Tra conflitti di interesse e azione di lobbying proseguono le trattative tra Stati uniti e Europa sul trattato transatlantico. Un bilancio dei negoziati e alcuni scenari che si aprono sul nuovo anno
“Il mandato politico che abbiamo ricevuto dai Governi dell’Unione ci impegna a chiudere un accordo che non abbassi direttamente in alcun modo gli standard di sicurezza ambientale, sociale e generali in vigore in Europa. Dovete fidarvi, e alla fine del negoziato, quando il trattato sarà chiuso in ogni sua parte, potrete verificare quanto questo impegno sarà stato da noi rispettato”. Il negoziatore europeo del Trattato transatlantico di liberalizzazione del commercio e degli investimenti Ignacio Bercero, nel faccia a faccia organizzato il 25 novembre scorso al Ministero dello Sviluppo economico dal viceministro Carlo Calenda con la Campagna Stop TTIP è stato molto chiaro: fino all’ultimo giorno, vietato disturbare il manovratore. Nel corso dell’incontro la Campagna ha sollevato punto per punto, scorrendo il testo dell’accordo ormai pubblico, tutte le finestre normative attraverso le quali sarà possibile per gli interessi di pochi trasformare i diritti di tutti in ostacoli al commercio da rimuovere più in fretta possibile nella pletora di “organismi transatlantici” che il trattato andrà a costituire, dove non meglio definiti politici e tecnici individuati dalla Commissione europea e dal Ministero al Commercio Usa si occuperanno di velocità degli sdoganamenti come di etichette sui prodotti, di dazi come di standard di qualità, di caratteristiche dei prodotti come di diritti del lavoro. Ma Bercero non è mai entrato nel merito, limitandosi a dichiarare: fidatevi di noi e vedrete.
Se i Governi europei premeranno abbastanza forte, e Obama riuscirà a smuovere anche quella parte del Congresso che ancora diffida del TTIP, entro il 2016 il trattato sarà confezionato e la palla passerà al Parlamento europeo, che se non sarà soddisfatto del risultato raggiunto potrà bocciare quanto raggiunto fino a quel momento con un agile segno di tastiera. Ma chi può fidarsi di un Parlamento attraversato da forti tensioni nazionali e radicalizzazioni, al punto da trasformare ogni partita, persino quella dolorosa dei rifugiati, o quella danarosa del quantitive easing, in derby tra europeisti ed euroscettici, tra destra radicale e rigurgito centrista? Non c’è posto, in questi tempi, per sottili analisi d’impatto, per valutazione attente di danni e guadagni. Su uno zerovirgola di presunti aumenti del Pil si giocano le credibilità di intere legislature anche a casa nostra, e per questo, più che aspettare l’ultimo minuto, preferiamo continuare a monitorare passo a passo il TTIP, per capire meglio quanto c’è di vero e quanto c’è di tattica negoziale in affermazioni così rassicuranti.
Sicurezza alimentare: desideri e realtà
Quanto la cronaca ci ha raccontato nei giorni successivi ad un tanto importante incontro, racconta infatti un’altra storia. Innanzitutto sul tema dell’agroalimentare: nel briefing “Il fattore “C”: rischi e opportunità nel TTIP per il settore agroalimentare europeo”ici siamo basati sui Rapporti n. 198 “Agricoltura nel TTIP: Tariffe, Contingenti tariffari (Tariff-Rate Quotas/TRQs) e Misure non tariffarie (Non-TariffMeasures/NTMs)”viii, e n. 199 “Valutazione degli effetti sul commercio agroalimentare tra Usa e Ue di alcune Misure Sanitarie e Fitosanitarie (Sanitary and PhytosanitaryMeasures/SPMs) e Barriere Tecniche al Commercio (Technical Barriers to Trade)ix appena pubblicati Servizio ricerche economiche del Ministero dell’Agricoltura americano e abbiamo scoperto che il fitto commercio agroalimentare Usa-Ue sarebbe limitato proprio da alcune misure sanitarie e fitosanitarie e da barriere non tariffarie che imporrebbero alle merci in viaggio un peso equivalente a un dazio del 120% medio rispetto alloro valore. Le tariffe in vigore tra Usa e Ue sono relativamente basse