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Alti salari contro la recessione

La crisi ci costringe a cambiare. Politiche di redistribuzione del reddito sono essenziali per imboccare una nuova strada di sviluppo. Per farlo, serve un intervento pubblico non limitato alle politiche fiscali e un nuovo patto sociale, in direzione opposta a quella dell’accordo del 22 gennaio

Le notizie che appaiono ogni giorno sui giornali, delineando i contorni di una crisi sempre più difficile, hanno creato ormai una consapevolezza diffusa che quella che stiamo vivendo non è semplicemente una fase negativa dal punto di vista della congiuntura. E’ in qualche modo un momento di svolta che mette in discussione il modo stesso in cui è avvenuto lo sviluppo economico negli ultimi decenni. Si sta anche facendo strada un’analisi che individua nei problemi di distribuzione del reddito le cause profonde dell’attuale situazione. I dati statistici confermano, in maniera chiara, come a partire degli anni novanta si sia realizzato uno spostamento significativo della distribuzione del reddito a favore dei profitti. Questa redistribuzione, che segue quasi un cinquantennio di relativa stabilità delle quote sia in Italia sia negli altri paesi industrializzati, mostra come i benefici dello sviluppo di questi ultimi lustri siano andati prevalentemente a gruppi sociali abbastanza ristretti. Questo risultato riflette le linee di politica di intervento seguite in quasi tutti i paesi industriali avanzati. Politiche che si sono ispirate alla convinzione che la questione della distribuzione del reddito fosse separata, e successiva, rispetto a quella della crescita economica. Che cioè fosse indispensabile creare le condizioni capaci di rendere massimo il tasso di sviluppo al fine di poter disporre delle risorse necessarie a garantire solidarietà e coesione sociale. In questa impostazione, che ha nel mercato l’istituzione principale di riferimento, la flexicurity può essere vista come patto in cui le parti sociali si scambiano sviluppo (garantito dalla flessibilità) contro sicurezza (garantita dalle risorse rese disponibili dallo sviluppo). La crisi di questo modello ci impone di riflettere sulle implicazioni di questo fallimento e di ripensare ai meccanismi di creazione dello sviluppo. La questione della distribuzione deve tornare ad essere una parte essenziale di un percorso di sviluppo di lungo periodo, come peraltro era stato nella cultura economica del dopoguerra. La sfida che come paese e come sinistra abbiamo davanti è quella di delineare un processo di sostegno della quota del lavoro che sia sì compatibile con i vincoli della competitività, ma in un’ottica che non deve guardare solo al breve periodo. Una politica di sostegno dei redditi medi e bassi che sia dunque parte di una strategia di riqualificazione dell’offerta. Questo richiede non solo una maggiore presenza dello stato – che sarà una conseguenza necessaria delle politiche di salvataggio – ma anche, o soprattutto, una presenza diversa.Negli ultimi venti anni lo stato ha sostanzialmente svolto il ruolo di garante delle condizioni della crescita economica, da un lato attraverso la eliminazione dei vincoli al funzionamento del mercato (incluso il mercato del lavoro), e dall’altro attraverso la tutela della profittabilità delle imprese, considerata il motore della crescita. Se l’obiettivo è quello di correggere la distribuzione del reddito a favore del lavoro lo stato deve tornare a svolgere il ruolo, che si era già assunto nel dopoguerra, di garante di un patto sociale tra parti che hanno forza contrattuale strutturalmente differente. Non equidistante dunque, recuperando una parte significativa della tradizione socialdemocratica e di quella liberale, assolutamente esplicite su questo punto. Questo significa che la redistribuzione non può avvenire solo attraverso la fiscalità, anche perché i vincoli all’uso di questo strumento sono tali da rendere questo tipo di intervento di scarsa efficacia. La crescita del reddito da lavoro, necessaria come si è detto per la stessa sopravvivenza del sistema nel lungo periodo, può essere usata come strumento di riqualificazione dell’offerta. In altre parole, occorre avviarsi in una direzione che è esattamente opposta a quella intrapresa con l’accordo stipulato di recente. Con la consapevolezza che una politica di questo tipo può essere costosa per un sistema delle imprese già indebolito dalla crisi, e che dunque va sostenuto nel processo di riorganizzazione dell’apparato produttivo. La crisi ci costringe a cambiare. Da questo punto di vista può rappresentare l’occasione per trovare una nuova ricomposizione di interessi conflittuali. Per porre lo sviluppo su binari diversi, capaci di garantire una nuova coesione sociale. A ben vedere il tentativo di Obama negli Stati Uniti è esattamente questo. Perdere questa occasione non solo può comportare il costo di una società ancora più disuguale, più frammentata, ma anche quello di un processo di crescita economica più difficoltoso. Se non si riuscirà infatti a vincere la resistenza degli interessi costituiti, se non si riuscirà ad incidere sulla distribuzione del reddito dovremmo contare per sostenere il nostro sistema industriale sulla domanda estera e quindi sulle redistribuzioni portate avanti in altri paesi. Al costo di un arretramento progressivo rispetto ai nostri partner.