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Siamo estremisti? Ragionevoli, piuttosto

Dibattito/3. ll termine di “estrema sinistra” somiglia a un espediente per esorcizzare una realtà politica, lasciando tutte le carte in mano a una classe dirigente pubblica e privata che si ritiene incolpevole

Nelle diverse considerazioni stimolanti che Michele Salvati (http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/italie/La-sinistra-pensante-18603) propone all’attenzione dell’eventuale lettore del libro di Marcon-Pianta, Sbilanciamo l’economia. Una via di uscita dalla crisi (http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/alter/Il-governo-non-c-e-un-programma-ci-sarebbe-17948), la cosa che mi ha particolarmente colpito è la qualificazione (ripetuta per ben cinque volte in meno di due paginette) di “estrema sinistra”, anche se “pensante”, attribuita alle posizioni espresse nel libro.

Conoscendo l’accortezza con cui Michele Salvati utilizza i termini politici, questa collocazione del pensiero dei due autori, e quindi del lavoro di Sbilanciamoci! di cui sono parte, induce a riflettere. Le posizioni sostenute da Sbilanciamoci! possono essere considerate “estremistiche”? Mi sembra difficile accettare un tale giudizio soprattutto se faccio riferimento ai due temi economici sulla cui base Salvati formula il suo giudizio: (i) la possibilità di un’autonoma politica economica nazionale nell’attuale contesto internazionale con il corollario del necessario rigore di bilancio; (ii) il problema della competitività del nostro sistema produttivo in presenza di una pubblica amministrazione altamente inefficiente.

Al di là delle considerazioni sviluppate da Marcon e Pianta nella loro replica (http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/italie/Sbilanciati-ed-estremisti-18607) , per quanto riguarda la politica economica europea, mi appare incongruo definire “estreme” le posizioni che si possono leggere sul sito sbilanciamoci.info. Non credo lo sia la critica sviluppata negli ultimi anni, almeno da La rotta d’Europa (http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/alter/Un-altra-strada-per-l-Europa-14212) in poi, a una visione (non si sa quanto neoliberista o oligoliberista) di una classe dirigente europea che subordina le aspettative di un modello sociale europeo a presunte prospettive di una crescita economica che si fonda su una accentuazione della gerarchia sociale tra paesi-membri e all’interno degli stessi. Nemmeno mi sembra lo sia la sollecitazione alla regolamentazione dei mercati finanziari per evitare che forme di pressione finanziaria di breve periodo condizionino i percorsi di risanamento (ovviamente di medio-lungo periodo) dei paesi in difficoltà. Neanche la richiesta di un superamento delle politiche di austerità attraverso una politica della domanda “europea” può essere giudicata troppo eterodossa; e neppure la posizione non aprioristica sull’euro, con il riconoscimento che i problemi che esso solleva non possono essere risolti da un referendum euro-sì o euro-no, ma che richiedono una visione e un soggetto di politica economica capace di governare una realtà socialmente pericolosa. Sono posizioni sulle quali si deve indubbiamente ancora discutere e sulle quali si può ampiamente dissentire, ma così posto non si può sostenere che l’atteggiamento nei confronti dell’Europa si configuri come un “eufemismo che rasenta l’ipocrisia”.

Il problema dell’Europa è notoriamente condizionato dal “gigantesco problema di efficienza, di risparmio, di produttività, di competitività, di innovazione” di cui soffre il nostro paese; esso segnala l’annoso problema di una politica industriale carente intrecciata con quello di un’amministrazione pubblica inefficiente; e questo ha a che fare con la qualità della nostra classe dirigente (pubblica e privata). Di fronte alla gestione della politica fiscale dei governi che si sono succeduti, rinfacciare a Sbilanciamoci! una scarsa attenzione al rigore di bilancio significa trascurare il fatto che nella sua Controfinanziaria le alternative di politica fiscale proposte sono formulate nel rispetto degli obiettivi finanziari aggregati definiti dal governo. I maggiori compiti che si richiedono al settore pubblico riguardano la costruzione di un’economia che garantisca sostenibilità sociale e ambientale, diritti di cittadinanza, lavoro e welfare degni di un paese civile. Il problema delle compatibilità finanziarie di una tale prospettiva rimanda alla questione se le aspirazioni di un diverso progresso civile possano essere soddisfatte da una diversa qualità del bilancio pubblico.

Guardandoci attorno, le proposte della Controfinanziaria hanno un impatto “sovvertitore dell’esistente” decisamente inferiore del “programma massimo” che Salvatore Biasco, con intelligenza e passione, ha prospettato – purtroppo senza ricadute evidenti – alla sinistra quale modello alternativo per prefigurare un “futuro differente e radicalmente cambiato” (Ripensando il capitalismo. La crisi economica e il futuro del capitalismo, Roma, LUISS University Press, 2013) . Così come risulta comparativamente molto più ambiziosa (estrema?) la spinta di Fabrizio Barca per l’indifferibile riforma della pubblica amministrazione e della forma partito della sinistra. Comunque si giudichino, si tratta sempre di progetti che confermano che, per risultare adeguate, le “vere” soluzioni richiedono opzioni non meno, ma più radicali.

