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Due sulla strada, sindacato e ong

In un momento in cui la transizione ecologica rappresenta una sfida immensa per il lavoro e le produzioni del passato, il dialogo tra ambientalisti e lavoratori è assolutamente fondamentale. E anche l’associazionismo e il terzo settore hanno bisogno di passare dalla verticalità all’orizzontalità.

Nei mesi preparatori la conferenza d’organizzazione della CGIL, il segretario generale Maurizio Landini ha evocato in più di una occasione la necessità di un “sindacato di strada”. Nell’era della frammentazione e della precarizzazione del mercato del lavoro, una visione verticale e per categorie dell’organizzazione sindacale non funziona più. E’ necessario – e rapidamente – tornare ad una dimensione orizzontale e confederale, si potrebbe dire. In sostanza andrebbe riscoperta la natura sociale e territoriale delle camere del lavoro, o dei lavori, come luogo di organizzazione della mobilitazione e della conflittualità sociale, in cui includere anche soggetti diversi: gli studenti, gli ambientalisti, gli attivisti sociali.

Includere significa fare delle cose insieme e più semplicemente ospitare nei luoghi del sindacato queste organizzazioni o – come hanno fatto alcune categorie in Germania – cooptare come osservatori indipendenti negli organismi sindacali anche rappresentanti delle associazioni ambientaliste. In un momento in cui la transizione ecologica rappresenta una sfida immensa per il lavoro e le produzioni del passato, il dialogo tra ambientalisti e lavoratori è assolutamente fondamentale. Senza questo salto, il sindacato rischia di diventare un’organizzazione di pensionati, di dipendenti pubblici e di poche grandi categorie produttive. In un paese in cui oltre il 95% del nostro tessuto produttivo è di piccole e piccolissime imprese e il lavoro  parcellizzato, autonomo e precario arriva alla soglia del 40%, partire dai luoghi di lavoro non è efficace più tanto come una volta; una gran parte di lavoratori non li raggiungi. C’è parecchio cammino da fare, e forse non è neanche veramente cominciato.

Tornare sulla strada è un invito che vale anche per l’associazionismo (quello più organizzato e grande), e non solo per il sindacato. Anche il mondo del terzo settore ha subito nel corso degli anni una involuzione burocratica, corporativa e autoreferenziale, all’insegna di progetti spesso studiati e realizzati a tavolino. Questo ha trasformato – anche in questo mondo – i cittadini in utenti e beneficiari dentro una retorica e un professionismo della partecipazione spesso calata dall’alto, o veicolata dai social.

Anche l’associazionismo ed il terzo settore hanno bisogno di passare dalla verticalità all’orizzontalità, dal professionismo progettante a pratiche dal basso ed effettivamente partecipate. Hanno bisogno di tornare  a confrontarsi con l’organizzazione attiva dei cittadini, con i conflitti, con il rammendo di un tessuto sociale che in questi anni è stato devastato. Va ricordato che gran parte del mondo del terzo settore è fatto di piccoli gruppi, composti solo da volontari: si tratta di una realta molto parcellizzata, che non si fa soggettività politica e non ha rappresentanza generale.

Sindacato e associazionismo si trovano dunque a fonteggiare sfide analoghe nell’epoca della disintermediazione e delle sirene del corporativismo e dell’autoreferenzialità: tornare ad essere soggetti capaci di rappresentare l’interesse collettivo e il bene comune di lavoratori e cittadini ammaliati dalla scorciatoia del populismo e di un tornaconto individuale e di corporazione. 

Tornare sulla strada è il modo con il quale si riacquista la legittimità in nome della quale si può aspirare ad essere soggetti del cambiamento.