Vicolo cieco a Bruxelles/1. Il governo Monti, le elezioni, le larghe intese e le decisioni di Bruxelles che condizionano il paese. Le politiche obbligate e quelle mancate. Una conversazione con l’ex viceministro dell’economia Stefano Fassina
A quattro mesi dalle elezioni europee, l’Eurozona è sulla rotta del Titanic e i tempi per un cambio di direzione appaiono strettissimi. «L’ultima occasione utile è la presidenza italiana dell’Unione europea, nel secondo semestre del 2014. Ma prima ci sarà l’ondata populista anti-europea che travolgerà il Parlamento di Bruxelles eletto nella prossima primavera», sostiene Stefano Fassina, fino a poche settimane fa nella cabina di comando del Titanic di casa nostra, nel ruolo di viceministro dell’Economia.
Un anno e mezzo fa, per l’Europa sembrava si potesse aprire una fase diversa: la vittoria di Hollande in Francia, le critiche dei socialdemocratici tedeschi all’austerità della Merkel, le speranze italiane in una coalizione di centrosinistra, le proteste nei paesi del sud Europa. Ne avevamo parlato nel giugno 2012 al Parlamento europeo di Bruxelles, al Forum “Un’altra strada per l’Europa”, promosso da Sbilanciamoci! e dalle reti di movimenti, a cui avevi partecipato anche tu. È stata un’occasione perduta per liberarci dal liberismo? Non è stata un’occasione perduta, ma il quadro è ancora segnato dalle stesse forze dominanti, anche se non sono più egemoni. L’allargamento di posizioni critiche nel dibattito economico, che pure c’è stato, non ha cambiato l’agenda politica. Per come ho conosciuto i principali partiti della sinistra europea, avevo aspettative contenute. C’è sempre stata una scarsa consapevolezza dell’insufficienza delle politiche nazionali per una svolta, e questo riguarda anche i socialisti francesi. Anche in Italia l’orientamento prevalente del Pd, dal governo Monti fino alle elezioni del febbraio 2013, non è stato consapevole della necessità di una svolta. Solo per fare un esempio: è stato il successo elettorale di Beppe Grillo che ha spinto il governo ad affrontare la questione dei ritardi nei pagamenti della pubblica amministrazione alle imprese. A maggio i risultati delle elezioni europee ci consegneranno un Parlamento che temo vedrà predominanti le forze nazionaliste e populiste. Diventerà chiara allora la necessità di correzioni profonde alla rotta presa dall’Europa. Speriamo di non essere troppo in ritardo. Partiamo dal governo Monti: la sua agenda è stato subìta dal centrosinistra. Oggi cosa faresti diversamente? È stata subìta da una parte del Pd, ma un’altra parte del partito ha continuato a ripetere che l’agenda Monti doveva essere quella del Pd. Questo ha paralizzato Luigi Bersani, gli ha impedito di avere una posizione chiara. Avremmo dovuto interrompere il governo Monti con la preparazione della finanziaria nell’autunno 2012, riconoscendo che dopo le amministrative, che erano state negative per il Pdl, ci sarebbe stata una guerriglia politica e segnare un’autonomia politica. È stato Napolitano a impedirlo? C’era anche un problema interno al Pd, la lettura prevalente era che eravamo sulla rotta giusta. Eppure Bersani poteva contare su una buona maggioranza.Sì, ma nel partito non c’era una lettura su cui convergesse una maggioranza. Di più: la lettura prevalente era che comunque bisognava dare seguito all’agenda imposta da Bruxelles, mentre avremmo dovuto dare all’opinione pubblica un segnale chiaro di discontinuità e proporre un’alternativa seria. Non siamo stati credibili alle elezioni, ma subalterni, e il nostro era un messaggio di continuità su una linea che il paese non riconosceva. Il dopo elezioni poteva andare diversamente? Qui apriamo un capitolo doloroso. Con il senno di poi avremmo dovuto riconoscere subito la sconfitta elettorale, farci carico di un governo di grande coalizione, bilanciandolo con una soluzione di garanzia per la presidenza della Repubblica e con