziarie detenute nel pianeta.

Vanno affrontate anche le esenzioni fiscali e l’abuso dei sussidi da parte delle imprese, compresi quelli per attrarre o trattenere gli investimenti stranieri. È necessario regolare poi in maniera più efficace la finanza per metterla al servizio del bene comune, spezzando il rapporto tra agenzie di rating e sistema bancario ombra (il sistema di intermediazione creditizia costituito da entità che operano al di fuori dei circuiti regolamentati del sistema bancario).

Ed è necessario aumentare i capitali delle banche di sviluppo regionali e multilaterali e coordinare sovranazionalmente il contrasto ai monopoli e agli abusi di posizione dominante. Per permettere di regolare le economie nazionali, in materia di accordi sugli investimenti vanno riequilibrati i rapporti tra investitori internazionali e Stati a favore di questi ultimi. Anche i sistemi di arbitrato internazionali vanno resi maggiormente centralizzati, prevedendo sistemi di ricorsi e radicandoli più profondamente nel diritto internazionale.

Insomma, secondo il Rapporto Unctad, “sette decenni dopo [l’istituzione di Fmi, Banca Mondiale e Gatt n.d.r], occorre uno sforzo egualmente ambizioso per contrastare le disuguaglianze dell’iperglobalizzazione al fine di istituire un’economia inclusiva e sostenibile”.