Cosa si nasconde sotto i ghiacci della Groenlandia e, cosa ancora più misteriosa, dietro le dichiarazioni di Trump e Vance sull’isola a nord della Danimarca. Dalle terre rare ai guadagni a Wall Street delle corporation minerarie. E Putin cosa farà?
Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha appena emesso un altro ordine esecutivo. Questa volta ha avuto un po’ meno clamore, anche se non è meno bizzarro degli altri.
In base a una legge che risale a oltre sessant’anni fa, il poco utilizzato Trade Expansion Act del 1962, ha ordinato a Howard Lutnick, il miliardario della sua cerchia che ha piazzato alla guida del Dipartimento al Commercio, di fare un’indagine su tutto l’import di materiali critici negli States per “motivi di sicurezza nazionale” e ora, attenendosi alla legge del ’62, Lutnick ha tempo 180 giorni per produrre questo rapporto. La bizzarria è concentrata sul fatto che Trump ha chiesto questa indagine dopo, e non prima, aver fatto numerose dichiarazioni su terre rare e materiali critici, cioè essenziali per l’industria digitale, per quella dell’auto e della difesa, oltre che – eventualmente, ma gli interessa assai meno per non dire proprio per niente – per le energie rinnovabili. E ha preso in considerazione questa documentazione dopo aver già messo in essere dazi così alti verso la Cina da aver provocato, come reazione, un sostanziale embargo dell’export di terre rare verso gli Stati Uniti da parte di Pechino, che ne è il player maggioritario, se non monopolistico, mettendo dunque a rischio proprio le produzioni strategiche che vorrebbe tanto tutelare.
C’è sempre qualcosa che non torna negli ordini esecutivi del presidente. C’è nel tira-e-molla sui dazi, nell’accordo sulle terre rare (o meglio sul litio, altro materiale critico) mai siglato con Volodymir Zelensky che dovrebbe agevolare la pace in Ucraina. Comunque Trump non ha tenuto conto di alcun dato sulle necessità statunitensi di materiali critici e terre rare prima di esprimere l’appetito spasmodico per la Groenlandia. E invece la Groenlandia è stata indicata da Trump a più riprese come strategica proprio per le grandi ricchezze del sottosuolo, cioè materiali critici e uranio, che presto o tardi potrebbero essere accessibili a causa dello scioglimento dei ghiacci causato dal riscaldamento artico. Trump a dire il vero non ha formulato un pensiero tanto complesso, ha detto solamente, lo scorso 30 marzo, che la Groenlandia sarà degli Stati Uniti con le buone o con le cattive. «Otterremo la Groenlandia al cento per cento», c’è una «buona possibilità che possiamo farcela senza ricorrere alla forza militare», ma «non escludo nulla», sono state le esatte parole pronunciate dal presidente in un’intervista alla televisione Nbc, parole che naturalmente hanno scatenato una levata di scudi generale a cominciare dal primo ministro di Nuuk, Jens-Frederik Nielsen.
La Groenlandia – come è stato ricordato in una tavola rotonda all’Istituto Italiano di Studi Germanici a Roma lo scorso 8 aprile – è una terra ancora quasi integralmente coperta da una profonda coltre di ghiacci della calotta polare, con pochissime infrastrutture e immense riserve, oltre che di gas, petrolio, dei 37 dei 50 materiali critici classificati negli Usa, tra cui neodimio, terbio e disprosio (terre rare utilizzate in particolare per i magneti permanenti ma anche per aerei e droni), tutte riserve che ad eccezione di una miniera di oro ad Amaroq – ora chiusa – restano ancora inesplorate.
Grande sette volte l’Italia è popolata da 56 mila abitanti -“fa gli stessi abitanti di Cerignola”, ha sottolineato il moderatore della tavola rotonda, il saggista Bruno Berni, per far capire l’ordine di grandezza della popolazione e anche le difficoltà che vi si possono incontrare nel reperimento di forza lavoro qualificata – quasi tutti di origine inuit, sparsi in 71 piccoli agglomerati urbani o villaggi ed essenzialmente dediti alla pesca, principale attività della grande isola dei ghiacci.
Durante la Seconda Guerra mondiale è rimasta isolata dalla Danimarca per non subire anch’essa l’invasione del Terzo Reich e Copenaghen, con cui la Groenlandia è sempre stata legata da un cordone coloniale, l’affidò per i rifornimenti marittimi agli Stati Uniti. È del 1951 il trattato difensivo Danimarca-Usa che portò alla costruzione della base americana di Thule, ora Pituffik in lingua inuit, recentemente visitata dal vice presidente JD Vance e consorte. Solo dal 1953 non è più una colonia danese e dal 1979 ha una larga autonomia, ulteriormente allargata nel 2009: pertanto adesso le uniche due materie per cui dipende dalla Danimarca sono la politica estera e la difesa. Mentre non fa più parte dell’Unione europea.
Le elezioni parlamentari che si sono tenute lo scorso 11 marzo, nel pieno del ciclone Trump, non si sono chiuse con un responso radicalmente indipendentista, contrariamente alla lettura della stampa nostrana, ha spiegato Paolo Borioni, scandinavista dell’Università La Sapienza: “Quasi tutti i partiti groenlandesi sono indipendentisti ma la coalizione che ha vinto è rappresentata dalle forze più dialoganti con la Danimarca e ha imbarcato, senza necessità, anche l’unico piccolo partito non indipendentista”.