un’agenda di riforme istituzionali da realizzare in un periodo definito. Era l’unico modo per dare al Pd una capacità negoziale maggiore di quella che ha avuto. Invece siamo arrivati al governo di larghe intese in modo disastroso. Vuoi dire che come viceministro dell’Economia hai avuto le mani legate? Se si fosse realizzato quel contesto, e se fossimo riusciti a impostare un altro rapporto con l’Europa, ci sarebbero stati margini di manovra maggiori. Dovevamo andare a Bruxelles e imporre una revisione dei nostri obiettivi di finanza pubblica, e l’avvio di operazioni anticicliche significative per attenuare la contrazione dell’economia. Sono arrivato al governo consapevole di avere spazi ristretti di manovra e ho cercato di introdurre elementi di discontinuità. La manovra 2013-2014 è la prima qualitativamente espansiva, e che ha dato risposte ad alcune emergenze del paese. Ne cito solo due: abbiamo salvaguardato 30 mila esodati e siamo riusciti a contenere la pressione a considerare la spesa pubblica come un aggregato negativo tutto da tagliare. Però avete cancellato l’Imu, come voleva Berlusconi: un regalo ai più ricchi. Quella dell’Imu è stata una partita eminentemente politica. La condanna di Berlusconi ha pesato come un macigno e noi eravamo arrivati deboli al tavolo di governo. C’era la possibilità che si arrivasse a un provvedimento di grazia a Berlusconi, e sarebbe stato un grave vulnus per la democrazia. Era evidente che non c’erano le condizioni di finanza pubblica per cancellare l’Imu, ma la priorità è stata affrontare la vicenda berlusconiana senza contraccolpi istituzionali. Anche se abbiamo pagato un costo elevato. Non era scontato che Berlusconi non facesse cadere il governo e costringesse il paese a elezioni, cavalcando la questione dell’Imu. Cioè, evitare le elezioni ci è costato 4 miliardi? Suona un po’ brutale, ma è così che è andata. Come si potrebbe far uscire l’Europa dal vicolo cieco delle politiche liberiste? Dovremmo far maturare la consapevolezza che c’è un problema sistemico. L’Eurozona è su una rotta, che io definisco mercantilista, insostenibile per tutti: inseguimento disperato del pareggio di bilancio e delle mitiche riforme strutturali, formula retorica per indicare l’ulteriore precarizzazione del lavoro finalizzata alla definitiva marginalizzazione dei sindacati e alla riduzione delle retribuzioni. In Italia, larga parte della sinistra e del sindacato è accecata da questo paradigma. Non si rendono conto che puntare su un consistente taglio della spesa pubblica – come si è visto nella discussione in Italia con il “cuneo fiscale” – vuol dire ridimensionare, fino allo snaturamento, il welfare europeo. Noi dobbiamo porre questo problema. Noi chi? L’Italia, il Pd, ma sull’allentamento dei vincoli europei di bilancio c’è un consenso ben più ampio, è l’unico punto di convergenza vera con la destra, per ragioni magari strumentali. Mettere in discussione alcuni punti della politica europea potrebbe essere possibile, ma il problema è che per farlo servirebbe una maggioranza capace di una tenuta politica generale, con una forte credibilità. E non è questo il nostro caso. Destra e Pd hanno idee contrapposte sulle riforme da fare sul piano interno. O no? Il mercato del lavoro, il welfare, la spesa pubblica sono nodi che dividono lo stesso campo del centro-sinistra. Una larga parte del Pd non è ancora uscita dal paradigma degli ultimi trent’anni. Se il problema è sistemico perché non c’è stata nessuna iniziativa per mettere insieme la periferia dell’Europa e avanzare una proposta condivisa nei confronti di Berlino e Bruxelles? Perché nessuno, nemmeno la Francia che ha scelto di restare sotto l’ala protettiva della Germania, l’ha messo nell’agenda politica degli ultimi anni. La rotta mercantilista dell’eurozona inibisce a qualunque governo nazionale la realizzazione di politiche capaci di rilanciare l’economia. È un dato di