Un mercato del lavoro fortemente segmentato impedisce di avere insieme sicurezza e flessibilità. Ecco perché il modello della “flexicurity” non è importabile in Italia
La flexicurity – definibile come una strategia (largamente ispirata all’esperienza della Danimarca) che cerca di conciliare la crescita della flessibilità sul mercato del lavoro con un incremento della sicurezza sociale e dell’occupabilità dei lavoratori – sta assumendo un ruolo sempre più centrale nel dibattito accademico e politico, soprattutto in sede comunitaria.
La flexicurity viene solitamente identificata tramite i molteplici elementi che dovrebbero costituirla: un mercato del lavoro non segmentato, politiche del lavoro e del welfare basate sulla definizione di forme contrattuali flessibili, estesi schemi di politiche attive del lavoro, ampia partecipazione dei lavoratori a corsi di formazione continua e generosi ammortizzatori sociali, i cui requisiti d’accesso non disincentivino però il ritorno nell’occupazione.
Implicita nell’idea di flexicurity è quindi una visione di policy che tende a ridurre l’enfasi sulla sicurezza del posto di lavoro (job protection) e a spostare l’attenzione sul concetto di occupabilità (employment protection), da realizzarsi mediante una compensazione della minore sicurezza e continuità della carriera lavorativa con migliori opportunità lavorative e formative e maggiore sicurezza sociale offerte soprattutto ai lavoratori a tempo determinato e agli atipici.
In Italia, anche in conseguenza di un’evoluzione normativa rivolta principalmente all’istanza di flessibilità, negli ultimi anni, come confermato dalla lettura di dati di diversa fonte, sembra invece essersi significativamente accresciuta la segmentazione fra lavoratori a tempo indeterminato e temporanei.
Dipendenti a termine e parasubordinati risultano infatti significativamente svantaggiati rispetto ai lavoratori con contratti permanenti per quanto riguarda le diverse tutele (anche del welfare), l’esposizione al rischio di disoccupazione e intermittenza dell’attività lavorativa, le retribuzioni e, a causa sia di vincoli normativi sia di scelte dei datori, la possibilità di accedere alle attività di formazione professionale attivate della imprese. La copertura offerta dagli ammortizzatori sociali a tali categorie di lavoratori è in particolare del tutto inadeguata: i lavoratori a termine possono accedere unicamente alla molto poco generosa indennità a requisiti ridotti mentre i parasubordinati, essendo formalmente autonomi, non godono di alcuna tutela in caso di interruzione dell’attività lavorativa.
D’altronde, per individuare la segmentazione appare cruciale valutare il tempo trascorso nei differenti status lavorativi. Una situazione di reale segmentazione, con gravi conseguenze in termini di precarietà e insicurezza, si rileva infatti qualora l’appartenenza allo status più svantaggiato e insicuro (ovvero quello di lavoratore temporaneo e/o atipico) non sia transitoria (ad esempio durante le fasi di entrata o uscita dalla vita attiva), ma persistente.
L’esistenza di una sorta di trappola della precarietà per una quota non irrilevante di lavoratori viene confermata da indagini condotte mediante gli archivi amministrativi Inps, che consentono di valutare nel medio periodo le transizioni verso il lavoro a tempo indeterminato da parte di parasubordinati e dipendenti a termine. Tali indagini mostrano che per un’ampia quota di lavoratori le forme contrattuali instabili non costituiscono semplicemente un ponte da attraversare per riuscire ad entrate nel lavoro permanente: a 5 anni di distanza dall’entrata nelle forze lavoro, rispettivamente fra i parasubordinati e i dipendenti a termine, solo il 23% e il 49% ottiene un contratto a tempo indeterminato. In particolare per alcuni sottogruppi di lavoratori – presumibilmente i più vulnerabili: le donne, i meridionali, i meno giovani e i meno istruiti – lo status di parasubordinato o di lavoratore temporaneo non appare per nulla semplicemente transitorio, ma si rivela nella maggior parte dei casi persistente.
Il mercato del lavoro italiano sembra quindi caratterizzato dalla presenza di un’estesa segmentazione, la cui assenza è invece, come detto, un pre-requisito essenziale per poter introdurre un modello di flexicurity. D’altro canto, anche rispetto ad altre dimensioni e pre-requisiti essenziali della flexicurity l’Italia presenta rilevanti criticità.
