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Transizione energetica un tubo

Il metano, e non solo l’anidride carbonica, è uno dei fattori del riscaldamento climatico producendo ozono atmosferico. Per tanto indicarlo nella transizione verde come fa il Pnrr è più che un intervento di green-washing. E si deve partire dalla riconversione delle centrale di Civitavecchia.

E’ trascorso abbastanza tempo per meditare sull’ispirazione delle oltre 700 pagine del PNRR e fare un approfondimento sulle numerose schede di accompagnamento che riguardano la “transizione energetica”. Ne risulta l’impressione di un efficientamento di un sistema in continuità sostanziale con il passato, per nulla incline ad uno stravolgimento dei poteri consolidati, allettato da un potenziamento e da un aggiornamento poco rischioso per le imprese ma, al contrario, esposto a rischi climatici e sociali in tutta evidenza sottovalutati. Il solo fatto di non adempiere alla richiesta europea di ridurre di un taglio minimo del 7,6% ogni anno le emissioni di CO2 da qui al 2030, la dice lunga sulle pressioni che le multinazionali casalinghe del gas, seppur partecipate dallo Stato, sanno esercitare impunite.

Nella lettura si coglie spesso un tentativo di “greenwashing” e di aspettativa in   risolutive tecnologie di freddo soccorso alla cura, pur di esorcizzare la crisi pandemica ancora bruciante e farla sciogliere in una transizione affidata più alle scommesse della tecnocrazia (la fissione a 10 anni!) che alla riconversione ecologica, processo complesso e impegnativo, inseparabile da una profonda riconsiderazione del nostro rapporto con la natura e da un largo coinvolgimento democratico. 

Per andare a casi concreti, penso, ad esempio, all’insistenza sull’impiego del metano nella centrale di Civitavecchia, dove le articolazioni istituzionali, civili, sindacali – perfino religiose – hanno provato a far lievitare dal basso un modello di fornitura e consumo elettrici non più incatenati ai fossili, per ritrovarsi nelle tabelle del Next Generation  poste di bilancio che confermano i fumi di combustione che hanno afflitto da oltre settant’anni la città e il litorale laziale con accenni solo irrisori all’eolico off-shore, o all’accumulo in pompaggi o idrogeno verde che favorirebbero spazi occupazionali e l’insediamento di una manifattura e una logistica portuale di pregio. Eppure, la politica locale, le associazioni ambientaliste e del lavoro, i comitati dei cittadini, sapevano bene che nelle stanze dell’ENI (ed anche dell’ENEL almeno a livello nazionale) si sarebbero alla fine tirati i conti nell’esclusivo interesse aziendale, scrivendo di proprio pugno i nuovi piani e rimandando la neutralità climatica a tempi in cui i CdA saranno ben oltre l’età della pensione. 

Da molti passaggi del PNRR, con la scusa che le procedure di progettazione validazione e controllo devono essere fagocitate da tempi incompatibili con una salda partecipazione, si coglie come la rappresentanza politica e sociale non siano più eletti ad elemento decisivo nemmeno per pianificare il futuro dei loro territori, in una fase storica in cui ne va della loro integrità e della salute dell’intera biosfera. Un’opposizione sociale, quando si manifesta, va ascoltata per poter fronteggiare emergenze con cui non ci si era mai incrociati fino ad ora e avverso cui vengono convogliate risorse pubbliche esorbitanti e irripetibili.

Le caratteristiche del PNRR che è stato trasmesso a Bruxelles hanno senz’altro il pregio di presentare un’immagine più efficiente di un Paese stremato, ma non possiedono l’ambizione di osare un modello diverso da quello di una crescita riconsegnata quasi in toto ad un sistema che ha fallito e che, anziché mobilitare le risorse solidali, diffuse e creative che anche la pandemia ha contribuito a ridestare, potrebbe accontentarsi di snellimenti burocratici e di decisioni già prese in un continuismo deplorevole. Se non cambia il rapporto con cui l’economia capitalista d’impresa ha depauperato negli ultimi quarant’anni le relazioni sociali, sfruttato il lavoro e depredato la natura, il PNNR potrebbe rivelarsi un’ulteriore involuzione, una difesa dell’esistente a vantaggio di pochi che già si affannano sui fondi a disposizione. Partenariato pubblico-privato, società per azioni solo “formalmente” partecipate dallo stato e beni comuni consegnati al mercato non stimolano certo le risorse delle comunità, a nessun livello, tantomeno se si presume di parlare, come ha fatto Draghi in Parlamento in nome di una Next Generation o in sintonia con gli stimoli insistentemente lanciati da papa Francesco.

