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A cosa non serve l’accordo sui contratti

Una strategia che cerca di far pagare ai salari la crisi. Mentre i problemi di competitività si dovrebbero affrontare con ricerca e innovazione

Il governo italiano, di fronte alla crisi, ha scelto la via dell’attacco al mondo del lavoro e al sindacato, nella miope convinzione che un calo dei salari possa rilanciare profitti e investimenti e arginare la disoccupazione crescente, o forse più semplicemente per assecondare le richieste degli imprenditori che non sembrano realizzare che salari sempre più miseri e disoccupazione sempre più elevata significano un calo della domanda. E’ una linea che ormai si segue da anni e con risultati disastrosi. L’accordo di gennaio si muove implicitamente all’interno di questa strategia. E’ illusorio pensare che la contrattazione decentrata in questo momento possa rilanciare produttività e competitività dell’industria italiana. Anzi, questo è proprio un momento in cui la contrattazione di secondo livello non può che sortire effetti perversi di ulteriore contenimento dei salari; in effetti, è prevista la possibilità di accordi a livello territoriale o aziendale su livelli salariali inferiori a quello stabiliti dalla contrattazione nazionale in “situazioni di crisi o per favorire lo sviluppo economico e occupazionale”. L’ipotesi su cui si basa questa formulazione è che accordi in senso peggiorativo possano aiutare a salvare l’occupazione in imprese arretrate e senza programmi innovativi. A questo scopo esistono già i contratti di solidarietà; proprio non si sentiva l’esigenza di un ulteriore strumento per comprimere i salari. In realtà, la contrattazione decentrata è uno strumento che ha ben poco a che fare con l’aumento della produttività. Ne ha parlato in questa sede Felice Roberto Pizzuti (Il falso mito dei salari decentrati). Gli “obiettivi di produttività, redditività, qualità efficienza, efficacia”, a cui dovrebbero essere ancorati gli incrementi salariali non sono determinati se non in minima parte dall’impegno dei lavoratori, dipendono invece dagli investimenti, dalle innovazioni, dalla ricerca, dall’organizzazione del lavoro; se questi vengono a mancare non c’è aumento di produttività e si cerca di mantenere in vita attraverso la riduzione dei salari imprese arretrate, imprese che comunque sono destinate a soccombere in tempi brevi. I problemi di competitività dovrebbero invece essere affrontati con misure tendenti a favorire la ricerca, l’innovazione e la valorizzazione del capitale umano. Oltre a un aumento e a una razionalizzazione della spesa pubblica in R&S, è necessario sviluppare misure volte a incentivare la ricerca privata, tenendo conto che gli incentivi fiscali per le imprese che fanno ricerca è una misura forse opportuna, ma non sufficiente. Il problema della scarsa ricerca privata in Italia è legato essenzialmente alla limitata dimensione di impresa. Il 95% delle imprese del settore privato sono infatti microimprese con meno di 10 addetti, che presentano complessivamente livelli di produttività inferiori alla media, pagano salari più bassi della media e non fanno ricerca. Per favorire la crescita della produttività è necessaria una politica industriale seria e articolata che miri a risolvere il problema del sottodimensionamento delle imprese italiane, per esempio il supporto all’attività dei distretti industriali, infrastrutture volte a favorire la creazione di reti di imprese, incentivi all’utilizzo delle tecnologie informatiche, potenziamento del raccordo fra ricerca pubblica e settore privato. Negli anni novanta i guadagni di produttività non sono andati ai lavoratori e i salari reali sono rimasti fermi, mentre sono aumentati in misura rilevante profitti e rendite. Ora, con la recessione, il governo cerca di addossare il peso della crisi sulle spalle dei lavoratori. E’ un’ottica di breve termine, perché la compressione dei salari non può che comportare un ulteriore calo della domanda interna, né in questa fase di crisi mondiale si può pensare di risollevare la situazione puntando sulla domanda estera.Peraltro un calo dei salari reali e la presenza di una forte recessione può comportare il rischio della deflazione. Forse il governo punta consapevolmente al calo dei prezzi per dare un impulso alle esportazioni. Visione miope anche questa, perché la carenza di domanda interna non potrà essere compensata dall’eventuale crescita della domanda estera. Un calo prolungato del livello dei prezzi ha conseguenze devastanti sul sistema finanziario e sull’economia: porta all’aumento del peso reale dei debiti, e quindi al rallentamento dei consumi e degli investimenti, a chiusure e fallimenti delle imprese, all’aumento della disoccupazione. In questo contesto è chiaro che il sindacato costituisce un elemento di disturbo all’azione di governo e imprese e quindi si cerca di cambiarne radicalmente il ruolo tentando di coinvolgerlo nello smantellamento delle tutele al mondo del lavoro, trasformandolo in sindacato che fornisce servizi ai lavoratori ma che, sul piano della contrattazione, svolge un’azione funzionale al mondo padronale. L’enfasi sul ruolo degli enti bilaterali dell’accordo di gennaio rappresenta un evidente tentativo di creare un sindacato subalterno.

Precedenti articoli sull’argomento:

Stefano Fassina: Salari e contratti, un accordo sbagliato

Gianni Baratta: Salari e contratti, perché difendo l’accordo