rispetto agli standard globali, anche se il nostro mercato è più “protetto” rispetto a quello Usa. La tariffa semplice media applicata per tutti i beni è stimata intorno al 3,5 per cento per le esportazioni dell’UE verso gli Stati Uniti e del 5,5 per cento per le esportazioni americane verso l’UE. Inoltre, il 37 per cento di tutte le linee tariffarie negli Stati Uniti e il 25 per cento nell’Unione europea sono già a zero. Le materie prime agricole, tuttavia, tendono ad avere tariffe maggiori rispetto ai prodotti non agricoli. Quali sono però, a conti fatti, queste barriere? Barriere che, peraltro, se saltassero assicurerebbero comunque agli Usa un volume di esportazioni doppio rispetto a quello prevedibile per l’Ue, che causerebbe secondo tutte le valutazioni d’impatto una vera e propria frenata degli scambi intra-europei e la saturazione di molti dei settori importanti anche nel nostro Paese come quelli di carni, frutta, verdura, latte e formaggi, olii vegetali. I tecnici degli Stati Uniti le indicano senza reticenze: le restrizioni poste dall’Europa per l’uso di trattamenti di riduzione degli agenti patogeni (PRT), ossia l’uso di antibiotici, clorati e altre delizie per immunizzare manzo e pollami; le restrizioni alla importazione e l’uso di prodotti agricoli derivati da agricoltura biotech per soia e mais;, il divieto a bovini e carni bovine allevati con ormoni, il basso livello che fissiamo per i residui chimici in frutta, verdura e noci; le restrizioni alla carne di maiale e di altri animali trattati con antibiotici; i limiti al numero di cellule somatiche consentito nel latte crudo, le restrizioni fitosanitarie sulle sementi riesportate. Se vogliamo accelerare il commercio agroalimentare transatlantico di percentuali significative, dobbiamo azzerarle tutte, dicono i tecnici. Come questo sarà possibile senza compromettere, come da mandato politico, la sicurezza alimentare dei nostri Paesi è un mistero della fiducia negoziale. Un mistero fideistico che si scontra con la cruda realtà.
Nelle scorse settimane, infatti, il ministro per l’Agricoltura statunitense Vilsack ha visitato Bruxelles per una serie di incontri con parlamentari e portatori d’interesse proprio sul TTIP, e non ha usato perifrasi per confermare la linea americana. Le tre questioni che devono essere affrontate con urgenza, a suo dire, sono proprio l’opposizione europea per le esportazioni USA di manzo e per gli organismi geneticamente modificati, e l’opposizione Stati Uniti al sistema delle indicazioni geografiche o denominazione di protezione dell’origine dell’UE. “Se non affrontiamo queste difficili questioni spinose e si decide di non trattarle, perché sono troppo complesse, allora a mio avviso non si ha intenzione di avere un accordo TTIP”, ha detto ai giornalisti. “Gli interessi agricoli negli Stati Uniti, da soli, non sono politicamente abbastanza potenti per ottenere un accordo – ha concluso – ma sono certamente abbastanza potenti per fermare un accordo anche concluso”, ha aggiunto minaccioso. Vilsack, d’altronde, è forte del fatto che nel recente accordo TTP che gli Usa hanno chiuso con una nutrita schiera di Paesi affacciati sul Pacifico Giappone compreso, tali restrizioni siano esplicitamente escluse, come, d’altronde, è nei fatti vietata una protezione speciale per i prodotti ad origine controllata cosa che indebolisce per sempre in un’area non trascurabile del mercato globale l’Agenda europea sulle indicazioni geografiche di cui l’Ue continua a vantarsi. “La sicurezza alimentare non è negoziabile” ha tuitatto pronto Calenda su sollecito via etere della Campagna Stop TTIP italiana, ma è chiaro che lo è, eccome. E anzi, la prospettiva più accreditata è quella che la succulenta partita agricola potrebbe essere ceduta dall’Europa agli Usa per ottenere un rafforzamento dei nostri interessi offensivi in altri settori, come quello energetico, industriale, o degli investimenti.