Essere ambiziosi vuol dire non fermarsi alla enunciazione di progetti, ma costruirli in una visione per cui “nulla ormai di questo mondo ci può risultare indifferente”, anche correggendoli in corso d’opera e non dando più per scontato il massimo profitto a giudice dei risultati. La posta è talmente alta che la Corte di Karlsruhe ha imposto al governo tedesco di innalzare il limite delle emissioni climalteranti, in nome della generazione dei miei nipoti! Perché, allora, non mobilitarci già ora, partendo da ogni territorio, per valutare senza prevenzioni, ma anche senza ingenuità, le possibili ricadute di elargizioni assegnate con scarso controllo alle convenienze di privati e agli interessi del mercato in direzioni irreversibili, data la mancanza di tempo a fronte delle emergenze in corso?

Eppure, il dibattito nel Paese e in Europa è vivacissimo: nella rete, tra le associazioni, sui giornali e su documenti tutt’altro che improvvisati spediti via internet. Ho letto con grande attenzione il documento “ripensare la cultura politica della sinistra” redatto da alcuni tra i più noti nostri politologi, economisti, giuristi (Biasco, Visco, Barca, Urbinati, Pasquino, per fare dei nomi) e ho apprezzato molte delle formulazioni innovative con cui si affronta soprattutto il tema delle riforme e lo spirito che dovrebbe alimentare la svolta. Ma, quando arriviamo alla transizione energetica, ci accorgiamo che cade loro la penna e la passano a qualche esperto – probabilmente di qualche ufficio studi, consulente delle nostre multinazionali o ex-municipalizzate energetiche – che letteralmente scrive, nell’ultima parte del testo, che: “il gas (meno inquinante di altri combustibili fossili) continuerà ad essere per un tempo non breve la fonte di transizione dal fossile alle rinnovabili…Di conseguenza, pensare al futuro implica valorizzare la posizione speciale del Meridione nel Mediterraneo; una collocazione, che ci consente di aspirare a farne oggi un polo per l’Italia e l’Europa per convogliare verso queste aree il gas liquefatto dai nuovi giacimenti del Mediterraneo e dal resto del mondo, diversificando le fonti di approvvigionamento secondo gli indirizzi europei…Si dovrebbe coinvolgere in un partenariato pubblico-privato le grandi utilities del settore – in primis, quelle pubbliche ricondotte a scelte di sistema congrue con quel piano. Scelte anche funzionali alla ricerca mirata sia per costruire una filiera dell’idrogeno verde, sia per le nuove tecnologie di cattura e riutilizzo della CO2”.

Sembra strano che chi ha firmato quel documento e frequenta ambienti spesso contigui alle Università e ai think tank internazionali, non si sia accorto che è in atto a livello mondiale una forte dissuasione al ricorso al gas come combustibile della transizione, tanto che le lobby di SNAM, TOTAL, ENI premono sulla Commissione UE, per ora senza successo, per inserirlo nella tassonomia verde e non escluderlo dai finanziamenti agevolati. Questa leggerezza, di persone di riconosciuto rilievo, rivela quanto la classe politica italiana continui a sottovalutare le novità in un settore tanto decisivo e a delegare agli “esperti” l’ecologia integrale, che è di per sé argomento “interdisciplinare”.

“L’ONU dichiara guerra alle emissioni di metano” titolava il Guardian del 7 maggio.

