Dall’intesa sull’unione bancaria siglata a Bruxelles alla Volcker rule, varata negli Usa, per il controllo del sistema finanziario. Cronaca di tre accordi a perdere
Se dovessero dar retta a tanti politici e a tanti media in giro per il mondo, gli studiosi dei prossimi decenni avrebbero moltissimo lavoro da svolgere per raccontare adeguatamente dei tanti accordi presunti “storici” che si vanno concludendo negli ultimi tempi nel mondo occidentale. Bisognerebbe scrivere molti e ponderosi volumi.
La parola “storico” è stata in effetti adoperata di recente, ad esempio, per tre accordi conclusi sulle due sponde dell’Atlantico e che riguardano la sfera finanziaria in senso lato, a livello macro e micro. Facciamo riferimento a quello sull’unione bancaria siglato a Bruxelles, alla cosiddetta Volcker rule in tema di controllo del sistema finanziario varata negli Stati Uniti dopo molti tormenti e alla tregua conclusa infine tra democratici e repubblicani, sempre negli Stati Uniti, per quanto riguarda i budget pubblici.
Si tratta di documenti che presentano in realtà qualche moderato aspetto positivo, chi più chi meno, ma contemporaneamente dei grandi problemi e inconvenienti. Essi chiudono significativamente un anno, quello 2013, che è stato avaro di buone notizie sul fronte finanziario, almeno per i paesi ricchi, mentre essi sembrano comprovare una sensazione che matura da tempo e relativa all’apparente e sostanziale blocco decisionale sulle questioni politiche importanti che sembra ormai prevalere ai due lati dell’Atlantico; ci si trova schiacciati, in particolare, da una parte dalla Merkel e dall’altra dai repubblicani e dalle lobbies. Gli accordi conclusi lasciano al 2014 un’eredità per lo meno discutibile.
Vediamo la questione con qualche maggior dettaglio.
Tre anni sono passati da quando la Volcker rule, inserita nel più vasto Dodd-Frank Act di riforma del settore finanziario, fu approvata dal Congresso. Tutto questo tempo è stato necessario per mettere a punto i regolamenti operativi e mettere d’accordo sul da farsi fare le cinque agenzie pubbliche che dovranno gestirla, ma il lungo intervallo ha anche permesso, contemporaneamente, tre anni di lobbying intensa da parte del settore bancario. Il risultato finale è certamente meglio di niente e certamente meglio di quanto non si è fatto in Europa al riguardo, ma siamo ancora lontani dalle riforme che sarebbero necessarie per mettere sotto controllo le grandi banche (Greider, 2013).
Il principio alla base della Volcker rule è ampiamente condivisibile. Le banche non dovrebbero utilizzare più i soldi dei depositanti per speculare a fini propri sul mercato; si tratterebbe in questo modo di avviare uno dei punti cardine della tanto auspicata riforma del settore finanziario. Ma la sua applicazione concreta in corpore vili si traduce in un vero e proprio labirinto.
Lo Glass-Steagall Act del 1933 che separava le banche ordinarie da quelle di investimento e che aveva funzionato sostanzialmente bene, era lunga in tutto 37 pagine ed era molto chiara. Il Dodd-Frank act si dilunga per 828 pagine come testo base e fa riferimento a 399 regole diverse che occupano 14.000 pagine ulteriori (Caldwell, 2013).
La Volcker rule, che dovrebbe entrare pienamente in funzione nel luglio 2015 (certo, non c’è fretta!), è lunga da sola 892 pagine, che dovrebbero servire a cercare di spiegare in dettaglio cosa bisogna fare nei vari casi; ma le incertezze ed ambiguità del testo rimangono largamente in piedi. Ci sono, così, ampi margini di discrezione per i regolatori e discrezione significa di solito, come l’esperienza passata dimostra, accordi più o meno amichevoli tra gli stessi e i padroni dell’industria finanziaria (Caldwell, 2013). Del resto, prima del varo della norma, ci sono stati ben 111 incontri tra i regolatori e i rappresentanti più importanti di Wall Street, contro 12 incontri con le organizzazioni che erano invece a favore della riforma (Greider, 2013).
Uno dei tanti problemi della legge è che in realtà, come già si è verificato a suo tempo nel caso del varo delle regole di Basilea2 sui livelli minimi di capitale sempre delle banche, è lasciata ampia discrezionalità agli stessi istituti nel fissare le procedure e gli aspetti operativi nell’applicazione delle norme; con i pessimi risultati che poi abbiamo visto a proposito delle regole sopra citate.
Ci sono un grande numero di problemi che la legge certamente non risolve e ci sono ampie aree del sistema bancario ombra che la regola non copre. Alla fine non resta che sperare che miracolosamente tutto vada a posto con il tempo. Qualche pessimista, invece, si chiederà quanto ci vorrà per la prossima crisi.