Che si tratti di questioni decisive per il nostro futuro e per quello della società europea risulta d’altra parte evidente anche allo stesso Salvati quando prova, nelle condizioni attuali, una sensazione di asfissia, di catastrofe incombente, di incertezza nell’individuare vie di uscita. Ma sulla sostanza di questi aspetti il dibattito pubblico appare insufficiente e le possibili alternative che dovessero prospettarsi non trovano uno spazio per essere sottoposte allo scrutinio diffuso di una pubblica opinione informata. Dalle stesse considerazioni di Salvati si percepisce la sensazione di essere intrappolati in un contesto in cui condizioni internazionali inderogabili e l’inadeguatezza di una classe dirigente (pubblica e privata) priva di visione e di tensione costringono un popolo di cittadini all’accettazione supina della ripetizione acritica delle ricette “governative” (europee e nazionali). Non meraviglia che, nell’afasia del confronto pubblico, la proposta di un’alternativa appaia un discorso estraneo.

Quest’ultima considerazione sollecita una riflessione sul riferimento riduttivo di Salvati sul ruolo politico dei movimenti. Sono d’accordo con lui che sono una “bella cosa” per tutte le ragioni che elenca, ma a differenza di lui non penso che essi si riducano solo alla loro single issue strettamente locale. Fortunatamente sono anche questo, ma non va dimenticato che da tempo queste realtà esprimono una tensione a inquadrare la propria azione in un contesto più generale (non a caso la Controfinanziaria nasce ed è cresciuta come lavoro collettivo di una cinquantina di associazioni). Non comprendere questa dimensione impedisce di cogliere un nodo dell’attuale nostra trasformazione politica e sociale e quindi della democrazia (europea).

In una realtà – internazionale, europea e da qui nazionale – che appare (realmente o fittiziamente) complessa, la richiesta di “competenza” per governare i processi in atto si concentra sempre più in ristretti circoli sovranazionali, le cui scelte e decisioni vanno assunte come incontestabili – il che spiega anche le pulsioni al (semi)presidenzialismo. Di fronte a una tecnocrazia dominante e ai media che la sostengono (con una ben determinata visione di come costruire il futuro, non certamente corrispondente a un modello sociale europeo dato per morto), la possibilità di esprimere attivamente una diversa prospettiva di partecipazione è confinata a livello locale e a singole issues e – se non vi è questo sbocco – a un passivo e sterile populismo. Entrambi gli sbocchi svalutano il ruolo dell’associazionismo come istituzione politica intermedia nel cui ambito si sperimentano quelle dimensioni della vita economica e sociale che sono essenziali a un assetto democratico che non voglia deperire. La costruzione di una diversa realtà economica e sociale più rispondente ai bisogni del progresso civile, dei diritti, dell’ambiente e della pace richiede ben altro, ma se anche questa dimensione dovesse isterilirsi non vi sono troppi spazi per disporre delle energie necessarie a fronteggiare non solo il “baratro” economico, ma soprattutto quello sociale e democratico.

Collocato su questo sfondo mi sembra che, nonostante gli apprezzamenti che Salvati fa del contenuto del lavoro di Marcon e Pianta (“un must” per la sinistra non governativa) il termine di “estrema sinistra” con cui lo qualifica appare, probabilmente al di là delle sue intenzioni, come un espediente per esorcizzare una realtà politica, sospingendola al di fuori del recinto ufficiale. La si rende così strutturalmente estranea a possibili contaminazioni fruttuose con la politica del centro-sinistra e con le forze che vi sono impegnate a definire una nuova prospettiva di politica economica.

Delimitare in questo modo il campo delle riflessioni riconoscibili per la sinistra “ufficiale” significa lasciare tutte le carte in mano a una classe dirigente pubblica e privata che si ritiene incolpevole sia del declino dell’apparato industriale che della gestione dello stato, ovvero dei due grandi nodi della nostra economia (competitività e debito pubblico) e che, delegando le scelte fondamentali agli imperativi esterni (europei e internazionali), tende a far ricadere sugli altri settori sociali il costo degli effetti imprevisti (ma prevedibili) del riaggiustamento economico e sociale in atto.

Ciò detto, voglio sottolineare la valutazione positiva di Michele Salvati per la “sinistra pensante” di Sbilanciamoci!, anche se (a suo dire) non avremmo pensato fino in fondo alle implicazioni e ai rischi delle nostre proposte di politica economica. Pur nella sua critica, si tratta di un riconoscimento della necessità di una sinistra “pensante” (la si chiami o meno “estrema”), aperta alla discussione e alla verifica di opzioni alternative con le altre forze e movimenti politici, in grado di condurre un discorso di “verità” non estremistico, ma capace di andare alla radice del conflitto oggi esistente tra aspirazioni sociali e vincoli economici.