Il problema dei groenlandesi, oltre a quello di non essere invasi o comprati da chicchessia, è rappresentato dai livelli salariali. Ed è proprio una valutazione sul rapporto costi-benefici di una campagna di esplorazione mineraria da “pagare” o compensare con sovvenzioni ai 56 mila residenti groenlandesi che è stata chiesta pochi giorni fa all’Ufficio Gestione e Bilancio della Casa Bianca, come riporta l’agenzia Bloomberg. Non potendo irretire gli abitanti con offerte di lavoro, si tratterebbe in sostanza di comprarli, uno per uno.
Ma c’è davvero questa esigenza per gli Stati Uniti, per poter estrarre i materiali critici del sottosuolo ghiacciato? Non sembra proprio. L’azienda-chiave dell’estrattivismo nascente della Groenlandia è la Critical Materials corp con sede a New York, città del tycoon della Casa Bianca. Dopo la proibizione all’estrazione dell’uranio decisa dal governo di Nuuk nel 2021 questa società si è concentrata sul gallio, uno dei 17 elementi chiamati terre rare. E alla fine del 2024 ha comprato, da un geologo-imprenditore, la società mineraria groenlandese Tanbreez Mining. L’unica cosa davvero rara qui è l’intermediario dell’operazione: proprio quel Howard Lutnick che a dicembre ha lasciato l’incarico per essere cooptato nell’Amministrazione Trump come Segretario al Commercio estero. Bingo.
La Critical Materials ha valutato il progetto delle terre rare di Tanbreez in tre miliardi di dollari. E il suo direttore esecutivo Harvey Kaye ha ammesso: “Siamo in una posizione unica per aiutare a rendere America Critical Mineral Independent Again”, con evidente riferimento al MAGA e al rapporto di collateralità con Trump.
Al programma della tv tedesca 20 Minuten il ministro per le l’Economia e Risorse minerarie Jørgen T. Hammeken-Holm ha riferito che attualmente in Groenlandia sono attive 19 licenze di esplorazione per le terre rare, cinque delle quali stanno cercando finanziamenti per iniziare l’attività estrattiva, tra queste la Kobold Minerals sostenuta da Jeff Bezos e Bill Gates.
Tra queste, appunto, c’è il progetto Tanbreez della Critical Materials, quotata al Nasdaq di Wall Street, in partnership con un’altra società – la GreenMet di Washington -, licenza fino al 2050 e un profondo fiordo davanti che potrebbe sostituire con navi il difficoltoso trasporto via terra in una landa ghiacciata e priva di arterie stradali. Dal sito minerario di Tanbreez le società americane contano di estrarre addirittura “la metà della domanda di terre rare a livello globale”. Ma il fatto è dubbio. Stando a sentire Minik Rosing, geologo danese nato in Groenlandia, intervistato dalla catena tv americana Cbs, “non c’è niente che indichi una speciale concentrazione di terre rare in Groenlandia e infatti nell’elenco del Geological Survey l’isola dei ghiacci è solo ottava, dopo California e Brasile, per concentrazioni di questi giacimenti”. Per Rosing si tratta di “un miraggio”.
L’artico è, al pari dei deserti, un territorio da Fata morgana, ma ancora di più lo è Wall Street. E infatti, in attesa del rapporto del Segretario di Stato Lutnick sui materiali critici da importare per l’industria bellica e dell’auto in America, numerose aziende minerarie quotate in Borsa hanno ottenuto rally molto favorevoli nell’ultimo periodo. Ad esempio la Usa Rare Earth, che aveva perso il 25 per cento del suo valore nei primi mesi dell’anno, ha recentemente guadagnato più del doppio.
È possibile che con gli annunci roboanti sull’acquisizione della Groenlandia (e inoltre sull’accordo sulle terre rare in Ucraina) attraverso i rally in Borsa Trump e il suo fido Lutnick abbiano l’obiettivo di racimolare grandi capitali da investire in progetti minerari sulle materie prime critiche. Ma è altrettanto possibile che tutta questa attenzione sia funzionale ad un mero arricchimento dei familiari e degli amici del presidente.
Nessuna inchiesta è stata ancora aperta su Donald Trump per insider trading dal parte della Sec – la Consob a stelle e strisce- ma la senatrice democratica Elisabeth Warren è su questo tasto che attacca sia il presidente, sia il suo alfiere Elon Musk (quest’ultimo per quanto riguarda la sua “macchina per smantellare lo Stato e le agenzie federali” in sigla Doge).
Persino l’agenzia economica Bloomberg, solitamente benevola con Trump e la sua squadra, fa notare che il governo danese è sempre stato più che disponibile a trattare con gli Stati Uniti sia sugli investimenti e anche su una maggiore presenza militare, in chiave anti-russa, e che le dichiarazioni minacciose del presidente e del suo vice Vance non fanno che alienare all’America le simpatie del popolo groenlandese e della Danimarca.
Il senso recondito di queste parole minacciose potrebbe riflettersi indirettamente verso la grande potenza dell’Artico: la Russia di Putin. Ma anche in questo caso sarebbero controproducenti. Come ha ricordato alla succitata tavola rotonda romana la professoressa Mara Morini dell’Università di Genova, Vladimir Putin non rinuncerà mai alle rotte artiche che si apriranno progressivamente con il riscaldamento climatico. E non soltanto perché è a nord della Siberia che Mosca concentra la sua flotta di sommergibili e navi rompighiaccio, non soltanto perché l’apertura della rotta a nord-est è strategica dal punto di vista commerciale anche per la Cina, potenza artica, per eliminare le strozzature del canale di Suez, ma anche sul piano simbolico. Putin utilizza, in chiave identitaria, nostalgica e revanscista per la sconfitta della Guerra Fredda, l’immaginario sovietico e si appoggia al piano “Artico Rosso” di Stalin.
Perciò ipotizzare l’Artico come il campo del prossimo “Grande gioco” non fa che delineare la prossima guerra.