L’accordo sul bilancio statunitense
Certo, con l’accordo dei primi di dicembre concluso tra i democratici e i repubblicani si previene un altro shutdown del governo e dell’amministrazione in gennaio e si evita di passare da una crisi all’altra. L’accordo fissa, tra l’altro, un tetto massimo al livello della spesa per il 2014 e il 2015. Ma l’accordo è un affare molto modesto e si rivela come ben lontano dalle aspettative che diversi politici a destra e a sinistra avevano fatto balenare.
Ma c’è di peggio.
1,3 milioni di americani senza lavoro perderanno subito le indennità di disoccupazione e diversi milioni di persone le perderanno nel corso del 2014, mentre verranno tagliati molti programmi alimentari e per l’assistenza sociale per i più svantaggiati (Nichols, 2013). Più in generale, l’accordo non fa nulla per varare un programma per la creazione di posti di lavoro, mentre milioni di impiegati pubblici registreranno un taglio di stipendio e mentre non verrà cancellata nessuna delle numerose agevolazioni fiscali per le persone ricche e per le imprese.
Molti democratici hanno votato no all’intesa, che appare una sorta di politica di austerità merkeliana, versione statunitense.
E, ciononostante, i repubblicani non sono veramente soddisfatti, tanto che molti di essi minacciano di riprendere la battaglia a favore dei tagli nella spesa pubblica, tra l’altro con un nuovo possibile blocco delle attività di governo.
L’unione bancaria europea
Mentre, tra gli altri, il nostro ministro Saccomanni qualificava come storico l’accordo sulla seconda tappa della tormentata e complessa unione bancaria europea, ben altre erano le espressioni che usavano diversi e più distaccati commentatori.
Sulle colonne del Financial Times il nostro Lorenzo Bini Smaghi parlava semplicemente di delusione. Per Wolfgang Munchau (Munchau, 2013), il commentatore del quotidiano specializzato in faccende europee, l’accordo produrrà l’equivalente, per il settore finanziario, della politica di austerità varata a suo tempo per l’eurozona, trattandosi di un esercizio che al massimo prolungherà a lungo il credit crunch. Per l’autore non si tratta né di un bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto, come aveva subito commentato il nostro amabile presidente del consiglio, ma di un documento privo di senso. Si tratta di una sconfitta umiliante per i vari paesi che si sono piegati, come al solito, al volere della Germania,che non offre niente in cambio, se non la promessa che fra dieci anni ci si rifletterà di nuovo sopra. Per Sony Kapoor (Kapoor, 2013) si tratta una presa in giro che non risolve nulla, al meglio si tratterebbe cioè di una manovra di distrazione dai problemi veri, al peggio potrebbe trattarsi di un accordo controproducente nel lungo termine.
Secondo Adriana Cerretelli (Cerretelli, 2013) de Il Sole 24 Ore ci si è limitati, con questa pseudo-unione, alla filosofia del “meglio di niente”; l’autrice ricorda che a suo tempo l’accordo sulla moneta unica fu salutato con parole di entusiasmo molto simili. Evidentemente, afferma Cerretelli, l’Europa non riesce ad imparare dai suoi errori.
Con l’autrice ricordiamo un solo dato. Con l’accordo si vara un fondo di intervento per l’eventuale salvataggio delle banche che, a regime, cioè fra almeno dodici-tredici anni, raggiungerà l’ammontare di 55 miliardi di euro, quando tra il 2008 e il 2010, per il salvataggio del settore bancario, i governi europei hanno mobilitato ben 4.300 miliardi di euro.
Se sfogliamo Le Monde, leggiamo che per Philippe Lamberts e Sven Giegold si tratta al massimo di un colpo di spada nell’acqua, mentre Bruno Moschetto valuta invece che si trova comunque davanti ad una cattiva soluzione.
Charlemagne (Charlemagne, 2013) sull’Economist sottolinea poi come, su sollecitazione della Germania, l’accordo sull’unione bancaria presenti in generale una struttura legale complessa ed un sistema di decisione molto involuto.
E ci fermiamo a questo punto con le citazioni. Noi aggiungiamo di nostro soltanto che nutriamo una flebile speranza che il parlamento di Strasburgo, che deve votare sulla questione, rimandi l’accordo al mittente.
Certo, con altri quattro o cinque di questi accordi storici saremo veramente conciati per le feste.
-Caldwell C., The Volcker rule is a gift to banks and excludes the rest, www.ft.com, 13 dicembre 2013
-Cerretelli A., Se l’Europa si limita al “meglio di niente”, www.ilsole24ore.it, 20 dicembre 2013
-Charlemagne, Banking on a new union, The Economist, 14 dicembre 2013
-Greider W., Don’t get too excited about the Volckler rule, www.thenation.com, 12 dicembre 2013
-Kapoor S., European banking union is a shame that solves nothing, www.ft.com, 19 dicembre 2013
-Munchau W., An exercice in prolonging a banking credit crunch, www.ft.com, 22 dicembre 2013
-Nichols J., A cruel, irresposible and dysfunctional budget deal, www.thenation.com, 10 dicembre 2013