Il comportamento dei leader europei nella corsa al riarmo per la guerra in Ucraina non corrisponde né ai principi condivisi nel diritto internazionale, né agli interessi strategici, tanto meno a quelli economici. Analisti di diverse famiglie teoriche lo confermano: la mancanza di trattative è sonnambulismo e cova la catastrofe.
Premessa
Il confronto tra pacifisti e interventisti viene spesso presentato come una contrapposizione tra idealisti e realisti, irrazionali e razionali. Ma è davvero realista chi ritiene che la guerra, il riarmo e l’escalation più siano l’unico modo per respingere Putin? Sono davvero così irrazionali i pacifisti che premono per l’apertura di un tavolo delle trattative oppure lo sono i decisori politici europei che stanno andando dritti verso la catastrofe come dei sonnambuli?
Con un approccio analitico vorremmo analizzare qui quali siano i fattori che spiegano questa corsa al riarmo da parte della classe dirigente italiana ed europea. Facendo riferimento alla letteratura sul commercio di armi, consideriamo tre gruppi di variabili che possono spiegare il comportamento dei leader europei: gli ideali; gli interessi strategici o gli interessi economici. Ciascun gruppo di variabili fa riferimento ad una diversa famiglia di teorie della politica estera europea: i costruttivisti, i realisti e neorealisti e i liberisti.
I principi della democrazia e della difesa dei diritti umani
Un primo gruppo di teorie ruota attorno al costruttivismo, secondo cui le idee e i valori sono importanti e possono influenzare le scelte politiche. Tra gli studiosi costruttivisti, Manners introduce il concetto di potere normativo europeo. Egli sostiene che l’identità e il comportamento dell’UE si basano su un insieme di valori comuni: pace, diritti umani, democrazia, Stato di diritto, uguaglianza, solidarietà sociale, libertà, sviluppo sostenibile e buon governo, contenuti nei trattati dell’UE. Questi valori hanno un fondamento giuridico e si trovano formalizzati nei Trattati dell’Unione. Pertanto, queste norme comunitarie universali forniscono all’UE un’identità fondamentalmente diversa, sui generis, rispetto alle potenze tradizionali e ne influenzano anche il comportamento in politica estera, conferendo un valore aggiunto nel contesto internazionale. L’UE è fondata e ha come obiettivi di politica estera e di sviluppo il consolidamento della democrazia, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali.
Questa identità sui generis spiega, secondo alcuni autori, anche la spinta senza compromessi degli Stati europei in difesa dell’Ucraina, della democrazia, dei diritti umani, del diritto internazionale umanitario volto a limitare le sofferenze dei civili in guerra. Ad esempio, Bosse ha affermato che l’intervento dell’Unione è stato motivato da un consenso di tutti gli Stati Europei sui principi fondamentali dell’Unione relativi alla difesa della democrazia e dei diritti umani, sull’obbligo e la responsabilità morale dell’Unione Europea di proteggere i civili ucraini dai crimini della guerra e dalle violazioni del diritto internazionale umanitario.
Una prima categoria di obiezioni è di carattere generale riguarda l’armonia tra fini normativi ed etici e mezzi normativi. Alcuni studiosi sviluppano fino in fondo l’identità sui generis dell’Unione Europea agganciandosi al concetto di potenza civile. Se la politica estera europea è strutturale, ovvero agisce sulle cause profonde che generano i conflitti, allora i suoi strumenti saranno prevalentemente quelli della diplomazia della cooperazione allo sviluppo, della promozione dei diritti umani e della soluzione pacifica dei conflitti e non quelli della guerra e della violenza. Tale posizione è supportata da chi opera concretamente in questi campi ed ha maturato un’esperienza che dimostra che strumenti di prevenzione e soluzione pacifica dei conflitti possono salvare vite umane, essere più efficaci e duraturi (e meno costosi) dell’uso della forza. Tale interpretazione sembra essere anche la più fedele al pensiero di Manners che riteneva che il militarismo avrebbe compromesso il potere normativo dell’UE.