In un documento recentissimo (v. https://www.unep.org/resources/report/global-methane-assessment-benefits-and-costs-mitigating-methane-emissions ) un team internazionale di scienziati, utilizzando i dati più attuali, modelli climatici all’avanguardia e analisi politiche provenienti da 4 importanti centri di ricerca sotto l’egida dell’ONU, traccia la rotta per combattere le emissioni di metano e modellare le politiche climatiche del decennio appena iniziato. Nel documento reso affidabile da una monumentale ricerca al pari dei documenti dell’IPCC, si rivela che, se l’anidride carbonica ha un ruolo fondamentale nel riscaldamento globale, nondimeno il metano (CH4), con un potenziale di riscaldamento molto più alto (di ben 28 volte considerando un orizzonte temporale di 100 anni), merita altrettanta attenzione. Anzi, nel breve periodo (i primi venti anni) ancora maggiore attenzione se si vuole stare nei limiti di temperatura di 1,5°C, come corretto nelle ultime raccomandazioni dopo l’accordo di Parigi.

Purtroppo, la sua concentrazione è più che raddoppiata dall’era pre-industriale ed è aumentata del 9% (pari a 50 milioni di tonnellate) tra il 2000-2006 e il 2017. Per di più è stata responsabile del 30% del global warming nel 2020, anno della pandemia.

La novità di questo danno sta nella scoperta che il metano è un ingrediente chiave nella formazione dell’ozono troposferico (smog), un potente forzante climatico e un pericoloso inquinante atmosferico. Le risposte del sistema fisico alle emissioni di metano, comprendono quindi non solo le risposte climatiche e di composizione del sistema fisico, ma tutti gli impatti a valle dell’ozono.

 “Per ridurre le concentrazioni di ozono a livello del suolo – afferma  Inger Andersen, direttora esecutiva del United Nations Environment Programme, – occorre una riduzione del 45% di metano entro il 2030, il che impedirebbe 260.000 morti premature, 775.000 visite ospedaliere legate all’asma, 73 miliardi di ore di lavoro perso a causa del caldo estremo e 25 milioni di tonnellate di perdite di raccolti all’anno. Il taglio del metano è la leva più forte che abbiamo per rallentare il cambiamento climatico nei prossimi 25 anni e completa gli sforzi necessari per ridurre l’anidride carbonica. I vantaggi per la società, le economie e l’ambiente sono numerosi e superano di gran lunga i costi. Misure aggiuntive che non prendono di mira specificamente il metano, come il passaggio alle energie rinnovabili, l’efficienza energetica residenziale e commerciale e una riduzione della perdita e degli sprechi alimentari, diventano così complementari all’annullamento di nuovi investimenti sul gas. Poiché – conclude la Andersen – non possiamo fare affidamento sul futuro dispiegamento su vasta scala di tecnologie di rimozione del carbonio non provate, come il CCS, l’espansione delle infrastrutture e dell’utilizzo del gas naturale risulta  incompatibile con il mantenimento del riscaldamento a 1,5 ° C”. Tre i settori su cui agire: industria fossile, agricoltura e allevamenti, gestione dei rifiuti. Senza uno sforzo di dimezzamento delle emissioni di metano al 2030 non si riporterebbe il Pianeta in linea con la traiettoria per rispettare l’accordo di Parigi rivisto a +1,5°C.

Quest’anno l’UNEP ha lanciato il Decennio delle Nazioni Unite sul ripristino degli ecosistemi. Anche i cambiamenti comportamentali, la riduzione della perdita e dello spreco di cibo, il miglioramento della gestione del bestiame e il passaggio a diete più sane che a livello globale includono un consumo ridotto di alimenti a base di ruminanti, hanno il potenziale per fornire fino a 65-80 Mt. di riduzione al 2030.

Gli Stati americani di California e New York, puntano alla riduzione del 40% delle emissioni di metano entro il 2030. E’ certo che la Commissione Europea e il Parlamento adotteranno proposte legislative entro la fine dell’anno per rendere obbligatorie misure, relazioni e verifiche e tasse di importazione per tutte le emissioni di metano legate all’energia.

 E allora, per tornare a noi, come la mettiamo con L’ENEL, IL PNRR e Civitavecchia? E non sarebbe ora di cominciare a discutere la riconversione dell’ENI, prima che i suoi profitti vengano dispersi in riparazione del danno e in un angosciosa lotta per mantenere una missione assai brillante all’origine, ma oggi in rapido declino?