Sono 126 mila i laureati espatriati dopo il 2011. E ora c’è il serio rischio di un crollo delle immatricolazioni oltre il 20 per cento. I 278 milioni di euro in più del decreto Rilancio non basteranno. Servono risorse a lungo termine, fine del numero chiuso e della frammentazione competitiva.
L’emergenza Covid è un’occasione per ravvivare il dibattito sul ruolo dell’università e della ricerca nella nostra società. La domanda pressante delle istituzioni pubbliche posta alla comunità scientifica per terapie, vaccini, rassicurazioni sull’evoluzione dell’epidemia mostra quanto sia decisivo disporre di un sistema di ricerca pubblico per gestire eventi quali le emergenze e le pandemie. Oltretutto il contributo che può fornire la comunità scientifica al rilancio del Paese è ancora più importante per ricostruire un modello sostenibile di società più robusta in grado di prevenire le emergenze.
Le università sono diventate in poche settimane virtuali, con il rischio di un crollo delle immatricolazioni anche più profondo del meno 20 percento del 2008, a cui si deve dare una risposta favorendone l’accesso agli studenti con rette più basse e con il superamento del numero chiuso, i cui effetti nefasti si sono visti oggi, con la scarsità di medici specializzati negli ospedali ai quali è servito l’affiancamento di pensionati e medici volontari da paesi come Cuba e l’Albania.
Seppure il decreto Rilancio fornisca ingenti risorse al mondo dell’università e della ricerca con maggiori dotazioni per i fondi di ricerca e con un piano di assunzioni assai impegnativo, i problemi che affliggono il mondo della ricerca pubblica hanno bisogno di altri interventi normativi e soprattutto di una visione strategica.
I finanziamenti del decreto Rilancio servono appena a compensare, parzialmente, i molti anni di tagli alla ricerca pubblica e all’università che hanno ridotto il personale di ricerca di ruolo delle università di oltre il 25 per cento tra il 2008 e il 2018, incrementando una precarietà intellettuale diventata endemica, con pochissime opportunità di stabilizzazione come in nessun altro settore della pubblica amministrazione. Il decreto Rilancio prevede maggiori stanziamenti per il comparto università, ricerca pubblica e alta formazione di circa 278 milioni di euro per il 2020, 612 nel 2021, 750 nel 2022 e 450 milioni negli anni successivi. Se si aggiunge la ricerca applicata e l’innovazione, nel 2020 il decreto stanzia altri 530 milioni nel 2020 e 15 milioni per il 2021 e il 2022.
Nel complesso l’aumento di spesa è sicuramente un segnale positivo seppure di minori dimensioni rispetto ad altri capitoli del decreto, come nel caso di Alitalia che da sola assorbe tre miliardi di euro, come sottolineato da alcuni esperti (nota 1) che ricordano anche come da solo il decreto Rilancio non fornisca un cambiamento di rotta rispetto al passato.
Lo spettro di lunghi anni di precariato e le scarse opportunità hanno favorito la diaspora dei nostri ricercatori all’estero. Per l’Ocse circa 11 mila ricercatori hanno abbandonato il Paese tra il 2002 e il 2015, con un’accelerazione dopo la crisi del 2011. Oltre 126 mila italiani con la laurea hanno abbandonato il Paese tra il 2012 e il 2017, con un ritorno di emigranti con laurea assai inferiore. Ogni anno oltre 1.100 dottori di ricerca dopo il termine del dottorato hanno spostato stabilmente la residenza all’estero. Infine la Corte dei conti ha ricordato come in soli otto anni oltre 9 mila medici formati in Italia abbiano preferito cercare lavoro all’estero.
Il quadro dell’università e ricerca pubblica italiana, dopo avere fermato la continua riduzione di risorse disponibili dal 2018, deve proporre un nuovo modello più ambizioso che sappia risolvere i problemi strutturali che attanagliano la ricerca pubblica (risorse scarse, burocratizzazione, frammentazione, fuga dei cervelli) facendo tesoro del capitale umano dei ricercatori italiani che da anni riscuotono successi sul numero e sulla qualità delle pubblicazioni scientifiche a livello internazionale.