Una seconda categoria di critiche verte sull’universalità nell’applicazione di tali principi che, secondo alcuni autori, non si applicano in modo equo a tutte le latitudini. Molti sono i conflitti dimenticati, caratterizzati da violazioni del diritto internazionale e umanitario, in cui i civili patiscono inenarrabili sofferenze a causa della guerra, in cui non si ravvede un simile impegno da parte degli stati europei. Nel caso del confitto dello Yemen, organizzazioni internazionali e non governative hanno contato 300.000 vittime dirette e indirette del conflitto, considerandolo una delle più grandi catastrofi umanitarie e il governo britannico ha registrato ben 516 attacchi a civili che hanno violato il diritto internazionale umanitario. Ma questo non ha impedito ad alcuni governi europei di continuare ad esportare armi alle parti in conflitto responsabili di tali violazioni del diritto internazionale umanitario. Questo caso specifico, come vari altri conflitti nel mondo, dimostrano che questa forma di intervento in difesa della democrazia e dei diritti umani non è universale, ma accade solo in alcuni contesti.
Ancora Finlandia e Svezia, che tradizionalmente si sono distinte l’attenzione al rispetto dei principi di democrazia e dei diritti umani nell’export di armi, hanno siglato un memorandum con la Turchia in cui si sono impegnate ad abolire le restrizioni alle esportazioni di armi verso il regime di Ankara (prima limitate a causa delle violazioni dei diritti umani) e ad estendere la definizione di terrorismo, per poter entrare nella Nato. Tale scelta è stata approvata da Stoltemberg, segretario generale della Nato, che ha recentemente salutato positivamente i passi avanti fatti dai due paesi scandinavi nell’implementazione del memorandum. Si tratta però di passi indietro se li si legge in termini di rispetto dei diritti umani. Emerge quindi come, in questo caso, abbiano prevalso variabili strategiche e geopolitiche rispetto a quelle etiche e una logica dicotomica rispetto all’aspirazione all’universalità.
Infine, la narrativa attorno alla contrapposizione tra democrazie e autocrazie trova diverse eccezioni anche utilizzando la classificazione di Freedom House, istituto di ricerca statunitense classifica i paesi del mondo sulla base del rispetto delle libertà e dei diritti civili e politici, suddividendoli in paesi liberi, parzialmente liberi e paesi non liberi. A quest’ultima categoria appartengono secondo gli ultimi dati, stati come la Turchia, l’Arabia Saudita, l’Egitto, con cui l’Italia e altri paesi dell’Unione Europea intrattengono rapporti strategici o commerciali.
Gli interessi strategici
Non si può quindi spiegare completamente l’intervento in Ucraina in chiave ideale di difesa dei diritti umani perché manca il requisito dell’universalità. Piuttosto sembrano prevalere variabili di tipo strategico. Passiamo quindi dalla sfera degli ideali a quella degli interessi strategici.
Il riferimento teorico è, in questo caso, quello del realismo, la più antica teoria delle relazioni internazionali che risale a Tucidide e comprende Hobbes, Machiavelli e Waltz ed è incentrata sul potere. Secondo i realisti, gli Stati sono attori dominanti in un contesto anarchico e agiscono in modo razionale ed egoistico, al fine di massimizzare il proprio potere. Il modo in cui interagiscono è un gioco a somma zero, che implica l’esistenza di un vincitore e di un perdente. La sfiducia negli altri Stati significa che essi possono contare solo su se stessi per proteggere i propri interessi nazionali. L’equilibrio di potenza è una delle modalità più stabili di convivenza tra attori egoisti.
Alcuni rappresentanti delle istituzioni europee hanno salutato positivamente il “risveglio geopolitico” dell’Europa che è finalmente in grado di parlare il linguaggio del potere.
Ma non tutti i realisti o neorealisti condividono le scelte operate dalla classe dirigente europea. Alcuni dei teorici di questa corrente, come Mearsheimer, ritengono che sia necessario ripensare una soluzione in un contesto più ampio di logica di contrapposizione tra le due potenze, estendendo l’analisi alle motivazioni che hanno portato al conflitto, non sottovalutando i rischi di escalation. Similmente, Caracciolo invita gli italiani a prendere atto della distribuzione di potenza e a muoversi assecondando le correnti, applicando le leggi non scritte della guerra fredda (tra cui quella di non minacciare la reciproca sopravvivenza delle superpotenze), promuovendo al contrario uno spazio politico per una tregua. Bozzo, che aveva previsto che si sarebbe arrivati ad una guerra di attrito, spiega che questa implica un’escalation orizzontale o verticale. Strazzari, basandosi sull’evidenza, fa notare che non vi è quasi nessun caso in cui il flusso di armi ha accorciato la durata del conflitto, al contrario li ha alimentati e questi talvolta si sono estesi alle aree vicine. Con una eccezione, la guerra dello Yom Kippur, che ha comunque previsto uno spazio per la diplomazia, un’intesa tra le grandi potenze e una via di uscita per gli sconfitti.