Salviamo il clima: la retorica e i fatti
Se, infatti, gli Stati Uniti fanno resistenza alla stesura di un apposito capitolo del TTIP che parli di energia, l’Europa, d’altro canto, sembra completamente in balia degli interessi corporativi anche in questo settore. Il Guardianii ha rivelato, infatti, che Exxon Mobil, una delle più grandi multinazionali petrolifere al mondo, avrebbe avuto accesso privilegiato ai documenti riservati del TTIP per quello che riguarda in particolare il capitolo Energia del trattato. Alla ricerca di concreti input soprattutto sulla questione delle importazioni di gas e petrolio statunitense, la stessa Business Europe, la confederazione degli imprenditori europei, ha offerto un “contact point” all’amministrazione statunitense, in particolare al Dipartimento per l’energia, nel tentativo di rendere più semplice il processo negoziale. Una commistione tra interessi pubblici e privati che ha scandalizzato anche alcuni europarlamentari, come la verde Ska Keller che ha dichiarato come i documenti rivelino “una scioccante vicinanza tra gli interessi dei gruppi imprenditoriali e la Commissione”. Uno scenario che farebbe domandare “chi effettivamente stia scrivendo le bozze del testo”. Ma soprattutto chi, più in generale, sta utilizzando il canale delle politiche commerciali, più riservate e secretate degli altri temi sui quali i trattati europei non hanno affidato alla Commissione la competenza esclusiva, per liberare le mani degli interessi forti a tutto campo, senza alcun rispetto per le priorità logiche dettate dalle vere emergenze che i cittadini debbono affrontare. Pensiamo, ad esempio, ai cambiamenti climatici e ai danni che stanno arrecando alla nostra vita sociale e produttiva. Mentre i Governi nazionali, però, professavano tutto il loro impegno per la riuscita della Conferenza delle Parti sul Clima di Parigi, e la loro disponibilità ad affrontare tutte quelle politiche che portassero ad un ulteriore danneggiamento delle condizioni ambientali del pianeta, il Trade Policy Committee dell’Unione Europea decideva con un documento strappato alla segretezza dai movimenti Stop TTIP europei, che la Convenzione Quadro del’Onu sul cambiamento climatico non fosse il forum adatto per parlare di commercio internazionale, considerata l’attività del forum multilaterale della WTO, l’Organizzazione Mondiale del Commercio, e che “ogni misura adottata per combattere il cambiamento climatico” non avrebbe dovuto costituire un mezzo di “restrizione del commercio internazionale”.
“Non si faccia nessuna menzione specifica su questioni inerenti al commercio e alla proprietà intellettuale” nei negoziati sul clima, continuava il documento, perché ogni tentativo di inserire questi temi nella discussione della COP21 di Parigi non avrebbe potuto essere accettato. Mentre, insomma, di fronte alla instabilità mondiale Ong, Sindacati e movimenti ribadivano la propria richiesta che fossero le Nazioni Unite a gestire le crisi globali, clima in testa, e che al massimo le altre assisi fossero considerate strumentali rispetto agli obiettivi che la comunità politica internazionale si dia, ancora una volta la logica del “business is business” prevaleva. Impedire, infatti, alla COP di poter trattare degli impatti delle liberalizzazioni del commercio sulla lotta al cambiamento climatico, rispostando tutto alla WTO e ai trattati commerciali come il TTIP, significa indebolire strutturalmente il negoziato climatico, inserendo una gerarchia che favorisce gli interessi economici rispetto alla tutela dell’ambiente. Già la pubblicazione del capitolo sullo sviluppo sostenibile del TTIP avvenuta sempre nelle settimane precedenti alla COP, dimostrava in realtà come ogni riferimento al rispetto di accordi multilaterali sull’ambiente o alle stesse convenzioni dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro fosse pura retorica, visto che in esso non si prevede alcun meccanismo sanzionatorio capace di far rispettare questi principi.