L’ossessione per la ricerca competitiva ha condotto a maggiore precariato, alla predilezione di progetti di ricerca meno rischiosi e ad una competizione artificiosa tra atenei. Invece una maggiore sicurezza dei fondi istituzionali, con un ritorno a posizioni lavorative stabili, sarebbe il principale antidoto alla diaspora dei nostri ricercatori che spesso fanno le fortune dei Paesi nostri concorrenti sui mercati internazionali, per i quali vengono attivate misure assai costose.
Inoltre la frammentazione e la duplicazione delle competenze dopo i primi timidi passi del decreto Madia del 2016 non ha trovato alcun rimedio. A vario titolo numerose istituzioni pubbliche possiedono strategie e programmi di ricerca a cominciare dalla presidenza del consiglio fino ai ministeri quali il lavoro, agricoltura e foreste, difesa, sanità e ambiente. La divisione attuale scoraggia la collaborazione fra le istituzioni di ricerca e rende meno efficace il contributo della comunità scientifica al progresso del Paese . Con l’emergenza sanitaria tale contraddizione è diventata ancora più evidente, l’Istituto superiore di sanità dipende dal ministero della Salute che possiede un proprio programma per la ricerca sanitaria, con la necessità di task force e diversi coordinamenti per fornire un supporto scientifico multidisciplinare alle scelte politiche durante l’emergenza. Tale frammentazione ha creato molte difficoltà anche nel rilascio tempestivo da parte delle Regioni, di dati di dettaglio dell’epidemia a favore dell’intera comunità scientifica (nota 2).
La creazione del ministero della Ricerca e università è stato un segnale positivo, ma lascia ancora perplessi la breve vita dell’Agenzia nazionale della Ricerca, istituita a dicembre 2019 con la legge di bilancio e definanziata il mese successivo.
La ricerca per settori quali la sostenibilità, oltre a settori quali la medicina digitale, i big data e l’intelligenza artificiale coinvolgono comunità scientifiche multidisciplinari, mentre il sistema di valutazione della ricerca favorisce i ricercatori attivi entro il recinto sempre più stretto dei settori scientifico disciplinari, penalizzando quelli coinvolti nei gruppi di ricerca multidisciplinari e spesso più all’avanguardia. Invece di costruire un ecosistema vivace e proattivo con piccole comunità specializzate in un settore scientifico fondamentali per sviluppare i salti tecnologici assieme a comunità multidisciplinari decisive per l’innovazione e per lo sviluppo delle tecnologie disponibili.
Il programma nazionale della ricerca potrebbe rappresentare un’occasione per dileguare le numerose ombre che affliggono la ricerca pubblica a cominciare dal superamento delle frammentazioni, con una visione che sappia valorizzare la terza missione ovvero verso il contributo che la scienza fornisce al Paese e che sappia rispondere all’evoluzione della comunità scientifica.
Il programma nazionale della ricerca dovrebbe avere un impegno finanziario certo con obiettivi definiti e misurabili. Gli obiettivi di Benessere equo e sostenibile (BES), già presenti nella programmazione del bilancio pubblico, potrebbero essere assunti come asse portante per il contributo della comunità scientifica a livello nazionale, i goal dell’Agenda 2030 potrebbero diventare i target internazionali all’interno della struttura di Horizon Europe, nonostante le incertezze sulla sua dimensione e articolazione per il cambio di Commissione europea e per l’emergenza Covid, per migliorare il tasso di successo del nostro sistema nazionale al suo interno.
Con tali premesse la crisi potrebbe trasformare il 2020 nell’anno del rilancio della ricerca e delle università pubbliche, a condizione che, oltre ai maggiori stanziamenti di risorse, si riveda la politica della ricerca e università in una prospettiva di lungo termine come asse strategico per una crescita sostenibile del Paese.
NOTE
2 https://www.scienzainrete.it/articolo/ai-presidenti-delle-regioni-aprite-dati-su-covid-19/2020-04-20