Urbinati e Klare spiegano come tra gli obiettivi degli Stati Uniti vi sia quello di indebolire il più possibile la Russia nel quadro di un confronto più ampio con la Cina, e che questo obiettivo non coincide con quello dell’Unione Europea esposta molto più direttamente di altri da possibili escalation orizzontali e verticali.
Esperti di strategia militare invitano a non sottovalutare i rischi di escalation verticale. Secondo Camporini, “Avere a disposizione l’arma nucleare può solleticare la tentazione di utilizzarla per cambiare le sorti sul terreno di battaglia, dove per la Russia non sta andando bene“. E ancora secondo il generale Tricarico, “Putin oggi è più temibile. Se continua la deriva a lui sfavorevole, l’intenzione di usare l’arma nucleare si farà seria“. Essi conoscono a fondo la dottrina militare russa che consente l’uso di armi nucleari in risposta ad aggressioni con armi convenzionali in situazioni critiche per la sicurezza nazionale per la Russia.
Tale condizione è più facilmente verificabile in seguito alla recente annessione alla Federazione Russa riguardante i territori occupati dell’Ucraina nelle province di Luhansk, Kherson, Zaporizhzhia (dove si trova la più grande centrale nucleare d’Europa) e Donetsk. Nel 2000, la dottrina militare russa ha introdotto il principio de-escalation attraverso una attacco nucleare limitato o tattico: se la Russia fosse sottoposta a un grande attacco convenzionale che superasse la propria capacità di difesa con armi convenzionali, potrebbe “de-escalare” il conflitto lanciando un attacco nucleare limitato o tattico. La Cia non esclude un uso di armi nucleari tattiche da parte della Russia a scopo dimostrativo.
Waltz individua in una delle due cause principali dello scoppio di una guerra l’errore di calcolo. Francesca Giovannini, direttrice del progetto sulla gestione dell’atomo all’Università di Harvard e membro del gruppo “Scienziati Atomici”, spiega che l’ordine globale nucleare si posa su un equilibrio precario perché le possibilità di un lancio accidentale, dovuto ad un errore di comunicazione o di percezione, sono sempre maggiori e con loro le probabilità di un incidente o di un attacco a una base nucleare anche civile. Inoltre, la possibilità di uso di armi nucleari tattiche a scopo dimostrativo non è da escludere. Pertanto, mantenere aperti canali diplomatici e varie forme di comunicazione è di fondamentale importanza.
Secondo gli esperti, nei prossimi 70 anni, un incidente o un attacco a un impianto nucleare sono scenari probabili. A complicare la situazione, “le istituzioni nucleari, che un tempo erano state create per promuovere la causa della riduzione del nucleare, hanno dovuto affrontare una grave paralisi”, aggiunge Giovannini.
La deterrenza nucleare si basa sulla razionalità degli attori (o comunque sulla gestione razionale dell’incertezza o comunque sul buon senso comune). Gray sostiene che gli armamenti non sono pericolosi di per sé, ma lo diventano quando entrano nella disponibilità di regimi politici non democratici. Sagan ritiene che le stesse organizzazioni militari, in quanto organizzazioni complesse, possono non essere razionali, perseguendo interessi corporativi invece di quelli nazionali e se non controllati democraticamente aumentare sensibilmente il rischio di guerra nucleare pianificata o accidentale. In altre parole, i governi autoritari e in alcuni casi le organizzazioni militari non adeguatamente trasparenti possono non essere razionali.
Può essere, relativamente, razionale da parte degli Stati Uniti pensare ad una risposta con armi convenzionali ad un eventuale attacco nucleare per impedire un Armageddon nucleare: anche nel malaugurato caso di uso di armi nucleari da parte della Russia, l’obiettivo, dal punto di vista degli alleati di oltreoceano, sarebbe quello di lasciare circoscritto l’uso di questa arma che distrugge persone e ambiente, al teatro europeo. Al contrario, potrebbero apparire irrazionali i parlamentari europei se pensassero di proteggersi con ritorsioni anche nucleari da un attacco nucleare, eliminando, al contempo, qualsiasi riferimento alla diplomazia. La razionalità e la consapevolezza della certezza sull’entità della distruzione combinata con una prudente gestione dell’incertezza sulla posizione dell’avversario sono caratteristiche fondamentali per garantire la deterrenza in caso di presenza di armi nucleari.
