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Shopping all’estero per le tecnologie verdi

Una vera politica ambientale chiede lo sviluppo delle tecnologie dell’energia rinnovabile. Ma l’Italia lo ha delegato all’estero. Così la bilancia energetica resta in rosso

Il dibattito politico “partitico” e di “opinione” compromette lo sviluppo di una ipotesi di politica industriale rivolta alla predisposizione di una adeguata strategia di uscita non solo dalla crisi economica, ma anche per una adeguata politica ambientale ed energetica fondata sulla sostenibilità. L’aspetto rilevante delle politiche ambientali ed energetiche che si prefigurano a livello internazionale non è legata alla riduzione delle fonti di inquinamento, piuttosto allo sviluppo, e si sottolinea la dizione sviluppo, delle tecnologie che si rendono necessarie per ridurre l’impatto ambientale della “old” economy. In particolare sulle tecnologie dell’energia rinnovabile di II° generazione.

L’intervento pubblico è centrale. Con la firma del protocollo di Kyoto lo sviluppo delle tecnologie verdi registra tassi di crescita doppi rispetto all’innovazione in senso generale. Sicuramente la crescita dei prezzi delle materie prime fossili ha contribuito a questa ascesa, ma il combinato disposto, crescita dei prezzi e protocollo di Kyoto, sottolinea la necessità di generare-sviluppare competenze e sistemi industriali adeguati.

In particolare si osserva come la Cina e il Sud Est Asiatico abbiano intrapreso uno sforzo enorme proprio nelle clean energy technologies.

In Europa la spesa pubblica per lo sviluppo-generazione di tecnologia verde trova un ambiente favorevole e abbastanza diffuso. In particolare si segnala Spagna, Danimarca, Portogallo, Svezia, Finlandia, Germania. L’Italia mantiene un ruolo marginale, anche se non è questo l’aspetto più grave. Proviamo a considerare l’eolico, cioè un settore nel quale si registra una forte divergenza tra il tasso di crescita della produzione di energia e quello degli investimenti pubblici cumulati in ricerca e sviluppo. Considerato l’ammontare relativamente limitato di investimenti in ricerca e sviluppo nel settore, è ipotizzabile che questo marcato aumento della produzione sia avvenuto principalmente grazie all’importazione di tecnologie dall’estero, segnalando un ritardo del tessuto industriale italiano nella capacità di innovare in questo comparto. Diverso è il caso dell’energia solare e della bioenergia, dove si osserva un allineamento tra le due variabili, che indica come gli sforzi dell’Italia vadano nella giusta direzione: sfruttare le buone potenzialità di miglioramento della performance di queste tecnologie investendo in esse.

I paesi europei, che hanno delineato una “strategia tecnologica” per lo sviluppo sostenibile, hanno mostrato un forte dinamismo nella spesa pubblica in ricerca energetica, assegnando spazi sempre maggiori alle risorse destinate allo sviluppo di tecnologie, innescando proficui circuiti d’innovazione in questo campo, con positivi riscontri in termini di competitività sui mercati internazionali.

Nel caso dell’Italia i tratti salienti di questa trasformazione dell’Europa sono piuttosto deboli, nonostante il nostro paese mostri un progressivo allineamento con la domanda europea per le nuove tecnologie delle rinnovabili che, in presenza di un’offerta nazionale debole, determina una propensione all’importazione che tende ad aggravare i deficit negli scambi di beni tecnologici. Nel rapporto Enea energia-ambiente 2008 si legge: “Con simili tendenze il paese corre quindi il rischio di sostituire la “quota parte” di dipendenza dalle fonti fossili con una “quota parte” più consistente di dipendenza da tecnologie per le fonti rinnovabili.”

Nei paesi europei che stanno investendo nelle clean energy technologies, e in special modo nelle tecnologie di “seconda generazione” per le fonti rinnovabili, tale capacità di leva, ancorché non rilevabile dalla misura della spesa in ricerca energetica delle imprese, appare, in effetti, assai più significativa. Contrariamente all’Italia, gli sforzi che il sistema delle imprese di questi paesi è in grado di mettere in campo sul fronte della ricerca sono di gran lunga superiori; è importante ricordare come l’elevata quota di spese in ricerca e sviluppo delle imprese sul pil sia prevalentemente il risultato di sistemi produttivi orientati a settori a medio-alta intensità tecnologica.

Il problema non è il sostegno pubblico all’introduzione di queste nuove tecnologie, piuttosto l’assenza di un tessuto produttivo adeguato a soddisfare tale domanda.

Chi immagina di sostenere la riduzione degli inquinanti attraverso l’adozione delle tecnologie o l’installazione di queste, anche grazie ai sussidi “pubblici”, non comprende la necessità di coniugare offerta e domanda di beni e servizi. Se il paese continua a domandare tecnologie “clean”, ma continua ad avere un tessuto produttivo che non intercetta questa domanda, la tendenza sarà quella di perdere lavoro buono, competenze tecniche, unitamente a una progressiva marginalizzazione dal nuovo sistema accumulativo del capitale.