Come noto, la spesa per politiche del lavoro, sia attive sia passive, è significativamente inferiore a quella media di Ue-15 e di gran lunga minore di quella dei principali partner comunitari; la spesa per politiche attive – in relazione al funzionamento dei servizi per l’impiego e al finanziamento pubblico di attività formative – è inoltre fortemente disomogenea, sia per entità sia per efficienza, a livello territoriale. In Italia si registra poi un debole ruolo delle attività formative interne alle imprese laddove, invece, il ruolo di tali attività risulta cruciale nel determinare il continuo aggiornamento degli skills dei lavoratori necessario per il funzionamento virtuoso del modello di flexicurity.
Una lunga serie di peculiarità del sistema socio-economico italiano fa inoltre ritenere improbabile la replicabilità dei successi registrati dal modello danese. Fra queste le principali appaiono: la carenza di un clima di fiducia reciproco fra parti sociali e autorità nazionali e locali; la forte disomogeneità territoriale (oltre all’elevata diffusione dell’economia sommersa); il tipo di specializzazione produttiva che, generando una limitata domanda di lavoratori ad alta qualifica e di diffusione delle nuove tecnologie sembra non necessitare di quella tensione verso la continua formazione e riqualificazione della forza lavoro che ha caratterizzato il successo danese (e ne è forse stato l’elemento principale). In particolare, un sistema produttivo innovation-oriented appare una condizione necessaria per replicare tale successo, senza che, al contrario, si generino unicamente spinte alla riduzione delle tutele di protezione del posto di lavoro. Al contrario, l’aumentata disponibilità di contratti flessibili (meno onerosi in termini di retribuzioni e contribuzioni sociali) potrebbe aver rappresentato semplicemente un mezzo per migliorare nel breve termine la competitività di prezzo, senza fornire gli incentivi adatti alla riconversione della produzione verso settori maggiormente innovativi
In nessun caso sembra quindi possibile assimilare la recente evoluzione del mercato del lavoro italiano ad un modello di flexicurity. Emerge anzi, in contrasto con ogni definizione condivisa di flexicurity, che richiede un incremento di “sicurezza” rivolto in primo luogo ai lavoratori maggiormente flessibili, il paradosso italiano di minori tutele e retribuzioni proprio per tali lavoratori. In relazione al caso italiano sembra allora particolarmente pregnante l’idea di qualificare il mercato del lavoro e le tutele del welfare in linea con la cosiddetta flexinsurance che – oltre che sull’erogazione universale di un reddito di cittadinanza e sulla destinazione degli strumenti di sostegno del reddito e dell’occupabilità soprattutto a favore dei lavoratori flessibili – si basa in primo luogo sull’idea che contributi sociali e retribuzioni vadano definiti proporzionali al grado di rischio implicito nella tipologia contrattuale.
Al di là degli interventi tampone necessari per fronteggiare l’attuale crisi, in Italia bisognerebbe quindi ripensare a fondo al sistema di ammortizzatori sociali e politiche del lavoro e, piuttosto che inseguire ideali e irraggiungibili modelli ispirati a esperienze straniere non importabili, l’attenzione dovrebbe rivolgersi in primo luogo alla riduzione dei fattori che hanno acuito le segmentazioni sul mercato del lavoro. Tale riduzione non andrebbe però perseguita, attraverso una sorta di race to the bottom, riducendo la protezione dei lavoratori “tipici”, dati gli effetti negativi che questo genererebbe su fiducia, sicurezza, domanda aggregata e, presumibilmente, produttività, ma, in primo luogo, estendendo alle nuove forme di lavoratori livelli di contribuzione, retribuzione e tutele analoghi (o più elevati, in linea con la flexinsurance) a quelli degli insiders. In caso contrario, come sembra sia invece avvenuto nello scorso decennio, si continuerebbero a scaricare sui soli individui – e non sulla collettività e/o sulle imprese – i rischi derivanti dalla richiesta di maggiore flessibilità (se non di semplice riduzione degli oneri sociali e del costo del lavoro) da parte del settore produttivo.