Semplificando, in termini generali, non va dimenticata la prima lezione di uno studente che si avvicina agli studi strategici: la guerra nucleare si può vincere solo se non si combatte. Bozzo ci spiega che “dato che le due grandi potenze sono dotate di vettori – aerei e soprattutto missili, in grado di raggiungere il territorio dell’avversario – formulare una minaccia di rappresaglia atomica a fine deterrente significa minacciare de facto il suicidio”.
Gli interessi economici
Una terza famiglia di teorie fa riferimento al liberismo e al neoliberismo e fa capo ad autori come Smith, Comte e Spencer. Il punto di partenza è simile al realismo: gli attori internazionali statuali e non statuali mirano a ottenere il massimo beneficio e agiscono in modo razionale. Tuttavia, la ricerca del proprio interesse favorisce anche l’interesse collettivo. Si tratta di un gioco che non è più a somma zero, ma dal quale tutti possono ricavare dei benefici. La cooperazione e le istituzioni possono massimizzare il guadagno di tutti. Pertanto, secondo questo gruppo di teorie, in termini generali, la guerra non conviene, non è intelligente farla. In termini specifici l’Europa non pare guadagnarci molto. Alcuni autori mettono in luce la differenza tra interessi economici e strategici europei e statunitensi. Urbinati illustra i possibili vantaggi per l’alleato statunitense spiegando che ”la guerra in Ucraina sta già portando alcuni vantaggi agli Stati Uniti: alcuni dei prodotti russi posti sotto l’embargo europeo vengono infatti rimpiazzati con beni provenienti dal Nord America, e ciò potrebbe essere ancora più vero se le sanzioni venissero rafforzate. Pensiamo alle granaglie, al petrolio, al gas liquefatto. Gli americani, dunque possono soppiantare i russi come fornitori dell’Europa, e questo potrebbe dare un forte stimolo alla crescita dell’economia a stelle e strisce.” Secondo Alcaro, “il bisogno di riconfigurare le catene di approvvigionamento lontano dalla Russia renderà i paesi europei più dipendenti dalle importazione degli Stati Uniti e dai paesi produttori di energia con forti legami con Washington come Arabia Saudita, Qatar, Egitto e Israele.” Egli sostiene che la guerra ha generato una maggiore integrazione, ma una minore autonomia dell’Unione Europea.
Certo, ci sono alcuni segmenti produttivi che hanno guadagnato enormemente dalla guerra, come le industrie militari. Ad esempio le azioni di Rheinmetall, una delle principali aziende europee di armamenti terrestri, sono salite del 135% dall’inizio della guerra con un valore in borsa di quasi 10 miliardi. Ma questo non è successo alla gran parte dei cittadini e delle imprese europee.
Accanto alle teorie liberiste e al capitalismo ottimista, vi è anche una lettura in chiave conflittuale e militarista. Il militarismo è definito da Mann un atteggiamento e un insieme di istituzioni che vedono la guerra e la preparazione della guerra come un’attività normale e desiderabile in chiave economica. Rosa Luxemburg è stata la pensatrice marxista che ha prestato maggiore attenzione al militarismo e alla guerra, studiando il ruolo nell’accumulazione di capitale e nella dominazione politica. Secondo Luxemburg, i disequilibri del capitalismo tra accumulazione di capitale e sottoconsumo, spingono il capitale, ciclicamente, alla ricerca di nuovi mercati anche con l’uso della guerra: militarismo e guerra sono intrinseci al capitalismo. Successivamente, Baran e Sweezy, economisti statunitensi, hanno studiato ruolo che le spese militari hanno avuto per lo sviluppo economico negli Stati Uniti nel dopoguerra, attraverso la crescita della domanda pubblica per compensare il sottoconsumo e stabilizzare il ciclo produttivo. Melman invece ne ha individuato le disfunzioni e i costi economici.
Tra gli altri, il sociologo Mills e lo storico Thompson analizzano la corsa agli armamenti nel periodo della guerra fredda con delle osservazioni interessanti anche per il periodo attuale. Mills avverte che l’aumento delle spese militari e la preparazione alla guerra sarà la causa principale della terza guerra mondiale. Le élite di potere degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica, porteranno, secondo questo autore, al rischio di distruzione nucleare attraverso la logica del potere, e la manipolazione dei mass media e la mancanza di soggetti politici in grado di contrapporvisi.