realtà, non una valutazione politica. Aggiungo però che di fronte al fallimento di quell’impianto maturano posizioni alternative, anche se ancora non hanno la forza di presentarsi come un cambiamento del sistema europeo. Che cosa si dovrebbe fare? Nel medio periodo sono necessari aggiustamenti istituzionali di grande portata. L’Unione bancaria dovrebbe essere solo un primo passo verso l’unico assetto unitario che permetterebbe ai paesi europei di sopportare shock asimmetrici di portata rilevante, e quest’assetto non può che essere un’Unione federale. Con una Bce prestatore di ultima istanza che affianchi un’Unione dotata di un bilancio “vero” in cui è il Parlamento a dettare la linea e a rappresentare democraticamente gli interessi dei cittadini europei. Invocare una radicale correzione di rotta nell’eurozona non vuol dire evitare di affrontare i nostri deficit di riforme, necessarie ma costose in termini di consenso. Ma l’obiettivo delle riforme dovrebbe essere, in Italia e nell’Unione europea, la redistribuzione del reddito, sia nel rapporto tra salari, profitti e rendite, sia attraverso i meccanismi di tutela offerti dal welfare. Oltre che per ragioni di equità, questa politica è necessaria per rianimare i consumi interni. Sembrano le proposte che ha avanzato Sbilanciamoci. E infatti sono qui a discutere con voi. Quali sono i veri poteri che condizionano la politica italiana? Bruxelles, la Commissione, la Banca centrale, i mercati finanziari? Qual è la telefonata che a Via XX Settembre si teme di più? C’è un problema generale di debolezza della politica rispetto all’economia. Le istituzioni messe in campo in Europa, invece di aiutare la politica, ne aggravano la subalternità. Poi c’è, nei protagonisti delle amministrazioni economiche, un segno culturale, un orientamento che è quello di cui abbiamo parlato fino ad ora. Al ministero dell’Economia ci sono persone di straordinaria qualità che vivono con l’angoscia dello spread tra i tassi d’interesse sul debito, un’angoscia che viene incrementata o ridotta a seconda degli input che vengono da Francoforte o da Bruxelles. Chi decide chi è il ministro dell’economia in Italia? Mi avvalgo della facoltà di non rispondere. Di fronte alla crisi industriale, in Francia il governo interviene su Peugeot, perché in Italia non si fa? Si fa in parte, su Ansaldo abbiamo fatto una scelta diversa, su Alitalia stiamo facendo una scelta diversa. Vero è però che in larga parte del Pd permane la convinzione che è meglio non intervenire, c’è il timore che la Cassa depositi e prestiti diventi una nuova Iri. C’è un ritardo culturale, e ci sono anche interessi materiali che pesano. Però quella è la direzione in cui dovremmo andare: utilizzare la Cassa depositi e prestiti per fare una nuova politica industriale. Anche sui caccia F35 il governo non ha cambiato idea. I militari sono poteri intoccabili? Non intoccabili, sicuramente però con una capacità di condizionamento rilevante. Ma per tornare sul terreno politico: in Parlamento si possono determinare convergenze importanti, con Sel per esempio, su scelte fondamentali di politica economica europea. In vista del Def – il documento di programmazione finanziaria – vorrei lavorare con il Pd, o con una parte di esso, per far maturare dentro il Parlamento una posizione che contribuisca a riorientare la rotta. Questo è un terreno di lavoro comune, dal centrosinistra a Sbilanciamoci. Matteo Renzi sembra di un altro avviso. Si rischia la scissione dentro il Pd? No, sono giornate complicate, faticose, siamo alle prese con un cambio di paradigma anche nelle relazioni tra di noi, ma escludo categoricamente scissioni, c’è bisogno di una dialettica più costruttiva e spero che le mie dimissioni servano a darci la scossa per andare in questa direzione
Leggi qui le proposte di Euro-pen per cambiare la politica economica europea
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