Profitti o diritti: altro che riforma
La ciliegina sulla frittata mal impiattata del commercio transatlantico la mette la discussione relativa alla presunta riforma dell’arbitrato per la difesa degli investitori sulle decisioni degli Stati a loro avverse, o ISDS. La Commissione europea infatti, nel tentativo estremo di vincere la resistenza creatasi negli Stati membri contro una previsione di questo tipo, ha proposto che esso si trasformasse in una corte permanente globale, istituzionalizzando, così, un percorso parallelo rispetto alla giustizia ordinaria dove gli investitori potessero far valere i propri interessi su quelli degli Stati. Un modello da esportare, nel medio periodo, ben oltre il mercato transatlantico. Peccato, però, che il suo collega Usa gliel’abbia respinta al mittente ancor prima che gli venisse formalmente presentata. E che una bocciatura sonora sia arrivata anche dalle Nazioni Unite. Il dispositivo ISDS, contenuto in centinaia di accordi di libero scambio siglati nell’ultimo quarto di secolo, ha responsabilità pesanti, e nemmeno la riforma proposta dalla Commissione europea mette al sicuro le società dalle drammatiche ricadute. Lo ha spiegato Alfred de Zayas, esperto indipendente delle Nazioni Unite, nel suo quarto rapporto sulla “Promozione di un ordine internazionale equo e democratico”. Nella relazione, presentata all’Assemblea generale, l’esperto concentra l’analisi sull’impatto degli accordi sugli investimenti e chiede l’abolizione dell’ISDS. “Negli ultimi venticinque anni – ha denunciato de Zayas – i trattati bilaterali e gli accordi di libero scambio con gli ISDS hanno influenzato negativamente l’ordine internazionale e minato i principi fondamentali delle Nazioni Unite, la sovranità dello Stato, della democrazia e dello Stato di diritto. Ciò induce una vertigine morale nell’osservatore imparziale. […] L’ISDS ha compromesso le funzioni regolatorie dello Stato e ha portato a crescere le disuguaglianze”.
A suffragio della propria tesi, l’esperto cita una sfilza di casi in cui la clausola – che consente alle imprese estere di trascinare uno Stato dinanzi ad opache corti arbitrali private e sovranazionali – è stata invocata per la presunta violazione degli accordi commerciali. La conclusione è questa: non vi è alcuna necessità di privatizzare la giustizia, perché “gli investitori possono sempre adire i giudici nazionali […] o fare affidamento sulla protezione diplomatica e le procedure inter-statali di risoluzione delle controversie”. De Zayas non ha risparmiato nemmeno la recente proposta della Commissione europea di cucire su misura per il TTIP un Investment Court System, più “morbido” dell’ISDS vecchia maniera. Infatti, questa corte “soffre di difetti fondamentali e potrebbe essere adottata solo se fosse garantito il primato dei diritti umani, e se le aree essenziali di regolamentazione dello Stato, tra cui il controllo del tabacco, degli standard del lavoro e la tutela dell’ambiente fossero esclusi dalla sua giurisdizione”. Concessioni che né Bruxelles, né tantomeno Washington, sono d’accordo a fare. Ma per il consulente dell’ONU è inaccettabile: va posta una moratoria su tutti i negoziati in corso fino a che tutte le parti non siano state consultate. Questo significa che anche i sindacati, le unioni dei consumatori, gli operatori sanitari, gli esperti ambientali, di diritti umani e tutto l’articolato mondo della società civile hanno il diritto di esprimere un parere. Gli accordi che non sono figli della partecipazione del pubblico e senza una valutazione di impatto in termini di diritti umani (ex ante ed ex post), devono considerarsi privi di ogni legittimità democratica.
Fermare il TTIP proprio nel 2016, in quest’anno di crescente instabilità e conflitto, come si propongono di fare le Campagne Stop TTIP in Europa e negli States, sarà dunque un importante contributo al ridisegno di una geopolitica dei diritti e della cooperazione tra tutti i Paesi del pianeta, che superi la localizzazione e la concentrazione degli interessi in una prospettiva di pacificazione globale. Non possiamo aspettare che l’ultima parola sia scritta in questa brutta pagina della nostra democrazia: il TTIP va fermato, e subito.
*Monica Di Sisto è vicepresidente di Fairwatch, tra i portavoce della Campagna Stop TTIP Italia www.stop-ttip-italia.net
i https://stopttipitalia.files.wordpress.com/2014/02/nov-2015_dossier-agricoltura-ttip-fairwatch.pdf
ii http://stop-ttip-italia.net/2015/11/26/ttip-i-privilegi-dellindustria-petrolifera/#more-1939