Thompson afferma che la contrapposizione tra i blocchi conduce allo sterminio. Infatti, secondo l’autore, da un lato il blocco occidentale si arma per alimentare l’incessante ricerca di sbocchi di consumo da parte del capitalismo, dall’altro il blocco orientale si arma per reazione a quello occidentale. La conseguenza è un accumulo di armi convenzionali e nucleari. La preparazione alla guerra porta alla guerra nucleare per Thompson. Quello che è interessante è che secondo lo storico, non si tratta di una scelta razionale, ma di una scelta inconsapevole, di una spinta inerziale, conseguenza quasi inevitabile del militarismo ovvero di un sistema economico, scientifico, politico, ideologico e mass mediatico che ha selezionato nel tempo quelle persone che lo scelgono, lo legittimano e lo mantengono in essere. Si tratta di un impulso a seguire le logiche dell’obbedienza al potere e al capitale fino allo sterminio delle moltitudini.
Di piano inclinato o forza inerziale parlano anche altri autori in riferimento alla guerra attuale e al coinvolgimento degli Stati europei. Secondo Habermas, “continuando con l’affermazione della vittoria ad ogni costo, l’aumento della qualità delle nostre forniture di armi ha acquisito un impulso proprio che potrebbe spingerci più o meno impercettibilmente oltre la soglia di una terza guerra mondiale.” Perciò, al fine di acquisire consapevolezza e mutare il corso delle cose, l’autore sollecita una discussione aperta e democratica che dia voce alla pluralità delle opinioni.
Conclusioni
In conclusione, le scelte dei leader europei non si spiegano, razionalmente, con nessuna delle tre famiglie di teorie sopra evidenziate: né in termini ideali basati sui diritti umani e sul diritto internazionale, poiché non sono accompagnate dallo sforzo dell’universalità, né in chiave strategica per il rischio di escalation e di estensione del conflitto al territorio europeo, né in termini di interesse economico, poiché il guadagno dalla guerra è di pochi e non del popolo europeo.
Alcuni autori paragonano i rappresentanti dei paesi e delle istituzioni europee a quelli che portarono l’Europa alla prima guerra mondiale, identificandone caratteristiche comuni come la mancanza di consapevolezza e di razionalità. D’Eramo, citando Clark, scrive che l’élite europea sembra colta dal sonnambulismo. Anche Habermas richiama Clark: “Camminare come sonnambuli sull’orlo dell’abisso sta diventando un pericolo reale, soprattutto perché l’alleanza occidentale non solo sta rafforzando la mano dell’Ucraina, ma sta instancabilmente ribadendo che sosterrà il governo ucraino per ‘tutto il tempo necessario’. [….] I governi occidentali operano su una scala geopolitica più ampia e devono tenere conto di altri interessi oltre a quelli dell’Ucraina in questa guerra. Hanno obblighi giuridici nei confronti delle esigenze di sicurezza dei propri cittadini e inoltre, indipendentemente dagli atteggiamenti della popolazione ucraina, condividono la responsabilità morale per le vittime e le distruzioni causate da armi provenienti dall’Occidente.”
Al contrario, c’è un popolo nascosto che appare più consapevole e razionale dei loro leader. In Italia, dove la quasi totalità della popolazione non vuole abbandonare l’Ucraina, la maggioranza dei cittadini (con una percentuale che oscilla tra il 48% e il 58% a seconda dei sondaggi) è contraria all’invio di armi all’Ucraina e favorevole ad altre forme di supporto.
Nel contesto europeo la situazione è più diversificata. La maggioranza è a favore di un invio di armi all’Ucraina. Tuttavia, un recente sondaggio mostra che una buona fetta della popolazione europea (il 48%) preme per un cessate il fuoco e per un trattato di pace, anche a costo di qualche concessione da parte dell’Ucraina. Mentre il 32% è indisponibile a far accettare all’Ucraina una pace anche con cessioni di territorio se il governo ucraino è contrario.
I cittadini italiani ed europei, quindi, coniugano un supporto all’Ucraina (in primis umanitario ed economico) con un mandato alle trattative e alla ricerca della pace. Uniscono la razionalità al sogno di pacificazione che seguì le catastrofiche guerre del Novecento, da cui è nata l’Unione Europea.
Tuttavia, questo mandato a svolgere un ruolo diplomatico verso la costruzione della pace non viene raccolto dai leader europei. Che si incamminano, tutti in fila, come sonnambuli verso l’orlo della terza guerra mondiale. Speriamo che il frastuono delle manifestazioni per la pace li svegli.